2024-10-26
La poetessa che ha cantato il lupo e svelato il cuore nero della Svizzera
Mariella Mehr, poetessa (Getty)
Mariella Mehr ha portato alla luce i soprusi compiuti contro i nomadi Jenisch, di cui lei stessa è stata vittima. Nei suoi versi, tutta l’ambivalenza del mondo selvaggio, che ci libera ma è anche pericolo e legge del più forte.«Spesso canta il lupo nel mio sangue/e allora l’anima mia si apre/in una lingua straniera.//Luce, dico allora, luce di lupo,/dico, e che non venga nessuno/a tagliarsi i capelli». Questi i versi incisi sulla copertina del volume einaudiano che raccoglie i componimenti poetici di Mariella Mehr (1947-2022), Ognuno incatenato alla sua ora. Il suo fu anzitutto un caso abbastanza eclatante scoppiato nel cuore dell’Europa, se vogliamo in quel cuore protetto, morbido, regolare, dove ogni legge sembra cucita per un abitante placido e quasi coccolato dallo Stato. Quella parte più serena dell’Europa, dove i nostri nonni andavano a lavorare sopportando sì una evidente forma di razzismo, ma di certo meno violenta ed eclatante di quella contro la quale si andava a sbattere in Francia o in Germania. E poi le montagne, le città tranquille, il rifiuto della guerra, i laghi, le camminate, in questo inizio di millennio addirittura poeti italiani che vi si trasferiscono per godere dei favori di qualche fondazione o di un sistema di considerazione delle arti carica di finanziamenti e riconoscimenti. Migliori stipendi, non ci va molto, ma tant’è e di fatti c’è chi in Svizzera tratta l’argomento come un problema sociale, poiché sono comunque gli italiani che porterebbero via il lavoro agli svizzeri onesti, così dicono, e ok, chissà se hanno ragione, la distinzione nazionale resta comunque un argomento sgradevole e pregiudiziale, a qualsiasi latitudine. Il nome di Mariella Mehr divenne noto quando scoppiò il caso delle discriminazioni pesantissime che subivano gli appartenenti all’etnia «jenisch», gli zingari che abitavano la piccola Svizzera. Esisteva un programma ed esistevano degli attenti vigilanti - l’Opera di soccorso dei bambini di strada della Pro Juventute - che consideravano i figli di queste famiglie come degli sfortunati da salvare, portandoli via dalle madri e dai padri e affidandoli a istituti e ad altre famiglie. Un vero e proprio male da estirpare. Alla Mehr toccò, incredibilmente, una doppia persecuzione: lei fu ostaggio di questo meccanismo perverso da bambina e fu nuovamente travolta quando ebbe un figlio, che le venne tolto. Fu così ricoverata in ospedali psichiatrici e addirittura in carcere. Quando il giornalismo e l’opinione pubblica iniziarono a prendere coscienza di tale scasso, di una vera e propria persecuzione a carattere etnico-linguistico che avveniva nella compassata normalità della pacifica Svizzera, per fortuna le cose iniziarono a cambiare. Ma il danno oramai era compiuto e la Mehr ne fu una delle più attente narratrici, come testimoniano le sue poesie e i suoi romanzi editi in Italia da Effigie e Fandango. A onore del suo coraggio e della sua sventura fioccarono diversi premi quali lo Schiller, il Città di Zurigo,il Canton Berna, il Canton Grigioni e il nostrano Camaiore.La traduttrice e germanista Anna Ruchat ha curato la selezione delle sue poesie, individuando testi dalle raccolte Ognuno incatenato alla sua ora (1983), Notizie dall’esilio (1998), Contromondi (2001), La costellazione del lupo (2003), San Colombano e attesa (2007), oltre ad alcuni preziosi inediti e ultimissime (2014). La natura, ne scriviamo da anni su queste pagine, è ambivalente: ci libera, ci guarisce, ci può aiutare a ritrovare noi stessi in tempi più umani rispetto alla frenesia lavorativa ed esistenziale a cui ci siamo purtroppo consegnati, ma è anche pericolo, competizione, rispetto dell’elementare legge del più forte, del più rapido, del più spietato, del più astuto. Abbiamo acconsentito felicemente che gli orsi e i lupi tornassero tra noi, negli spazi d’attorno alle nostre comunità, alle nostre diffuse abitazioni, ma non avevamo considerato le conseguenze, e ora che alcuni nostri simili vengono aggrediti ci accorgiamo che urgono leggi, nuove abitudini, nuove strategie di coabitazione, una situazione platealmente irrisolvibile, poiché le nature sono quelle che sono e le leggi o le abitudini o i ripari sono comunque misure valide sulla carta, in teoria ma in pratica… Ecco, senza esasperane i toni, la doppia valenza di tutto quel che è naturale e natura pulsa nei versi delle poesie della Mehr.C’è aria di parabola in questi spazi brevi, una prossimità alle atmosfere senza tempo che si possono respirare nelle liriche di un Heiner Müller (si legga Non scriverai più a mano, Scheiwiller), il celebre drammaturgo e poeta, o di una non poetessa quale Ágota Kristóf (vedi la raccolta Chiodi, Casagrande), forse anche del mantovano Ivano Ferrari (le sue raccolte Macello o La Franca sostanza del degrado, Einaudi). Si scoprono i meccanismi celati della natura, il funzionamento del mondo e nel particolare delle macchine umane, tra «uomini di ghiaccio» e «bambini morti», «margini feriti» e «muri cadenti», dove le parole si deformano, le voci si sgretolano, le urla esplodono. I cieli sono vuoti, il sangue è vagabondo, madri e figlie sfiancate dall’odio, e si muore di continuo. «Futuro?/Non assolve/me, nata sghemba». Soprattutto le prime raccolte sono ferite aperte, ammissione di una colpevolezza involontaria ma connaturata alla proprio identità, individuale e sociale. Se c’è un animale che svicola spesso tra questi boschi scritti è il lupo, che oltremodo appare in un delicato inedito quanto, anzitutto, nel titolo della raccolta d’inizio millennio, La costellazione del lupo, un titolo se posso aggiungere molto bello. Qui la solitudine è la gravità che s’impone: incontriamo di fatti un uomo solo che scappa accanto a un torrente, per farsi sempre più piccolo, una voce che non sa più dormire e rimugina, la speranza che i trovatelli non si possono concedere; il non vedersi riflessi negli specchi, lo scomparire da un momento all’altro, parole in fiamme, gli addii, bocche che invecchiano, una contaminazione gravosa, colpevole, fino alla constatazione terminale: «Persino il silenzio/sembra prigioniero/del vuoto». Ogni forma di passione, di piacere o di vitalità non sembra mai poter attecchire o sbocciare: «Siamo scampati a noi stessi,/dici, anche se continuiamo/a cercare le parole». Eppure la donna e la madre e la moglie che vive oltre la poetessa continua a vivere, nel compitare queste parole alla carta la Mehr era andata oltre, viveva, amava, incontrava persone che l’accoglievano, che l’amavano e applaudivano, che la leggevano, non sono versi composti nel buio senza confine, in una gabbia, in una galera, o in un manicomio. E allora, per l’ennesima volta risulta evidente quanto il dolore diventi un compagno di viaggio, e chi ha sofferto l’inaudito si ritrova spesso, si veda Paul Celan, a rivivere una, cento, un milione di notti come quelle che si vorrebbe dimenticare per concedersi finalmente al vizio del vivere.
Nel riquadro: Mauro Micillo, responsabile Divisione IMI Corporate & Investment Banking di Intesa Sanpaolo (Getty Images)
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