Avete mai visto sbocciare un fiore di loto? Avessi fatto questa domanda a mio nonno quando ero bambino, probabilmente sarebbe sceso dalle sue alture placide e mi avrebbe guardato con l’occhio di chi deve ascoltare una spiegazione difficile senza aver voglia di capirci granché. Un fiore di che? Di loto nonno, il fiore di loto. Ma chi l’aveva mai visto un fiore di loto, nella pianura padana, trenta o cinquanta anni fa? Forse qualche signore benestante che aveva avuto modo di piantarne nel suo vasto giardino ottocentesco, magari un giardiniere viaggiatore ne aveva portati dall’Asia, oppure da un orto botanico. Ma di certo non era un fiore comune. Al contrario ora i fiori di loto si trovano in tanti luoghi, pubblici e privati, e non fa nemmeno strano che nel lago che costeggia Mantova vi sia, al centro, un’isola grande di fiori di loto, richiamo di non pochi turisti. Ma in vari luoghi d’Italia piccoli laghi sono stati occupati da floride rigogliose colonie di fiori di loto, con le loro grosse foglie, le fioriture bianco-violacee e quei curiosi imbuti legnosi rovesciati, forati in cima, che restano, caduti i petali e le foglie, e che di tanto in tanto si vedano nelle case, nei salotti, nelle vetrine degli interior designers.
Il monaco vietnamita Thich Nhat Hahn non posa i suoi piccoli piedi su questa terra da un paio di anni, ma le sue parole, i suoi segni, i suoi insegnamenti, continuano a spargersi, ad attecchire. La Ubiliber, emanazione editoriale dell’Ubi (l’Unione buddhista italiana), ha dato alle stampe l’incantevole Lo sbocciare di un loto - Meditazioni guidate per la consapevolezza, la guarigione e la trasformazione. Ovviamente il lettore esperto, magari anche di lungo corso, navigato, imbattendosi nel sottotitolo se la ridacchia sotto i baffi. Seee, consapevolezza, guarigione - nientemeno - e trasformazione, mah. Qualche dubbio sarà pur lecito porselo, o no? O facciamo come quei fanatici che finiscono a meditare sotto la luna e si convincono di essere dei Buddha dei nostri giorni?
Ma lasciamoci accogliere in queste pagine. Anzitutto il volume è ben curato, copertina ruvida e con un disegno stilizzato del fiore di loto, blu Cina, su sfondo arancio. La collana si chiama Linfa e ha già in catalogo nove volumi di guide spirituali non italiane (ad esempio un altro Tnh, una Charlotte Joko Beck, buddista americana, un Shunryu Suzuki, giapponese, due Pema Chodron, buddista tibetana nata a New York).
Mi piace abbordare un libro partendo dall’indice, quanto è prezioso l’indice per iniziare ad annusarne l’atmosfera, il contenuto: La consapevolezza del corpo… ritornare al corpo nel momento presente… sorridere alla vita… prendersi cura di ogni organo del corpo… meditazione sugli stadi di decomposizione del mio cadavere… (gulp!) meditazione sugli stadi di decomposizione del cadavere di una persona amata… (doppio gulp!) contemplare la natura senza nascita e senza morte del corpo…
Però, i buddisti si sa, non scherzano. Quando si tratta di morte la affrontano con un rigore che per noi ex o ancora cattolici risulta quantomeno sospetto, ma invece è autentico. D’altronde il Buddha storico iniziò il suo cammino di formazione proprio dopo aver visto nelle strade della sua sontuosa cittadina i malati e i morti. Il buddismo nasce dal desiderio di trovare una chiave per vivere la nostra vita, questa nostra esistenza, superando il terrore del dolore e della morte, della perdita di ogni cosa e dei nostri cari. Certo, l’educazione quotidiana che ci porta ad accumulare, a possedere sempre più cose e a mettere da parte risorse per un futuro ignoto e minaccioso, mal si concilia con queste altre pratiche millenarie, possibili soprattutto per coloro che abbandonano la società e trovano rifugio in un tempio, in un monastero, in una comunità religiosa. Noi laici non viviamo così: quanti tentano di mediare, di condurre la propria vita con tutti gli obblighi e i desideri, i compiti e i ruoli, e al contempo di approfondire pratiche di meditazione, di abbandono dei desideri più aggressivi e latenti, insomma di far propri i valori predicati dal buddismo, al di là della scuola di riferimento, lo zen o il buddismo tibetano o i padri della foresta eccetera, sanno che non è affatto facile, non basta meditare mezz’ora ogni mattina prima di incominciare a sbrigliare la propria matassa ordinaria, certo è un primo passo, ma poi? Ma poi ci sono appunto i ritiri, ci sono le esperienze, ci sono i libri come questo, scritto non da uno che studia anzitutto, ma da chi ha vissuto così per una vita.
«Come usare questo libro», pagina 13: «Si può meditare pressoché ovunque: seduti, camminando, sdraiati, in piedi; anche mentre si lavora, si mangia e si va in bagno. Gli esercizi di questo libro servono principalmente a guidare e a rafforzare la pratica della meditazione seduta».
«I fondamenti della meditazione guidata», pagine 13 e 14: «Le meditazioni guidate di questo libro hanno scopi diversi. Alcuni esercizi sono volti semplicemente a nutrire la gioia di essere vivi. Altri aiutano a stare in contatto con la vita, aiutano a guarire, a guardare in profondità e a lasciar andare. Altri ancora combinano due o tre di queste funzioni allo stesso tempo».
«Meditare da soli»: questo è un capitolo delicato poiché secondo molti «maestri» il buddismo esiste soltanto se condiviso da una comunità, da quel che viene detto il Sangha. Pagine 17-18: «Anche se praticate da soli, potete stare certi che le meditazioni in questo libro vi aiuteranno a trasformare la vostra vita e a ridurre la vostra sofferenza». Che fare dunque per iniziare? «Basta solo sedersi». Ma non proprio, bisogna sistemare il corpo di modo che non sia d’intralcio, per quanto non vi sia nulla di naturale e spontaneo nello stare seduti, immobili, in una posizione o in un’altra, per 30 o 40 minuti, ripetendo magari questo modulo per sei, sette, otto volte di seguito. Ci si abitua, ci si allena. Dunque? Si tenta di sgomberare la mente, e qui i problemi si sommano. Non pensare non è umano, tutti pensiamo, ma un conto è essere spettatori di qualcosa che ci balugina davanti, un conto è attaccarci, ricamarlo, lavorarci dentro. Vivere il momento presente, in casa o in un bosco, reclama di farsi spettatore, di farsi attraversare senza allungare le nostre mani. Come poterlo eventualmente imparare a fare? Seguendo gli esercizi de Lo sbocciare di un loto. Saremo poi delle persone migliore? Qui qualche dubbio potrebbe fiorire.
Qualche mese fa abbiamo indugiato su Lettera a mia madre (1974) di Georges Simenon, epistola in forma di libro composta dallo scrittore belga a seguito della morte della madre, Henrietta Maria Brüll. In quel caso la natura indagata non era il paesaggio o l’ambiente, nelle sue molteplici validità, bensì la più semplice e immediata natura umana, in quel caso la natura probabilmente più cara che nutriamo ed esercitiamo, quella dei rapporti spesso complessi, dannatamente dolorosi, altalenanti, coi genitori che ci siamo trovati in dono dalla biologia o dal destino, a seconda dei punti di vista.
Ora invece sbirceremo la vastità della produzione letteraria e giornalistica simenoniana adottando un altro criterio: il luogo. Nel 1945, Georges Simenon decide di portare la sua famiglia in Nord America, la guerra è appena terminata e l’aver in qualche misura collaborato con gli occupanti in terra di Francia diventa causa di minacce e di articoli di denuncia sui giornali; oltremodo il fratello, Christian, era stato militante di destra e aveva partecipato a spedizioni punitive che avevano causato diversi morti. Tutto questo lo consigliano di partire prima che la situazione possa farsi tragica e così il 5 ottobre, lo scrittore, sua moglie Tigy e il figlio Marc atterrano a New York. In attesa di trasferirsi in Canada, restano per alcuni giorni nella metropoli, giusto il tempo per assumere una nuova segretaria, Denyse Ouimet, che diventerà la sua nuova amante e in seguito la seconda moglie. Ma a parte le dinamiche amorose, come sappiamo labirintiche nella vita di Simenon, quel che impatta nella sua pronta immaginazione sono gli edifici, il trambusto della gente per strada, nelle piazze, nei parchi e nei musei, quel brulichio di individualità che entra e che esce, che procede. Tutto questo viversi entrerà immediatamente nella scrittura e infatti lo si evidenzia nelle pagine di uno dei più romantici tra i suoi romanzi, Tre camere a Manhattan, storia più o meno travestita del suo innamoramento con Denyse animata in tre diverse stanze della città-mondo: i protagonisti, Kai e François, si ameranno in una camera d’albergo, quindi nella camera disadorna dell’appartamento di lui, un emigrato francese, un tempo famoso attore caduto in disgrazia, e nell’appartamento di lei, che convive con un’altra donna. Intorno a loro l’ambiente di New York con tutti gli occhi che spiano, le voci che mormorano.
A novembre i Simenon allargati si trasferiscono in Quebec, in una località che ha un nome che è già avventura: Sainte Marguerite-du-Lac-Masson. Qui, nel mese di dicembre, lo scrittore che non conosce pausa termina Tre camere, mentre nei primi mesi del 1946 fa in tempo a comporre quattro romanzi, due Maigret e due altri, poi si trasferisce negli Stati Uniti, dapprima in Florida, quindi in Arizona, dove resteranno fino all’ottobre del 1949, a Carmel in California, per un anno, dunque a Lakeville, nel Connecticut, dove invece risiederanno stabilmente a Shadow Rock Farm fino alle prime settimane del 1955, allorquando saluteranno il Nord America per fare ritorno in Europa. In questo lasso di tempo, Simenon scriverà 24 storie di Maigret (ops) e alcuni dei suoi più bei romanzi non polizieschi, tra i quali L’Orologiaio di Everton, La neve era sporca, Luci nella notte, La morte di Belle, Delitto impunito, La mano, Il fondo della bottiglia e, addirittura, un western alla Sergio Leone, Il ranch della Giumenta Perduta, con tanto di pistolero solitario a cavallo.
Il paesaggio trionfa nelle pagine dei suoi romanzi americani, ma ancor più nel reportage che va a comporre facendo un viaggio in Chevrolet, allorché i Simenon partono dal Maine e arrivano a Sarasota e Anna Maria Island, sul Golfo del Messico, 5.000 chilometri dopo. Questi appunti presi sono ora pubblicati in L’America in automobile (Piccola Billioteca Adelphi, traduzione di Federica Di Lella e Maria Laura Vanorio, con una nota dell’immancabile Ena Marchi, attualmente una delle più attenti lettrici dell’opera simenoniana nel nostro Paese); il volume abbraccia il reportage e due brevi testi scritti nel 1952 e nel 1958. Oltre che romanziere e novellista, Simenon è stato un prolifico autore di reportage, ne scrisse più di 30 per varie testate giornalistiche, girando il mondo, tra il 1931 e appunto gli anni americani, attraversando la Francia, le isole dell’America centrale, le Galapagos, Tahiti, il Bosforo e diversi Paesi.
Simenon visita gli ampi spazi statunitensi con la curiosità del turista che vuole aprire quelle piccole chiesette di legno isolate nel paesaggio, simbolo di una dimensione agreste e quieta della vita, ed entrare in quelle case grandi che si incontrano lontano dagli agglomerati urbani torreggianti, sedere magari sulle sedie a dondolo scricchiolanti nei portici, sorseggiare una birra o un whisky al farsi del tramonto, e parlottare cullati da una luce in una cucina dal grande tavolo, coi tostapane lucidi, le pentole appese ai muri, i telefoni neri col ricevitore da film. Simenon ama tutto questo aspetto «tranquillo e quasi patriarcale», paesotti stretti intorno a poche vie e un mucchio di negozi. Ecco cosa scrive ad esempio delle case: «Case di legno, naturalmente. Ma sarebbe sbagliato credere che assomiglino a quegli chalet smontabili che da noi vengono costruiti in serie per le periferie. Sono vere e proprie case. Ce ne sono di immense, di un lusso stupefacente. Alcune potrebbero rivaleggiare con un castello. E sono incredibilmente confortevoli. L’inverno scorso vivevo in una così in Canada: con 30 gradi sotto zero, non abbiamo mai avuto freddo. In un’altra, grande e luminosa, ho abitato quest’estate, sulla costa atlantica, e non abbiamo sofferto né per il caldo né per il vento. Ora sto in un’altra di queste case qui al Sud. Alcune risalgono a più di un secolo fa. Una delle più antiche case degli Stati Uniti, a Provincetown, costruita nel 1625, è di legno».
Simenon ama di queste case nelle campagne le poche cose, le grandi poltrone e i divani immensamente comodi dei living room, orgoglio di qualsiasi padrona di casa. Le pareti sono tinteggiate da colori tenui, i copriletti fatti in casa. Nella sua fame di dettagli, il belga ci regala anche i prezzi di una spesa: mezzo chilo di manzo 60 franchi, mezzo litro di latte 24 franchi, una pagnotta 32 franchi, un pacchetto di sigarette 312 franchi, una pipa da 500 a 2000 franchi. E una macchina da scrivere? Annota «difficile da trovare»: 18.000 franchi. Curioso che ragionasse ancora in franchi e non già in dollari.
Ogni tanto accade. Ogni tanto l’ingrato mondo delle patrie lettere si accorge di aver lasciato qualcuno, o qualcuna, indietro. Non spesso, e quando capita in genere se ne occupano editori piccoli o medi, comunque diretti da lettori che non si accontentano dei numeri di vendita e della pagine sul Corriere o Repubblica. Raramente se ne occupano pesi massimi della nostra editoria. È invece il caso di Inès Cagnati (da leggersi ovviamente con l’accento piombante sulla i), recuperata dagli esploratori di Adelphi che in una manciata di anni ci ha restituito quasi integralmente l’opera di una scrittrice che in Francia fu per alcuni anni amata, tanto da essere poi ripubblicata nella diffusissima ed economica serie Folio. Con l’uscita in queste settimane della raccolta di racconti I pipistrelli (1989, Premio del racconto dell’Accademia Francese), abbiamo finalmente disponibile l’opera di questa curiosa autrice. Negli anni scorsi infatti erano già usciti, con crescente attenzione dei nostri lettori-recensori, i romanzi Giorno di vacanza (1973, Premio Roger Nimier) e Génie la matta (uscito nel 1976, Premio des Deux Magots). Le traduzioni sono di Lella Marchi, attenta studiosa di tanta buona letteratura francofona, Lorenza di Lella e Francesca Scala. Manca all’appello soltanto il romanzo Mosé o la lucertola che piangeva (1979).
Anzitutto: chi è stata Ines Cagnati? Per vedere il viso di questa donna ho recuperato un’edizione francese della collana Biblioteque du Temps Présent, edito nel 1977, che si apre con una fotografia ed un’intervista che possiamo leggere al fine dell’edizione italiana di Génie la matta.
Figlia di immigrati veneti, è nata nel 1937 nel piccolo comune agricolo di Monclar-d’Agenais, è cresciuta nell’emarginazione destinata agli italiani e vivissima fino a pochi decenni fa, dalla quale si è estraniata grazie allo studio, come è stato invero per tanti figli di contadini, artigiani e operai. Diventata insegnante, ha iniziato a coltivare la scrittura e ha debuttato a trentasei anni col suo primo romanzo, riscuotendo i primi riconoscimenti di stima. Si sposa con un ingegnere franco-italiano, Yves Angioletti, col quale fa un figlio, Bruno. Viaggia, per seguire la famiglia e poi insegna. Resterà sempre in disparte rispetto alla ribalta dell’editoria, anzitutto per una questione di carattere, ma d’altronde dove sta scritto che bisogna frequentare assiduamente caffè, salottini e programmi radiofonici per essere scrittori? Mica sono tutti come quelli che ci abituiamo ad incontrare sugli schermi televisivi oggigiorno, ai quali sembra non bastare mai. D’altronde è sufficiente infilare gli occhi in uno dei suoi tre fiammanti libri per capire quale mondo, la Cagnati, ha tentato di decriptare e si è cucita addosso. Muore nel 2007 a Orsay, cittadina a trenta km da Parigi.
Le trame dei due romanzi, in oscenico breve, trattano di solitudini, emarginazione, ignoranza, ma anche d’inventiva, del piacere di vivere nonostante tutto, certo, in case che noi probabilmente non saremmo più pronti ad abitare, senza particolari prospettive nel futuro ma radicatissimi nella terra, contadini, raccoglitrici di erbe, pastori, mercanti, osservatori dei più elementari istinti che dominano, o dominavano le piccole comunità del tempo, non poi così diverse dalle nostre, che fossero, in tempi di trionfante fascismo, di guerra o dei più politicizzati anni Cinquanta, la campagna della Nuova Aquitania o la bassa bergamasca, le risaie novaresi o semmai il Tavoliere foggiano. Giorno di vacanza: Galla è una ragazza, pelle scura, da zingara, abita nella povertà ma vorrebbe fuggire e allora inforca la sua bicicletta e si mette in viaggio per raggiungere la madre. Attraverserà un mondo ostile, meraviglioso forse ai nostri occhi così attenti alle particolarità botaniche e ambientali, ma misero, chiuso, costantemente offensivo e respingente. Génie la matta: c’è una donna, Eugenie, che è stata violentata, incinta del diavolo ha partorito una figlia bastarda e questo è bastato per essere messa all’indice, ostracizzata e ripudiata dai famigliari; quanto erano meravigliose e comprensive le famiglie in quelle lande spesso tanto idealizzate… il tutto visto dagli occhi della figlia, Marie, che alla madre vuole bene, eccome, e che il mondo non sempre riesce a capirlo, anzi, quasi mai. I pipistrelli: sette racconti. Basti per tutti L’infedele, ritratto di un cane senza padrone, che la voce narrante ama, le fa compagnia, lo vorrebbe sempre con sé ma invece se ne va a zonzo e quando ritorna è spesso malmesso. Dolcezza, asprezza, storie della vita di un tempo.
C’è speranza anche tra queste pagine? La poesia non è morta? Oltre la cattiveria gratuita dell’essere umano e le condizioni di quei mondi, le persone cercano comunque di godersi quel che possono, e si legga questo passo da un altro racconto, Le carovane del sale: «Ho guardato le vigne tempestate di tulipani selvatici, quelli gialli lunghi ed esili, quelli rossi più paffuti, e di ornitogalli che mia madre chiama stelle dei campi. L’erba del terrapieno era scintillante di sole. Mi riempiva di gioia vedere tanta bellezza. Allora mi sono messa a ballare dondolando forte la cesta». L’ornitogallo è una bulbosa autunnale con abbondante fioritura a petali bianchi, detta anche Stella di Betlemme.
Lasciamo che sia la stessa autrice a dirci qualcosa del suo mondo di parole: «Non sono stata una bambina molto felice… […] Penso che di infanzie-paradiso non ce ne siano molte. Se l’adulto sogna spesso di rivivere l’infanzia è solo perché si figura che ora saprebbe riviverne una felice al sole… […] I diseredati sono a tal punto incapaci di vivere, di essere un po’ felici che spesso la società e il mondo appaiono loro come una muraglia… […] Sono figlia di contadini e di conseguenza ho fatto tutti i lavori della fattoria. Li conosco, insomma: le mie sorelle e io, inoltre, siamo andate ogni estate a servizio da altri per comperarci vestiti o semplicemente da mangiare. Mi è rimasto l’amore per la terra, l’acqua, gli alberi e il sole. Ma mi è rimasto anche il piacere del silenzio e della pazienza» (dall’intervista citata alcune righe sopra).
Uno degli articoli più puntuali usciti sul - per noi - nuovo caso della Cagnati l’ha composto Cristina Marconi sulle pagine del Foglio, un annetto fa, ricostruendone la vita e la parabola editoriale: «L’infelicità dell’infanzia è qualcosa da cui non si guarisce e che si può guardare in faccia solo articolandola, restituendola attraverso delle immagini, tra cui quella centrale della madre […] tutto è espresso in una maniera più rude, dura, con una bestialità da cui non ci si emancipa», scrive la Marconi. Non ci si emancipa? Mai? Nemmeno attraverso l’arte? La maturazione? La distanza? Chissà.





