2025-07-04
Altro che deliri di Bruxelles. Sì alla maxi legge fiscale Usa che seppellisce il «green»
Ok finale della Camera alla rivoluzione della spesa pubblica: su fondi per la sicurezza e contro l’immigrazione. Falcidiati i crediti per l’«energia verde» e le auto elettriche.Maros Sefcovic a Washington per trattare. Accordo Usa-Vietnam: vola l’indice di Ho-Chi-Minh.Lo speciale contiene due articoliCon il voto finale di ieri, la Camera ha approvato definitivamente la legge fiscale che rivoluziona la spesa pubblica degli Stati Uniti, fortemente voluta da Donald Trump e ribattezzata The one big beautiful bill. I contenuti della nuova legge (passata, dopo l’ok del Senato grazie al voto di JD Vance, anche nell’altro ramo con 218 voti a 214) sono assai dolorosi per le aziende green, anche se la versione iniziale era ancora più severa.Il Big beautiful bill è molto ampio e sul fronte della spesa si concentra sul rinnovo di esenzioni fiscali che sarebbero scadute quest’anno, oltre che sull’introduzione di nuove agevolazioni fiscali fino al 2028. Aumenteranno le spese per la sicurezza e il contrasto all’immigrazione illegale (di 175 miliardi di dollari), nonché per la difesa. Vi saranno incentivi per la produzione industriale made in Usa.Sul fronte delle entrate, il Big beautiful bill prevede tagli ai programmi sociali Medicaid e Snap (buoni pasto) per complessivi 1.200 miliardi di dollari in dieci anni. Vengono poi falcidiati i crediti fiscali per l’energia verde e le auto elettriche, definiti da Trump una «gigantesca truffa», per un valore di circa 370 miliardi di dollari. Eliminata la gran parte dei crediti fiscali e degli incentivi per impianti fotovoltaici ed eolici, per i veicoli elettrici e per l’efficienza energetica che erano stati istituiti dall’Inflation reduction act (Ira) lanciato da Joe Biden nel 2022. Ironia della sorte, l’Ira fu approvato con il voto unanime dei democratici al Congresso, che vinsero 51-50 al Senato con il voto decisivo dell’allora vicepresidente Kamala Harris.La legge è passata al Senato dopo una maratona di discussioni, emendamenti e voti che ha impegnato i senatori per 27 ore consecutive.Saranno eliminati immediatamente i crediti fiscali per nuovi impianti fotovoltaici ed eolici, fatta eccezione per i progetti già approvati che iniziano la costruzione entro 12 mesi dall’entrata in vigore della legge: potranno godere dei crediti dell’Ira se entreranno in funzione entro il 31 dicembre 2027.Restano i crediti fiscali dell’Ira per i progetti di geotermia, idroelettrico e per le batterie.La nuova legge, però, esclude dai crediti fiscali i progetti che hanno legami con aziende controllate da Cina, Russia, Corea del Nord e Iran. Nel 2026 il 55% dei materiali di una batteria per auto dovrà essere privo di componenti cinesi, percentuale che sale al 75% al 2030. La misura impatta fortemente sulle possibilità di sviluppo di iniziative di questo tipo, dato il quasi monopolio della Cina sui materiali e sulle tecnologie per le batterie.I crediti per l’acquisto di un’auto elettrica finiranno il 30 settembre prossimo, mentre gli sconti per pompe di calore, infissi isolanti e impianti fotovoltaici casalinghi scadranno entro fine anno. I crediti d’imposta per l’installazione di stazioni di ricarica presso abitazioni o aziende scadranno il 30 giugno 2026.Il carbone metallurgico viene definito minerale critico e potrà così accedere a crediti fiscali. Esteso invece il credito fiscale per la produzione di idrogeno rinnovabile fino al primo gennaio 2028, rispetto alla scadenza 2025 prevista dal disegno di legge iniziale. Si tratta comunque di un taglio rispetto alla data del 2033 prevista dall’Ira.Cancellati i finanziamenti previsti dall’Ira a una serie di uffici e programmi, tra cui il Fondo per la riduzione dei gas serra, la decarbonizzazione degli edifici federali, l’utilizzo di materiali a basse emissioni di carbonio nella costruzione di nuove infrastrutture di trasporto, sovvenzioni per Stati, Comuni e tribù per creare e attuare piani di riduzione delle emissioni, un programma per aiutare le aziende del gas e del petrolio a ridurre i rifiuti e le emissioni di metano.La legge in Senato è stata contrastata da tre senatori repubblicani, mentre i democratici sono rimasti uniti all’opposizione, sostenendo che i tagli previsti dal disegno di legge a Medicaid e ad altri programmi per le persone a basso reddito finanzieranno tagli fiscali per i ricchi.Come detto, è arrivato nella serata italiana il voto della Camera dei rappresentanti sugli emendamenti approvati al Senato. La maggioranza repubblicana alla Camera, già non solidissima (220 a 212), è stata sottoposta a una durissima trattativa, al termine della quale il presidente della Camera, il repubblicano Mike Johnson, ha annunciato che la legge sarebbe stata messa subito in discussione, dopo aver superato le resistenze di cinque «dissidenti» del Gop. I democratici hanno adottato una tattica dilatoria: il deputato Hakeem Jeffries, leader dei democratici, ha sfruttato il cosiddetto «magic minute», cioè la possibilità di parlare ininterrottamente per tutto il tempo desiderato. Il suo intervento ha battuto il record per il discorso più lungo in Aula, arrivando a 8 ore e 45 minuti. Concluso il discorso, Johnson ha chiuso il dibattito e ha chiesto il voto della Camera sul testo finale. È finita con un divario di soli quattro voti a fronte di un teorico distacco di otto in favore del partito di Trump. Ma conta solo il risultato finale: il «BBB» odiato da Elon Musk (vedremo se terrà fede alla promessa di fondare un partito, adesso) attende ora solo la firma dell’inquilino della Casa Bianca.La legge chiarisce uno dei punti fondamentali della politica interna di Trump: fine delle sovvenzioni al green, a vantaggio di sgravi fiscali per famiglie e imprese. L’Ira di Biden va parzialmente in soffitta e con essa i ricchi sussidi, tra cui anche gli sgravi fiscali sull’acquisto di auto elettriche che avevano contribuito non poco ai successi della Tesla dell’ex amico Musk.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/legge-fiscale-usa-anti-green-2672629417.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="toh-i-dazi-non-devastano-leconomia-ursula-gufa-accordo-impossibile" data-post-id="2672629417" data-published-at="1751612769" data-use-pagination="False"> Toh, i dazi non devastano l’economia. Ursula gufa: «Accordo impossibile» A Washington i negoziati per chiudere l’accordo commerciale sono in pieno svolgimento. Nonostante i sorrisi, la Commissione europea è già pronta ad alzarsi dal tavolo se Donald Trump dovesse chiedere una tariffa doganale più alta del 10%. Il Commissario al Commercio, Maros Sefcovic, è arrivato a Washington con il consueto carico di speranze e promesse diplomatiche, ma Ursula von der Leyen, la presidente della Commissione, ha prontamente fatto capire che la soluzione potrebbe non essere proprio dietro l’angolo. Parole dure. Molto pesanti: «Siamo pronti per un accordo, ma ci stiamo preparando nel caso non si raggiunga nulla di soddisfacente», ha sentenziato.Cosa significa tutto ciò? Che mentre Maros cerca di fare il «lobbista» in giacca e cravatta con i funzionari americani, Ursula non perde occasione per gufare puntando sulle criticità della trattativa. Gli Stati Uniti, dal canto loro, appaiono più ottimisti: il segretario al Tesoro, Scott Bessent, ha assicurato che si lavora «diligentemente», anche se a decidere sarà Trump. La scadenza è fissata per il 9 luglio.Il presidente potrebbe prendersi tutto il tempo che gli serve. Tanto più che, nonostante il bombardamento mediatico sui rischi della guerra commerciale, l’economia statunitense continua a macinare numeri positivi. L’industria ha registrato un incremento del 8,2% degli ordini di beni manufatti a maggio, il balzo più grande dal 2014. E che dire del mercato del lavoro? Nonostante tutto, gli Stati Uniti aggiungono 147.000 posti di lavoro a giugno, con il tasso di disoccupazione sceso al 4,1%. La risposta è semplice: dazi o non dazi, l’America corre, come un atleta che non si preoccupa della buccia di banana sul terreno.E l’Europa? Anche qui numeri positivi. L’indice Pmi che misura la produzione per l’area euro ha raggiunto i 50,6 punti superando quota 50 che rappresenta il confine tra crescita e stagnazione. Alcuni Paesi come Irlanda, Spagna e Italia continuano a crescere, seppur a un ritmo meno frenetico rispetto a Washington. L’Italia, per esempio, ha visto l’indice dei servizi salire a 52,1 punti. A fare ombra su questi successi, ci sono i dati di bilancia commerciale Usa. Sono in peggioramento e questo spiega la rigidità di Trump. Il disavanzo a maggio è salito ai 71,5 miliardi di dollari. Lo squilibrio con l’Unione europea è cresciuto a 22,5 miliardi di dollari, un dato che sta alla base del l’accanimento della Casa Bianca nei confronti della Ue. Non sarà facile trovare un punto di caduta. Tuttavia chi c’è riuscito ha festeggiato. È il caso del Vietnam la cui Borsa ieri, dopo la firma del protocollo d’intesa con Washington, che ha ridotto i dazi dal 46% al 20%, ha raggiunto il tetto di 1.390 punti, che non vedeva dal 2022. Sembrerebbe una piccola storia per un listino di periferia. Invece merita i riflettori per un giorno. Primo flash: il Vietnam, ufficialmente, è ancora una Repubblica popolare e dunque con la Borsa dovrebbe avere poco a che fare. Anzi dovrebbe chiuderla. E forse il governo di Hanoi, per ottenere l’assoluzione nel paradiso comunista ha dato all’indice un nome che li dovrebbe assolvere. Si chiama Ho Chi Min Index, dal nome del capo politico che insieme al generale Giap ha guidato i Vietcong alla vittoria contro i Marines. È passato più di mezzo secolo dalla fine del conflitto e per molte pantere grigie occidentali tutto questo è uno choc. Ma che dire? Mentre gli altri cercano di sistemare il mondo, i vietnamiti corrono come facevano a Da Nang e sulle rive del Mekong. Ora lo fanno in Borsa. Chi l’avrebbe mai detto.