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2019-08-08
La mozione inutile sulla Tav umilia i grillini al Senato e avvicina la fine del governo
Ansa
I due vicepremier che non si salutano, il gelo tra Matteo Salvini e Danilo Toninelli, il senatore Alberto Airola che sbaglia i chilometri della Tav e la collega che tenta di correggerlo si mette le mani sulla faccia, il M5s che grida all'inciucio, la Lega che annuncia conseguenze politiche e il Pd che vuole Giuseppe Conte al Quirinale. Sono i momenti di una giornata di «ordinaria follia» a Palazzo Madama sulla Tav che ha di fatto aperto la prima vera crisi del governo gialloblù. La mozione grillina che impegnava il Parlamento a stoppare l'opera, non certo il governo, quindi con zero conseguenze sull'esecutivo, pur bocciata è diventata l'innesco dell'incendio nella maggioranza.
Il Senato ha respinto il testo del M5s contro la realizzazione dell'opera nonostante il via libera arrivato dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte: la mozione pentastellata ha incassato 181 voti contrari e 110 a favore, peraltro 3 voti in più dei 107 senatori grillini (uno di essi il Pd Tommaso Cerno). Bocciata quella del M5s (che ha assorbito anche quella contraria di Leu) sono state approvate invece tutte quelle favorevoli alla Tav, votate dalle opposizioni e dalla Lega: il documento del Pd con 180 sì, 109 contrari e un astenuto; la mozione Bonino con 181 sì, 107 no e un astenuto; quella di Fdi è passata con 181 sì, 109 no e un astenuto; infine quella di Fi ha preso un voto in più ottenendo 182 voti favorevoli, 109 no e 2 astenuti.
La partita alla fine si è chiusa sul 4 a 1 con una maggioranza che aveva plasticamente mostrato le sue due facce quando la presidente del Senato, Elisabetta Casellati, aveva dato la parola al governo e sono intervenuti il viceministro leghista all'Economia Massimo Garavaglia che ha invitato «a votare a favore di tutte le mozioni che dicono sì alla Tav, e contro chi blocca il Paese» e contemporaneamente si è alzato Vincenzo Sant'Angelo, sottosegretario grillino ai rapporti con il Parlamento, per annunciare che «l'esecutivo si rimette al parere del Parlamento». Tanto che poi Garavaglia, allargando le braccia ha ammesso: «Siamo il governo del cambiamento».
Del resto i rappresentanti del governo fondato su un «contratto» ieri erano materialmente divisi, più del solito: da una parte dei banchi i leghisti, dall'altra i grillini. Tra i primi Giulia Bongiorno, Matteo Salvini, Gian Marco Centinaio e Erika Stefani. Tre sedie vuote, compresa quella del premier, li dividevano dai grillini Riccardo Fraccaro e Danilo Toninelli, avversario della Tav e sfiduciato platealmente dal leader della Lega. E proprio lui, il ministro delle Infrastrutture che ieri in un'intervista al Corriere della Sera aveva cui ha definito il leader leghista come «un nano sulle spalle di giganti che lavorano» aveva appena ricevuto il tweet di risposta di Salvini: «Gli insulti di Renzi, della Boschi e del Pd mi divertono, gli attacchi quotidiani dei 5 stelle mi dispiacciono. Come si fa a lavorare così?». Poi è arrivato Luigi Di Maio, che è andato a sedersi tra i banchi del governo senza salutare il collega vicepremier.
Il capogruppo della Lega Massimiliano Romeo nel suo intervento ha lanciato un avvertimento: «Diremo sì a tutte le mozioni pro Tav, anche quella del Pd. La mozione M5s impegna il Parlamento e non il governo, ma la questione politica resta. Se fate parte del governo dovete essere a favore della Tav. Se votate no ci saranno conseguenze».
Il M5s fin dall'inizio della seduta ha gridato all'inciucio: «La cosa più ridicola è che la Lega li sostiene dopo che il Pd ha presentato una mozione di sfiducia su Salvini. L'inciucio è servito! Aprite gli occhi!». Poco prima dell'apertura della seduta, infatti, il Pd aveva deciso di ridurre il testo della sua mozione a sole tre righe per impegnare il governo «ad adottare tutte le iniziative necessarie per consentire la rapida realizzazione della nuova linea ferroviaria Tav Torino-Lione», eliminando la premessa dove il Pd criticava l'atteggiamento del governo e le indecisioni all'interno della maggioranza sulla realizzazione della nuova infrastruttura. La mozione «innocua» ha consentito un voto trasversale, dal centrosinistra al centrodestra, compresa la Lega. E infatti, Romeo aveva detto: «Sono due righe, la votiamo certamente, votiamo sì».
Inciucio o no, dopo il voto anche il capogruppo grillino Stefano Patuanelli ha provato a ridimensionare la spaccatura: «La cosa surreale è dimenticarsi che questa è una repubblica parlamentare, non un premierato». Come a sottolineare che la mozione ha impegnato le Camere, quindi non c'è alcuna conseguenza per il governo. Non ha pensato alle conseguenze il ministro Toninelli che ha ribadito: «Ho votato no, vado avanti sereno».
Dopo la votazione il leader del Pd Nicola Zingaretti è stato tranchant: «Il governo non ha più una maggioranza. Il presidente Conte si rechi immediatamente al Quirinale dal presidente Mattarella per riferire della situazione di crisi che si è creata» mentre non è mancato il commento del senatore Matteo Renzi: «Ogni giorno i 5 stelle mangiano cucchiaini di merda. La partita Salvini-Di Maio? 6-0, 6-1». Ma poi attacca Salvini: «Non ha le palle, non è una persona coraggiosa. Se il governo non cade ora andrà avanti oltre maggio 2020, quando ci saranno nuove nomine».
Alla fine della mattinata la Tav è salva e la presidente del Senato, Alberti Casellati, ha augurato buone vacanze a tutti. Non sapendo, però, che di lì a poche ora la situazione sarebbe precipitata, trascinando l'esecutivo sull'orlo dell'abisso.
Il Pd spara a salve per tenersi le cadreghe
«Richiamiamo Tafazzi in servizio?». La domanda di Luciano Nobili, renziano doc del Partito democratico, è decisiva nel giorno del golpe mancato in Senato ed è l'unica certezza dentro il mondo dem, confuso e contorto perfino più del governo sulla Tav. Bisognerebbe richiamarlo, il Tafazzi, con la sua bottiglia pronta all'uso, simbolo di un'opposizione (e nel calderone ci sta come d'autunno anche Forza Italia) che poteva legittimamente creare una crisi di governo (poi comunque partita per autocombustione) ma non lo ha fatto. Perché anche più incollata alle poltrone di coloro che, sugli scranni della maggioranza, sono accusati d'esserlo.
Il problema del Pd è il tafazzismo congenito: Tafazzi perché ha tenuto in piedi il governo votando con il centrodestra e Tafazzi se lo avesse fatto cadere votando con i No Tav grillini dopo un decennio di incondizionati Sì all'opera. Un partito con le spalle al muro, che non se l'è sentita di seguire il suggerimento di Carlo Calenda. Alla vigilia il leader degli europeisti in Lacoste aveva colto il punto debole di tutta la faccenda e aveva lanciato l'idea sorniona: «Facciamo cadere questo governo, le opposizioni non presentino mozioni. Basterebbe uscire dall'aula al momento del voto per far abbassare il quorum. L'opera non sarebbe comunque in discussione perché il governo ha risposto all'Unione europea, perché ci sono i trattati internazionali. La verità è che se passa la mozione dei 5 stelle il governo andrà a casa come ha detto Matteo Salvini».
Sulla stessa linea era Luigi Zanda, che aveva in qualche modo solleticato l'appetito di Nicola Zingaretti e il suo favore nei confronti della spallata. Così il segretario ha contattato il capogruppo al Senato, Andrea Marcucci, e lo ha invitato a tentare lo sgambetto. La risposta è stata un deciso niet ammantato di coerenza tematica sulla Tav, dietro la quale c'è la rinuncia a fare politica (quindi a creare i presupposti per una sanguinosa crisi di Ferragosto) in nome delle poltrone. Il ragionamento è semplice: molti parlamentari del Pd sono ancora profondamente renziani, lontani dal segretario. Quindi contrari a tornare alle urne perché consapevoli che nelle liste per i collegi stilate dal vertice zingarettiano, per tanti di loro non ci sarebbe posto.
Dopo il disastro in Senato, lo stesso Marcucci che qualche ora prima aveva fatto consapevolmente da stampella al governo per puro calcolo opportunistico chiede al premier Giuseppe Conte di dimettersi «perché la maggioranza non c'è più. Sono umanamente vicino ai colleghi del Movimento 5 stelle e mi rendo conto della loro frustrazione. Non riescono a mantenere una promessa». Il temporale d'estate in casa Pd prosegue con la critica di Zanda alla scelta di Marcucci e a quel voto salvagoverno dei renziani. «Sono a favore della Tav» dice il tesoriere del partito, «ma ho votato per disciplina del gruppo perché politicamente sarebbe stato molto più utile uscire dall'aula e far emergere con più forza l'incompatibilità conclamata fra Lega e 5 stelle».
Lacrime di coccodrillo, coerenza a orologeria, occasione mancata di portare l'affondo decisivo. Doveva essere il giorno più debole della maggioranza, finisce per diventare la Caporetto strategica del Pd, incapace di affermare il principio fondante di un ruolo: l'opposizione sostanzialmente si oppone. Anche Forza Italia avrebbe potuto dare un segnale, ma Silvio Berlusconi si è limitato a ribadire: «Questo Parlamento non è in grado di esprimere maggioranze diverse. Nuove elezioni sono la soluzione migliore». Mentre il Senato chiude per ferie, rimane aperta l'eterna polemica a sinistra. E Nobili, quello che evocò Tafazzi, tira amaramente le somme con una domanda retorica: «Alla fine Zanda chi attacca violentemente e con gli stessi argomenti dei grillini? Matteo Renzi. Sono irrecuperabili». Meglio andare al mare.
La sfida da Sabaudia: «Qualcosa si è rotto»
Quella che sembrava l'ennesima, scontata, e senza conseguenze, dimostrazione di forza leghista nei confronti dell'alleato-vassallo è diventata invece la miccia che rischia di mandare in cenere l'intero esecutivo sintetizzata nel «qualcosa si è rotto, troppi no» pronunciato da Matteo Salvini dal palco di Sabaudia alla fine di una giornata convulsa.
Andiamo con ordine. Prima che la mozione pentastellata che voleva impegnare il Senato a opporsi alla Tav (mossa istituzionalmente ridicola in sé, dopo il via libera del premier all'opera) venisse asfaltata, il capogruppo leghista a Palazzo Madama, Massimiliano Romeo, aveva preso la parola accendendo le polveri: «È una questione politica. Il Movimento 5 stelle si assumerà la responsabilità. È una questione di credibilità di tutto il governo, ci saranno conseguenze». Un particolare non deve sfuggire. Il leghista poco prima dell'intervento ha parlato fitto fitto con il vicepremier Matteo Salvini, presente in Aula per tutte le votazioni. È abbastanza palese, quindi, che il messaggio del leader leghista ai suoi è stato quello di alzare marcatamente i toni, pronto a trasformare la provocazione grillina (la mozione anti Tav) in una leva politica per mettere all'angolo loro e Conte.
Archiviato il voto, con la figuraccia grillina che vede il proprio partner di governo votare tutte le mozioni delle opposizioni a favore dell'alta velocità, succede infatti qualcosa. Per buona parte del pomeriggio il consueto cicaleccio di tweet, agenzie, video della maggioranza si tace. Nessuna comunicazione per tre ore. Di più, il Viminale fa sapere che il comizio ad Anzio del ministro, previsto per le 17, è annullato. Confermato solo quello delle 21 a Sabaudia. La chiusura delle comunicazioni, sia in casa leghista che grillina, ha immediatamente fatto pensare a qualcosa di grosso in pentola. Solo poco prima delle 20 i primi lanci di agenzie hanno fatto chiarezza: «È in corso a Palazzo Chigi, a quanto si apprende, un colloquio tra il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e il ministro dell'Interno e vicepremier Matteo Salvini, che è giunto poco dopo le 19 nella sede del governo». Al termine fonti leghiste di Palazzo Chigi riferiscono che «l'incontro tra il vicepremier Salvini e Giuseppe Conte è stato lungo, pacato e cordiale».
Ma sotto la superficie il magma del malcontento del ministro dell'Interno ribolle. Fonti vicine al capo leghista confermano che mai come in queste ore la tanto evocata crisi si è materializzata. Forte dell'aver incassato l'ennesima vittoria tattica, vedi la Tav, il segretario vuole passare all'incasso. Ovvero rimuovere quegli ostacoli al fare, al rilancio, che passano sotto i nomi di alcuni ministri M5s: Danilo Toninelli, ovviamente, ma anche Elisabetta Trenta (Difesa) e un terzo membro di governo. Tutto farebbe pensare a Giovanni Tria, titolare del Mef, anche se conferme dirette di una richiesta di sacrificio da parte di Salvini non ci sono state. Più probabile che il terzo sia il titolare dell'Ambiente Sergio Costa. In ogni caso, è il succo leghista, o Conte (che ha rinviato la conferenza stampa prevista per stamattina) - e il Quirinale - accettano un robusto rimpasto, magari accompagnato da una riscrittura del contratto di governo, che aprirebbe di fatto la strada a un Conte bis, o è meglio votare. Convinti, in via Bellerio, che la finestra di ottobre sia praticabile, delegando l'impostazione della manovra ai tecnici salvo poi imprimervi la curvatura politica una volta insediato il nuovo esecutivo, con un maxi emendamento.
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I senatori bocciano il documento del M5s mentre il Carroccio vota quello a favore di Pd, Fi, Fdi ed Emma Bonino. I pentastellati gridano all'inciucio ma la Lega dà il via al redde rationem.Il gruppo dem a trazione renziana (e anche Fi) non esce dall'Aula quando potrebbe. Tutto per sopravvivere.L'escalation di Matteo Salvini dopo il silenzio totale del pomeriggio: incontro con il premier e poi il comizio notturno.Lo speciale contiene tre articoli.I due vicepremier che non si salutano, il gelo tra Matteo Salvini e Danilo Toninelli, il senatore Alberto Airola che sbaglia i chilometri della Tav e la collega che tenta di correggerlo si mette le mani sulla faccia, il M5s che grida all'inciucio, la Lega che annuncia conseguenze politiche e il Pd che vuole Giuseppe Conte al Quirinale. Sono i momenti di una giornata di «ordinaria follia» a Palazzo Madama sulla Tav che ha di fatto aperto la prima vera crisi del governo gialloblù. La mozione grillina che impegnava il Parlamento a stoppare l'opera, non certo il governo, quindi con zero conseguenze sull'esecutivo, pur bocciata è diventata l'innesco dell'incendio nella maggioranza.Il Senato ha respinto il testo del M5s contro la realizzazione dell'opera nonostante il via libera arrivato dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte: la mozione pentastellata ha incassato 181 voti contrari e 110 a favore, peraltro 3 voti in più dei 107 senatori grillini (uno di essi il Pd Tommaso Cerno). Bocciata quella del M5s (che ha assorbito anche quella contraria di Leu) sono state approvate invece tutte quelle favorevoli alla Tav, votate dalle opposizioni e dalla Lega: il documento del Pd con 180 sì, 109 contrari e un astenuto; la mozione Bonino con 181 sì, 107 no e un astenuto; quella di Fdi è passata con 181 sì, 109 no e un astenuto; infine quella di Fi ha preso un voto in più ottenendo 182 voti favorevoli, 109 no e 2 astenuti.La partita alla fine si è chiusa sul 4 a 1 con una maggioranza che aveva plasticamente mostrato le sue due facce quando la presidente del Senato, Elisabetta Casellati, aveva dato la parola al governo e sono intervenuti il viceministro leghista all'Economia Massimo Garavaglia che ha invitato «a votare a favore di tutte le mozioni che dicono sì alla Tav, e contro chi blocca il Paese» e contemporaneamente si è alzato Vincenzo Sant'Angelo, sottosegretario grillino ai rapporti con il Parlamento, per annunciare che «l'esecutivo si rimette al parere del Parlamento». Tanto che poi Garavaglia, allargando le braccia ha ammesso: «Siamo il governo del cambiamento».Del resto i rappresentanti del governo fondato su un «contratto» ieri erano materialmente divisi, più del solito: da una parte dei banchi i leghisti, dall'altra i grillini. Tra i primi Giulia Bongiorno, Matteo Salvini, Gian Marco Centinaio e Erika Stefani. Tre sedie vuote, compresa quella del premier, li dividevano dai grillini Riccardo Fraccaro e Danilo Toninelli, avversario della Tav e sfiduciato platealmente dal leader della Lega. E proprio lui, il ministro delle Infrastrutture che ieri in un'intervista al Corriere della Sera aveva cui ha definito il leader leghista come «un nano sulle spalle di giganti che lavorano» aveva appena ricevuto il tweet di risposta di Salvini: «Gli insulti di Renzi, della Boschi e del Pd mi divertono, gli attacchi quotidiani dei 5 stelle mi dispiacciono. Come si fa a lavorare così?». Poi è arrivato Luigi Di Maio, che è andato a sedersi tra i banchi del governo senza salutare il collega vicepremier.Il capogruppo della Lega Massimiliano Romeo nel suo intervento ha lanciato un avvertimento: «Diremo sì a tutte le mozioni pro Tav, anche quella del Pd. La mozione M5s impegna il Parlamento e non il governo, ma la questione politica resta. Se fate parte del governo dovete essere a favore della Tav. Se votate no ci saranno conseguenze».Il M5s fin dall'inizio della seduta ha gridato all'inciucio: «La cosa più ridicola è che la Lega li sostiene dopo che il Pd ha presentato una mozione di sfiducia su Salvini. L'inciucio è servito! Aprite gli occhi!». Poco prima dell'apertura della seduta, infatti, il Pd aveva deciso di ridurre il testo della sua mozione a sole tre righe per impegnare il governo «ad adottare tutte le iniziative necessarie per consentire la rapida realizzazione della nuova linea ferroviaria Tav Torino-Lione», eliminando la premessa dove il Pd criticava l'atteggiamento del governo e le indecisioni all'interno della maggioranza sulla realizzazione della nuova infrastruttura. La mozione «innocua» ha consentito un voto trasversale, dal centrosinistra al centrodestra, compresa la Lega. E infatti, Romeo aveva detto: «Sono due righe, la votiamo certamente, votiamo sì».Inciucio o no, dopo il voto anche il capogruppo grillino Stefano Patuanelli ha provato a ridimensionare la spaccatura: «La cosa surreale è dimenticarsi che questa è una repubblica parlamentare, non un premierato». Come a sottolineare che la mozione ha impegnato le Camere, quindi non c'è alcuna conseguenza per il governo. Non ha pensato alle conseguenze il ministro Toninelli che ha ribadito: «Ho votato no, vado avanti sereno».Dopo la votazione il leader del Pd Nicola Zingaretti è stato tranchant: «Il governo non ha più una maggioranza. Il presidente Conte si rechi immediatamente al Quirinale dal presidente Mattarella per riferire della situazione di crisi che si è creata» mentre non è mancato il commento del senatore Matteo Renzi: «Ogni giorno i 5 stelle mangiano cucchiaini di merda. La partita Salvini-Di Maio? 6-0, 6-1». Ma poi attacca Salvini: «Non ha le palle, non è una persona coraggiosa. Se il governo non cade ora andrà avanti oltre maggio 2020, quando ci saranno nuove nomine».Alla fine della mattinata la Tav è salva e la presidente del Senato, Alberti Casellati, ha augurato buone vacanze a tutti. 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Bisognerebbe richiamarlo, il Tafazzi, con la sua bottiglia pronta all'uso, simbolo di un'opposizione (e nel calderone ci sta come d'autunno anche Forza Italia) che poteva legittimamente creare una crisi di governo (poi comunque partita per autocombustione) ma non lo ha fatto. Perché anche più incollata alle poltrone di coloro che, sugli scranni della maggioranza, sono accusati d'esserlo. Il problema del Pd è il tafazzismo congenito: Tafazzi perché ha tenuto in piedi il governo votando con il centrodestra e Tafazzi se lo avesse fatto cadere votando con i No Tav grillini dopo un decennio di incondizionati Sì all'opera. Un partito con le spalle al muro, che non se l'è sentita di seguire il suggerimento di Carlo Calenda. Alla vigilia il leader degli europeisti in Lacoste aveva colto il punto debole di tutta la faccenda e aveva lanciato l'idea sorniona: «Facciamo cadere questo governo, le opposizioni non presentino mozioni. Basterebbe uscire dall'aula al momento del voto per far abbassare il quorum. L'opera non sarebbe comunque in discussione perché il governo ha risposto all'Unione europea, perché ci sono i trattati internazionali. La verità è che se passa la mozione dei 5 stelle il governo andrà a casa come ha detto Matteo Salvini». Sulla stessa linea era Luigi Zanda, che aveva in qualche modo solleticato l'appetito di Nicola Zingaretti e il suo favore nei confronti della spallata. Così il segretario ha contattato il capogruppo al Senato, Andrea Marcucci, e lo ha invitato a tentare lo sgambetto. La risposta è stata un deciso niet ammantato di coerenza tematica sulla Tav, dietro la quale c'è la rinuncia a fare politica (quindi a creare i presupposti per una sanguinosa crisi di Ferragosto) in nome delle poltrone. Il ragionamento è semplice: molti parlamentari del Pd sono ancora profondamente renziani, lontani dal segretario. Quindi contrari a tornare alle urne perché consapevoli che nelle liste per i collegi stilate dal vertice zingarettiano, per tanti di loro non ci sarebbe posto. Dopo il disastro in Senato, lo stesso Marcucci che qualche ora prima aveva fatto consapevolmente da stampella al governo per puro calcolo opportunistico chiede al premier Giuseppe Conte di dimettersi «perché la maggioranza non c'è più. Sono umanamente vicino ai colleghi del Movimento 5 stelle e mi rendo conto della loro frustrazione. Non riescono a mantenere una promessa». Il temporale d'estate in casa Pd prosegue con la critica di Zanda alla scelta di Marcucci e a quel voto salvagoverno dei renziani. «Sono a favore della Tav» dice il tesoriere del partito, «ma ho votato per disciplina del gruppo perché politicamente sarebbe stato molto più utile uscire dall'aula e far emergere con più forza l'incompatibilità conclamata fra Lega e 5 stelle». Lacrime di coccodrillo, coerenza a orologeria, occasione mancata di portare l'affondo decisivo. Doveva essere il giorno più debole della maggioranza, finisce per diventare la Caporetto strategica del Pd, incapace di affermare il principio fondante di un ruolo: l'opposizione sostanzialmente si oppone. Anche Forza Italia avrebbe potuto dare un segnale, ma Silvio Berlusconi si è limitato a ribadire: «Questo Parlamento non è in grado di esprimere maggioranze diverse. Nuove elezioni sono la soluzione migliore». Mentre il Senato chiude per ferie, rimane aperta l'eterna polemica a sinistra. E Nobili, quello che evocò Tafazzi, tira amaramente le somme con una domanda retorica: «Alla fine Zanda chi attacca violentemente e con gli stessi argomenti dei grillini? Matteo Renzi. Sono irrecuperabili». 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Prima che la mozione pentastellata che voleva impegnare il Senato a opporsi alla Tav (mossa istituzionalmente ridicola in sé, dopo il via libera del premier all'opera) venisse asfaltata, il capogruppo leghista a Palazzo Madama, Massimiliano Romeo, aveva preso la parola accendendo le polveri: «È una questione politica. Il Movimento 5 stelle si assumerà la responsabilità. È una questione di credibilità di tutto il governo, ci saranno conseguenze». Un particolare non deve sfuggire. Il leghista poco prima dell'intervento ha parlato fitto fitto con il vicepremier Matteo Salvini, presente in Aula per tutte le votazioni. È abbastanza palese, quindi, che il messaggio del leader leghista ai suoi è stato quello di alzare marcatamente i toni, pronto a trasformare la provocazione grillina (la mozione anti Tav) in una leva politica per mettere all'angolo loro e Conte. Archiviato il voto, con la figuraccia grillina che vede il proprio partner di governo votare tutte le mozioni delle opposizioni a favore dell'alta velocità, succede infatti qualcosa. Per buona parte del pomeriggio il consueto cicaleccio di tweet, agenzie, video della maggioranza si tace. Nessuna comunicazione per tre ore. Di più, il Viminale fa sapere che il comizio ad Anzio del ministro, previsto per le 17, è annullato. Confermato solo quello delle 21 a Sabaudia. La chiusura delle comunicazioni, sia in casa leghista che grillina, ha immediatamente fatto pensare a qualcosa di grosso in pentola. Solo poco prima delle 20 i primi lanci di agenzie hanno fatto chiarezza: «È in corso a Palazzo Chigi, a quanto si apprende, un colloquio tra il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e il ministro dell'Interno e vicepremier Matteo Salvini, che è giunto poco dopo le 19 nella sede del governo». Al termine fonti leghiste di Palazzo Chigi riferiscono che «l'incontro tra il vicepremier Salvini e Giuseppe Conte è stato lungo, pacato e cordiale». Ma sotto la superficie il magma del malcontento del ministro dell'Interno ribolle. Fonti vicine al capo leghista confermano che mai come in queste ore la tanto evocata crisi si è materializzata. Forte dell'aver incassato l'ennesima vittoria tattica, vedi la Tav, il segretario vuole passare all'incasso. Ovvero rimuovere quegli ostacoli al fare, al rilancio, che passano sotto i nomi di alcuni ministri M5s: Danilo Toninelli, ovviamente, ma anche Elisabetta Trenta (Difesa) e un terzo membro di governo. Tutto farebbe pensare a Giovanni Tria, titolare del Mef, anche se conferme dirette di una richiesta di sacrificio da parte di Salvini non ci sono state. Più probabile che il terzo sia il titolare dell'Ambiente Sergio Costa. In ogni caso, è il succo leghista, o Conte (che ha rinviato la conferenza stampa prevista per stamattina) - e il Quirinale - accettano un robusto rimpasto, magari accompagnato da una riscrittura del contratto di governo, che aprirebbe di fatto la strada a un Conte bis, o è meglio votare. Convinti, in via Bellerio, che la finestra di ottobre sia praticabile, delegando l'impostazione della manovra ai tecnici salvo poi imprimervi la curvatura politica una volta insediato il nuovo esecutivo, con un maxi emendamento.
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Femminismo è il vezzoso nome dato alla misandria occidentale, e la misandria è stato il mezzo per distruggere nel giro di due generazioni l’invincibile società occidentale giudaico-cristiana: le donne sempre vittime, i maschi sempre carnefici e soprattutto nemici. La «vera donna» si sente sorella di sconosciute, incluse cantanti mediocri che guadagnano cifre astronomiche mostrando la biancheria intima o la sua assenza, ma non deve avere linee di collaborazione o anche solo umana simpatia con il marito o il compagno. Il femminismo occidentale non è difesa delle donne, è misandria, odio per gli uomini. Il femminismo misandrico è un movimento creato a tavolino, con lo scopo di distruggere la famiglia, che è un’unità affettivo/economica con una sua intrinseca potenza: rende le persone non isolate, e quindi meno malleabili, tali da avere la forza di opporsi al potere dello Stato o del parastato. Il secondo scopo è abbattere i salari buttando sul mercato milioni di lavoratrici. Il terzo scopo è annientare le aree di lavoro non tassabile. Le donne a casa loro fanno lavori non tassabili: cucire, cucinare, costruire giocattoli, creare tende e vestiario, fare conserve, allevare bambini. Ora il loro lavoro è sostituito da supermercati, orrendi cibi precotti, con tutti i danni dei cibi processati, vestiario «made in China» fatto da schiavi sottopagati e soprattutto educatrici e insegnanti.
A ogni interazione madre-figlio, il cervello del bambino piccolo crea miliardi di sinapsi. Ogni interazione con l’estranea cui è affidato mentre mamma si sta facendo sfruttare da qualcuno in un posto di lavoro - e deve farlo perché il salario di papà è troppo basso - fabbrica molte meno sinapsi. Per i bambini, essere affidati a estranei al di sotto dei tre anni è un danno neurobiologico. Chi nega questa affermazione sta mentendo. Il bambino impara la regolazione delle emozioni sulla madre, ma per poter completare questo processo la madre deve essere presente. Con l’estranea cui è stato affidato, il processo non può realizzarsi. Inoltre, per quell’estranea il bambino è lavoro. Ci sono persone che amano il loro lavoro, altre che lo detestano: nel caso delle educatrici, quello che è detestato è il bambino. Ogni tanto bisogna mettere le videocamere per scoprire bambini picchiati o umiliati. La madre lavoratrice deve occuparsi del lavoro e quando alla sera torna a casa stanca e nervosa deve occuparsi del bambino, che alla sera, dopo ore e ore con estranee, è stanco e nervoso. Il peso è micidiale.
Le donne non mettono più al mondo figli. Il femminismo misandrico è stato creato per abbattere la natalità. Quando il bambino è malato, la mamma non può stare con lui. La presenza della madre fabbrica endorfine che potenziano il sistema immunitario. La sua assenza fabbrica cortisolo, ormone da stress che abbatte il sistema immunitario. Per poter essere affidato alle estranee del nido, il bambino deve essere sottoposto a un esavalente che in molte altre nazioni è vietato. Il 70% delle morti improvvise in culla avviene nella settimana successiva all’iniezione dell’esavalente. Perché le madri possano serenamente lavorare è stato creato il latte in polvere, pessimo prodotto che sostituisce il cibo perfetto dal punto di vista nutrizionale e immunologico che è il latte materno. È statisticamente dimostrata la differenza cognitiva e la migliore salute dei bambini allattati al seno. Dopo i tre anni un bambino potrebbe restarsene benissimo a casa sua; se proprio lo si vuole mandare all’asilo, sarebbe meglio non superare le due ore al giorno. Quando ha sei anni, il bambino dovrebbe andare in una scuola quattro ore, dalle 8.30 alle 12.30. Se la classe è fatta da bambini in maggioranza sereni e tutti della stessa madrelingua, come negli anni Cinquanta, quattro ore sono sufficienti.
Il bambino, messo sotto stress dalla mancanza cronica della madre, consegnato allo Stato per un numero spaventoso di ore, diventa un perfetto recipiente per la propaganda.
Le femministe hanno conquistato il diritto al lavoro. Il lavoro è una maledizione biblica. Anche l’aborto è una maledizione biblica e pure di quello hanno conquistato il diritto. Nella Cappella Sistina, Michelangelo ha rappresentato il momento in cui il serpente corrompe Eva con la mela: il serpente ha un volto di donna. Un’ intuizione geniale. Le donne hanno meno testosterone: questo le rende più accoglienti, permette la maternità, ma le rende meno capaci di battersi. Noi siamo meno capaci di combattere, cediamo più facilmente alla propaganda. Il vittimismo isterico del femminismo misandrico è stata la tentazione con cui le donne hanno annientato la invincibile civiltà giudaico-cristiana. Abbiamo ancora una generazione, forse una e mezza. Creperemo di denatalità e scemenze: tra due generazioni al massimo saremo una repubblica islamica. Il potere è stato tolto al pater familias, che era sporco brutto e cattivo, ma era comunque uno cui di quella donna e quei bambini importava, ed è stato consegnato allo Stato, una macchina burocratica cieca e stolida. Lo Stato decide quanti vaccini un bambino deve fare, mentre gli Ordini dei medici applicano la legge Lorenzin radiando tutti coloro che si permettono di parlare della criticità di questi farmaci. Lo Stato decide cosa un bambino deve mangiare: le orrende mense scolastiche dove si mangia pessimo cibo statale sono obbligatorie. Digitate su Google le parole mensa scolastica e tossinfezioni alimentari e troverete dati interessanti. I dati che mancano sono i danni su danni sul lungo periodo degli oli di bassa qualità, della conserva di pomodoro comprata dove costava meno (spesso sono pomodori coltivati in Cina con fertilizzanti pessimi). Lo Stato decide come il bambino deve vivere e se la famiglia si permette di farlo vivere felice in un bosco, lo Stato interviene. Lo Stato decide cosa il bambino deve pensare, perché l’etica gliela insegnano i docenti, quasi sempre femmine, che sono impiegati statali che eseguono gli ordini, le circolari, fanno corsi di aggiornamento Lgbt e hanno criminalizzato i ragazzi non vaccinati per il Covid.
Grazie al femminismo misandrico, in Italia, la disparità tra padre e madre è clamorosa: i padri sono esseri inferiori. La donna ha potere di vita e morte sul concepito, un potere osceno e criminale. Si considera criminale un padre che ha picchiato suo figlio, ma non si considera criminale una donna che ha fatto macellare il suo bambino nel suo ventre. Il potere che ha creato il femminismo misandrico vuole gli aborti, li adora. Se hai abbandonato il cane sei un bastando, se hai fatto uccidere tuo figlio nel tuo ventre sei un’eroina della libertà. Per far uccidere il bambino nel suo ventre, la donna ha bisogno di un medico, che diventa quindi un medico che sopprime vite umane. Il feto è vivo ed è umano. Chi lo sopprime, sta sopprimendo vite umane. Se la donna vuole abortire, il padre non può opporsi. La donna può abortire, ma il padre non può rifiutarsi di pagare gli alimenti, deve assumersi la responsabilità economica fino alla maggiore età (e spesso oltre), eredità garantita al figlio, un terzo del patrimonio che deve essere accantonato. La donna può rendere suo figlio orfano di padre: può partorirlo, disconoscerlo e impedire che il padre lo riconosca. Il padre, per riconoscere il figlio, deve arruolare uno o più avvocati, pagarli e imbarcarsi in una guerra giudiziaria lunga e dall’esito incerto. Mentre le donne sono normalmente aggredite da immigrati islamici, l’invasione che sostituisce il deficit demografico dei bambini abortiti, al punto che non si possono più fare manifestazioni in piazza come quelle di Capodanno, quando l’uomo è bianco e occidentale, la parola della donna in tribunale vale più di quella dell’uomo.
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Roberto Speranza (Ansa)
Sull’edizione del 7 marzo del 2023, Francesco Borgonovo riportava un eloquente scambio di messaggi tra l’allora presidente dell’Iss, Silvio Brusaferro, e il ministro Roberto Speranza, che si esprimeva così: «Dobbiamo chiudere le scuole. Ne sono sempre più convinto». Ma il giorno seguente Brusaferro notava: «Per chiusura scuola Cts critico». E il ministro incalzava: «Così ci mandate a sbattere». Dopo una serie di ulteriori scambi, Brusaferro cedeva: «Va bene. Domani bisognerà pensare a illustrare come il parere riporti principi ed elementi di letteratura e modellistica lasciando al Consiglio dei ministri le scelte». Tradotto: prima si prendeva la decisione, poi si trovava l’appiglio «scientifico».
L’audizione di Miozzo appare indubitabilmente sincera. L’esperto sottolinea il contesto emergenziale in cui agivano i commissari, mettendo in guardia dai «Soloni del senno di poi». Parla del Cts come punto di riferimento «mitologico», «di fatto chiamato a rispondere a qualsiasi tipo di richiesta e necessità» che «di sanitario avevano ben poco: la distanza tra i tavoli nei ristoranti, il numero di passeggeri all’interno di un autobus, la distanza tra i banchi di scuola». «Che ci azzeccavo io, medico esperto di emergenze internazionali, con la distanza degli ombrelloni al mare?», osserva. «Eppure dovevamo dare un’indicazione, che alla fine, in un modo o nell’altro, veniva fuori con l’intelligenza, con il buonsenso, con la lettura che di volta in volta si faceva del contesto nazionale e internazionale». Dato il vuoto decisionale, in buona sostanza, il Cts si è dovuto far carico di una serie di questioni lontane dalla sua competenza. E sbaglia, spiega Miozzo, chi ci ha visto un «generatore di norme, di leggi, di indirizzi e di potere decisionale, cosa che assolutamente non ha mai avuto»: «Quello che il Comitato elaborava come indicazioni tecnico-scientifiche era offerto al governo, che lo doveva tradurre in atti normativi». L’equivoco si verificò solo perché alcuni passaggi venivano copiati tali e quali nelle leggi.
Miozzo ribadisce a più riprese che il Cts forniva solo pareri sulla base di assunti scientifici necessariamente - visto il contesto - in divenire. La dinamica, però, appare chiaramente invertita: se un organo subisce pressioni politiche (fatto testimoniato sopra) e viene interpellato su questioni che esulano dalle proprie competenze, è perché esso viene usato per sottrarre decisioni politiche al dibattito democratico. Una strategia che non riguarda solo il Covid: in pandemia ha conosciuto il suo culmine, ma è iniziata ben prima e proseguita ben dopo: l’ideologia green ne è una dimostrazione plastica. E anche il prezzo di queste scelte scellerate, per usare le parole di Miozzo, lo abbiamo pagato e lo pagheremo ancora in futuro. Se si parla tanto di Covid, in fondo, è puramente per una questione di metodo.
Miozzo avanza almeno un’altra considerazione degna di nota quando spiega che il piano pandemico del 2006 era una «lettera morta negli archivi della nostra amministrazione». Nessuno lo conosceva, «non era mai stata fatta un’esercitazione e non era stato fatto l’acquisto di beni di pronto soccorso e di Dpi. Non c’era nulla». Una responsabilità che imputa ai ministri precedenti e non a Speranza. Ai fini del buon funzionamento della democrazia, è fondamentale stabilire le responsabilità: a tagliare i fondi alla sanità per un decennio, in nome di una presunta austerità espansiva richiesta dall’«Europa», sono stati governi sostenuti dalla sinistra che oggi bercia contro l’attuale esecutivo. Lo dicono i dati, lo raccontano le condizioni in cui ci siamo trovati ad affrontare la pandemia. Almeno e limitatamente all’impreparazione del piano pandemico, possiamo anche assolvere Speranza. Ma non possiamo assolvere il Partito democratico dall’aver ucciso la sanità italiana.
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A mettere nero su bianco qualche dato in grado di smontare le ultime illusioni sui vantaggi del motore a batteria, è l’Adiconsum che periodicamente fa un report sull’andamento delle tariffe di ricarica. Lo stato dell’infrastruttura è ancora carente. I punti di ricarica sono 70.272 di cui un 10% non è attivo. La maggioranza dei punti (53.000) è in corrente alternata (Ac) con potenza inferiore a 50 Kw mentre le ricariche ultra veloci sono meno di 5.000. Intraprendere un percorso in autostrada è da temerari: la copertura delle aree di servizio è ancora al 48% e ci sono solo 1.274 punti. Essere a secco di elettricità e beccare un paio di stazioni di servizio sprovviste di colonnine apre scenari da incubo. Quindi, nella pianificazione di un percorso, bisognerebbe anche avere contezza della distribuzione delle ricariche.
Ma veniamo ai costi. Il prezzo unico nazionale a novembre scorso era pari a 0,117 euro il Kwh, in aumento del 5% rispetto a ottobre 2025. I prezzi medi alla colonnina sono per la Ac (lenta e accelerata) di 0,63 euro al Kwh (in aumento di 1 centesimo rispetto a ottobre), per la veloce (Dc) di 0,75 euro /Kwh (+1 centesimo rispetto a ottobre) e per la ultra veloce (Hpc) di 0,76 euro/kwh (stazionario). Per le tariffe medie massime si arriva a 0,83 per ricariche Ac, 0,82 per la Dc e 1,01 per Hpc.
Il report di Adiconsum fa un confronto con i carburanti fossili e evidenza che la parità di costo con benzina e diesel si attesta mediamente tra 0,60 e 0,65 euro/kwh. Ma molte tariffe medie attuali, superano questa soglia di convenienza.
Inoltre esistono forti divergenze tra i prezzi minimi e massimi che nella ricarica ultra veloce possono arrivare fino a 1,01 euro /Kwh. L’associazione dei consumatori segnala tra le tariffe più convenienti per la Ac, Emobility (0,25 euro/Kwh) per la Dc, Evdc in roaming su Enel X Way (0,45 euro/Kwh) e per l’alta potenza, la Tesla Supercharger (0,32 euro/Kwh). La conclusione del report è che c’è un rincaro, anche se lieve delle ricariche più diffuse ovvero Ac e Dc e il consiglio dell’Adiconsum, è che a fronte dell’alta variabilità dei prezzi è fondamentale utilizzare le app dedicate per verificare quale operatore offre il prezzo più basso sulla singola colonnina.
Questo vuol dire che mentre all’estero, come ad esempio in Germania, si fa il pieno utilizzando semplicemente il bancomat o la carta di credito, come al self service dei distributori, in Italia bisogna scaricare una infinità di app, a seconda del fornitore o del gestore, con la complicazione delle informazioni di pagamento e della registrazione. Chi ha la ventura (o sventura) di aver scelto una full electric, deve fare la gimcana tra le varie app, studiando con la comparazione, la soluzione più vantaggiosa. Un bello stress.
Secondo i dati più recenti di Eurostat e Switcher.ie, mentre la media europea per un pieno si attesta intorno a 14 euro, in Italia la spesa media sale a circa 20,30 euro. Nel nostro Paese, come detto prima, la media di ricarica Ac è di 0,63 euro /Kwh, in Francia e Spagna si scende sotto gli 0,45-0,50 euro /Kwh. La ricarica ultra rapida che nelle nostre colonnine è di media 0,76 euro/Kwh con picchi sopra 1 euro, in Francia si mantiene mediamente intorno a 0,60 euro/Kwh. Il costo dell’energia all’ingrosso in Italia è tra i più alti d’Europa, inoltra l’Iva e le accise sull’energia elettrica ad uso di ricarica pubblica sono meno agevolate rispetto alla Francia dove l’Iva è al 5,5%. Inoltre l’Italia non prevede riduzioni degli oneri di sistema per le infrastrutture ad alta potenza.
C’è un altro elemento di divergenza tra l’Italia e il resto dell’Europa che non incentiva l’acquisto di un’auto elettrica, ed è la metodologia del pagamento. Il nostro Paese è il regno delle app e degli abbonamenti. La ricarica «spontanea» (senza registrazione) è rara e spesso molto costosa. In paesi come Olanda, Danimarca e Germania, il pieno è gestito più come un servizio di pubblica utilità «al volo». Con il regolamento europeo Afir, nel 2025 è diventato obbligatorio per le nuove colonnine fast permettere il pagamento con carta di credito/debito tramite Pos. In Nord Europa questa pratica è già la norma, riducendo la necessità di avere dieci app diverse sul telefono. Inoltre in Paesi tecnologicamente avanzati (Norvegia, Germania), è molto diffuso il sistema Plug & Charge: colleghi il cavo e l’auto comunica direttamente con la colonnina per il pagamento, senza bisogno di tessere o smartphone. In Italia, questa tecnologia è limitata quasi esclusivamente alla rete Tesla.
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