I passaggi di consegne sono sempre delicati. E lo diventano ancor di più quando si tratta di rinnovare una Commissione nevralgica per la realizzazione delle grandi opere, quella che ne verifica l’impatto ambientale. Le difficoltà poi si acuiscono se tutto questo succede a pochissimi giorni dall’appuntamento elettorale dell’anno, il voto per l’Europee, e se dal giudizio di quest’organismo indipendente (la commissione Via-Vas, appunto) dipende il via libera a una delle infrastrutture più politicamente «sensibili», il Ponte sullo Stretto. Il 25 maggio scade, infatti, l’attuale Commissione, presieduta da Massimiliano Atelli, che ha già iniziato l’istruttoria sul collegamento tra Messina e Reggio Calabria, e il 9 di giugno c’è il voto per le Europee. In mezzo era attesa la decisione sulla regina delle grandi opere, così come sono in ballo «i giudizi» sulla Gronda di Genova, la diga di Genova (sulla quale è intanto calata la mannaia dell’Anac), la Torino-Lione, i rigassificatori Snam, il data center di Google e circa altri 130 dossier di analogo spessore. Concomitanze di date che non aiutano, ma è proprio quando le situazioni sono complesse che la mano del decisore politico diventa più importante. Il punto è: cosa succederà alla Commissione? Il rinnovamento è stato deciso. Su spinta del viceministro della Lega Vannia Gava, infatti, da inizio marzo sul sito del dicastero dell’Ambiente è pubblico un «avviso permanente per l’invio di manifestazioni di interesse alla nomina in qualità di componente della commissione tecnica di verifica dell’impatto ambientale Via-Vas». Ci sono 70 caselle da riempire. E il bando rappresenta un’indicazione chiara della volontà del ministero di non prorogare il vecchio organismo. Da parte della Gava sicuramente, mentre alla Verità risulta che ci sia qualche resistenza del ministro Pichetto Fratin. O comunque che il dossier non sia in cima alle priorità, come in questo momento meriterebbe. Motivi politici? Possibile. Di sicuro, però, l’indecisione in una materia delicata come quelle della verifica dal punto di vista ambientale dell’impatto delle grandi opere può avere affetti assai deleteri. Per capirlo ritorniamo al Ponte, un’infrastruttura da circa 14 miliardi di euro che rappresenta ormai un simbolo-tormentone della politica italiana. Da circa una settimana sul sito del Mase è presente la documentazione trasmessa dalla società «Stretto di Messina» che dà 30 giorni di tempo al pubblico per avanzare osservazioni o fornire ulteriori elementi conoscitivi. Mentre da metà marzo la documentazione che ha già concluso positivamente la verifica di procedibilità presso il ministero e contiene, tra gli altri, il progetto definitivo, lo studio di impatto ambientale e la relazione paesaggistica è nella mani della commissione Via-Vas. I consiglieri, che hanno 90 giorni di tempo, sono alle prese con un faldone da più di 9.000 documenti e i fucili spianati delle associazioni ambientaliste. Insomma, consci delle responsabilità rispetto a qualsiasi decisione dovessero prendere è possibile pensare che in 70 giorni (da metà marzo al 24 maggio) concludano i loro approfondimenti? Sembra stiano lavorando ogni giorno utile e che abbiano riorganizzato gli impegni dando la priorità al Ponte, ma la strada della razionalità porta a pensare che a fine maggio più che un passaggio di consegne ordinato non gli si potrà chiedere. A chi? A una Commissione già pronta e con la quale hanno avuto anche la possibilità di interloquire, come sarebbe auspicabile, o al governo in attesa che arrivino i nuovi consiglieri? Fa tutta la differenza del mondo. Perché da lì a qualche giorno ci sarà il voto europeo che può stravolgere gli equilibri anche tra partiti alleati. Insomma, per il ministero dell’Ambiente è arrivato il momento di accelerare, perché quando si parla di grandi opere il tempo è denaro e per il Ponte rappresenta anche qualcosa in più. Non tutti però al Mase sembrano avere chiaro il concetto.
L’Italia orgogliosa di sé e del suo ruolo al centro del Mediterraneo, capace di costruire materialmente il futuro rilanciando la sfida del suo saper fare tecnico e delle sue abilità imprenditoriali, con una maggiore capacità di pressione sull’Europa, dove deve stare da protagonista anche grazie a un’articolazione «federale» ed efficiente dello Stato. È il paradigma di Edoardo Rixi. Viceministro dei Trasporti e delle Infrastrutture, è diventato «l’uomo del ponte». Tutti chiedono a lui per sapere cosa pensa e fa Matteo Salvini, il suo ministro. Ma più ancora il suo amico. Rixi, genovese, 49 anni, solidissima formazione economica, ha percorso il cursus honorum leghista in Liguria, poi il «capitano» lo ha voluto vicesegretario nazionale e al ministero di Porta Pia – una breccia Rixi l’ha davvero aperta nelle stanze ovattate che aggettano sul monumento al bersagliere – c’era già stato col governo «gialloverde». Appassionato di montagna, deve scalare i sentieri impervi della burocrazia e della cultura del «no» a prescindere per mettere un campo base: l’ammodernamento infrastrutturale. Parliamo mentre sta tornando a Genova dalle Marche, nel giorno in cui l’Italia è divisa in due da un treno deragliato e si capisce che tra autostrade e ferrovie lo sviluppo è una via crucis. «Stiamo pagando», sottolinea tra l’amareggiato e l’irato, «ritardi ed errori di decenni. Quando hanno fatto l’Alta velocità non hanno pensato di separare il percorso dei treni veloci da quello dei convogli merci. È la seconda volta che a Firenze c’è un incidente anche banale e l’Italia si blocca. In quel punto c’è una strozzatura. C’è da tempo in programma la soluzione dello snodo di Firenze dove i binari normali corrono paralleli a quelli dell’alta velocità, ma i 5 Stelle, parte della sinistra e le inchieste hanno bloccato tutto. Sono sette chilometri cruciali in sotterranea tra Castello e Rifredi sbucando a Campo di Marte, ma per farli ci vogliono anni, i cantieri partiranno entro maggio».
Non è che il resto delle ferrovie stia messo benissimo…
«Vero, c’è il nodo di Milano che ha un segnalamento vetusto e dobbiamo rifare una circonvallazione ferroviaria, c’è il potenziamento delle linee secondarie e delle direttrici come il corridoio 5, quello che va a Est. C’è da riprogrammare i lavori ferroviari, ma bisogna rinnovare i vertici di Rfi. Lo faremo tra breve».
Un nome la Lega ce l’ha per Rfi?
«Sì ma non lo dico neanche sotto tortura».
Sta tornando dalle Marche, ha visto il «disastro» dell’A14?
«Sono andato per il porto di Ancona dove vorremmo ampliare gli spazi dopo che abbiamo sbloccato l’interporto e per l’aeroporto abbiamo assicurato continuità territoriale. Non si possono lasciare territori “isolati”. Vale anche per il Friuli Venezia Giulia, per la Sardegna e in parte per la Liguria. Le autostrade nelle Marche, come in Liguria, sono un problema su cui però noi non possiamo agire».
Ma come? Non avete revocato le concessioni?
«No, hanno solo pagato la buonuscita ai Benetton vendendo a due fondi esteri e a Cdp che hanno ora le concessioni. Non si può chiedere ai nuovi di farsi carico delle passate gestioni. Dopo la tragedia del Morandi si poteva pretendere da loro di rendere conto di tutti i danni che hanno fatto sulla rete».
Ponte di Messina: è deciso? Dicono che non avete i soldi, che nel Def non c’è nulla.
«Nel Def non poteva esserci nulla. Semmai la spesa dovrebbe essere indicata nella Legge di stabilità. Fin quando l’opera non è approvata è ovvio che non può esserci la previsione d’investimento. La polemica sul Def la dice lunga però sulla superficialità e strumentalità di certe prese di posizione. Noi correttamente abbiamo stimato la spesa tenendo conto delle variazioni di prezzo intervenute, non come hanno fatto col Pnrr dove si sono dimenticati di aggiornare i prezzi. Il ponte è fatto quasi interamente di ferro e il ferro è aumentato del 40% perciò la nostra stima è che costerà attorno ai 14 miliardi. C’è un altro miliardo per adeguare gli impianti e le opere di contorno. In questi anni da quando la progettazione fu sospesa in quelle aree è cresciuto di tutto: case, strade. Si tratta di ripristinare le migliori condizioni realizzative».
Allora si fa?
«Va fatto. E i soldi si trovano. Per il ponte di Messina ci sono tutte le condizioni perché diventi un’opera di livello europeo, la più significativa di tutto il Mediterraneo. In Africa e nell’Est, l’Italia deve essere sfidante e deve ritrovare con grandi opere la sua centralità. Avevamo una leadership assoluta nelle grandi opere, ma negli ultimi 15 anni sono spariti 120.000 aziende, 600.000 addetti e 8 grandi gruppi di valore internazionale. Oggi gran parte di quella ricchezza non esiste più. Nel 2018 dopo la tragedia del Morandi abbiamo dimostrato di essere capaci di fare meglio e più in fretta di chiunque. Dobbiamo fare opere sfidanti. Anche per la manutenzione dobbiamo tenere in vita queste capacità, altrimenti in futuro non ce la faremo e non potremo competere in Africa dove nei prossimi 30 anni ci sarà un forte sviluppo infrastrutturale. Abbiamo il 55% di opere d’arte - intendo viadotti, gallerie, ponti - dell’intera Europa, in media nel continente c’è il 24% di opere d’arte a chilometro di strada o ferrovia, in alcune regioni come la Liguria si arriva al 60%».
Pnrr, perché non partono i lavori?
«Le grandi opere non stanno e non possono stare nel Pnrr. Si è fatta una comunicazione un po’ fuorviante su questo. Il Pnrr è stato concepito per immettere risorse in fretta nell’economia dopo la pandemia. Ha un orizzonte inferiore a cinque anni e con cosi poco tempo a disposizione le grandi opere non si fanno. È uno strumento finanziario che va bene per chiudere lavori già iniziati».
Allora tagliare progetti e restituire i soldi non spesi?
«Da genovese dico che i soldi si tengono e si spendono bene. E si cerca di correggere anche il Pnrr per come l’ha concepito Bruxelles. Se ci avessero dato i soldi per adeguare ad esempio il parco circolante dell’autotrasporto, avremmo meno inquinamento di quello che riduce il Pnrr così com’è formulato. Considerato che continueremo per anni ad avere l’80% del traffico merci su gomma, tenere in strada dei camion euro 1 o euro 3 inquina. Se avessimo aiutato le imprese a sostituirli con mezzi meno inquinanti avremmo risolto molto di più».
I cinesi si stanno comprando i nostri porti. Serve la golden share?
«Sui porti dobbiamo investire. Va cambiata la ragione giuridica degli enti portuali, va fatta una riforma complessiva, dobbiamo essere consapevoli che siamo gli unici in grado di esercitare una leadership mediterranea per la posizione geografica. Ci hanno estromesso dalla Libia, non possiamo consentire che esploda la Tunisia, dobbiamo tornare protagonisti nel Mediterraneo dove cinesi e turchi hanno mostrato una straordinaria capacità di penetrazione. Non è il caso di parlare di golden share anche perché i porti sono per ora enti non economici, ma di centralità della nostra portualità. Ad esempio, se va avanti il cambiamento climatico il Nord Europa si troverà con i porti fluviali in secca».
Con Giancarlo Giorgetti avete discusso di questa necessità di ripatrimonializzare l’Italia?
«Col ministro Giorgetti abbiamo un ottimo rapporto: lui fa della prudenza e della concretezza le linee guida della sua azione. Siamo però consapevoli, come si fa anche nelle aziende, che senza investimenti non si produce ricchezza. E questo stiamo facendo, tutti insieme».
Elly Schlein che dice sì al termovalorizzatore di Roma archivia la stagione del no alle opere pubbliche da parte di Pd e sinistra?
«Vuol dire che la Schlein si è convinta che il termovalorizzatore di Roma è una necessità assoluta e questo mi sembra un bene. Mi auguro che il Paese capisca che non c’è spazio per la cultura del no, se l’Italia vuole rimanere tra i leader del mondo deve trovare soluzioni intelligenti e non ideologiche. Vedremo se il sì della Schlein segna un cambiamento, ma mi pare presto per dirlo».
A proposito dei no, come siamo messi con la Tav?
«Sulla Tav noi andiamo avanti bene, sono i francesi in ritardo nel loro tratto nazionale. Con loro abbiamo anche problemi per la realizzazione della seconda canna del Monte Bianco. Invece sul Brennero gli austriaci hanno messo limitazioni insensate al nostro autotrasporto per cui il ministro Salvini sta valutando una eventuale richiesta di infrazione a Bruxelles. Con la Svizzera abbiamo un ottimo rapporto e può rappresentare un hub logistico per le nostre merci dirette oltralpe. Per noi i valichi sono indispensabili per collegare l’Europa al Mediterraneo».
Milita da sempre nella Lega, come concilia le grandi opere col federalismo?
«Ci sono Paesi come la Germania che, con un governo federale, ha dimostrato di essere più dinamica nella realizzazione delle grandi infrastrutture rispetto a uno Stato centralista come il nostro. È giusto che i territori si assumano la responsabilità di fare ciò che è necessario avendo in cambio le risorse che servono. I cittadini giudicheranno direttamente l’operato degli amministratori locali evitando che paghi sempre Pantalone: i costi standard, le incompiute, le inefficienze non devono essere ripianate a piè di lista con le tasse di tutti. Maggiore autonomia, anche finanziaria, maggiore responsabilità dei territori e più autorevolezza dello Stato. Questa è la formula».
- Iniziato l’iter per la ferrovia di Trento per cui sono stati stanziati 960 milioni. Il viceministro Teresa Bellanova nicchia sulle proteste
- Dopo averlo annunciato sul Web, gli antagonisti antitreno attaccano il cantiere della Torino-Lione. Ferito un carabiniere
Lo speciale contiene due articoli
L’opera è una, ma le notizie sono quattro. Stiamo parlando della circonvallazione ferroviaria di Trento: progetto che include la variante della linea storica Verona-Brennero, nel tratto che attraversa la città, oltre alla realizzazione della nuova stazione Trento Nord della linea Trento Malè.
Va ricordato, in premessa, che per il corridoio del Brennero transita una quantità enorme di merci (circa il 40% delle merci che attraversano le Alpi). Dunque, la nuova opera ha lo scopo di spostare il relativo trasporto dalla gomma alla rotaia, per quanto possibile: obiettivo assai desiderabile sia per ovvie esigenze logistiche sia anche per ragioni che dovrebbero esser teoricamente care agli ambientalisti.
Dunque, quali sono le quattro notizie? La prima è che l’opera inizia il suo iter. La seconda è che si tratta di una realizzazione inclusa nel Pnrr, per un valore di 960 milioni di euro. La terza è che già sono mobilitati quelli che potremmo definire i «no Tav», i contrari all’opera. La quarta è che si è appena aperto il relativo «dibattito pubblico».
Di che si tratta? È una procedura inaugurata in Francia (1995, legge Barnier, débat public), e successivamente importata anche da noi. Dapprima attraverso forme varie di confronto pubblico: in ordine sparso, consultazioni di questo tipo sono state realizzate a Genova dal 2009 per la progettazione della Gronda, e poi via via per l’ampliamento del Porto di Livorno, del Passante autostradale di Bologna, del progetto di riapertura dei Navigli di Milano, e in diverse altre occasioni. Successivamente, il dibattito pubblico è stato formalizzato e dotato di una precisa cornice giuridica nel 2016 con il nuovo Codice dei contratti pubblici, dopo circa vent’anni di sperimentazioni su come gestire e mediare conflitti territoriali. Risultato: il dibattito pubblico è ora obbligatorio per tutte le opere sopra una certa soglia che siano ancora ad uno stadio preliminare della progettazione.
E allora che si fa? Viene prevista una serie di incontri, discussioni, raccolta di proposte e obiezioni (da parte di cittadini, associazioni, istituzioni) nel tentativo di conciliare l’utilità economica e logistica di una certa opera con le eventuali opposizioni sui relativi territori. A gestire tutto è una figura terza (il «coordinatore», per lo più indicato dai ministri competenti o selezionata dal proponente dell’opera) che, alla fine del dibattito pubblico, deve presentare una relazione sulla base della quale il proponente dell’opera ha due mesi di tempo per presentare un proprio dossier conclusivo per confermare la volontà di procedere o no, spiegando le modifiche apportate e le ragioni che lo hanno condotto a non accogliere altre proposte.
Nel caso della circonvallazione ferroviaria di Trento, sulla base delle norme del decreto-legge del maggio scorso sulla governance del Pnrr, il dibattito avverrà in forma accelerata e semplificata (45 giorni: si chiuderà il 3 febbraio). Ci saranno incontri fisici, più la possibilità di usare il sito Internet del progetto e di depositare osservazioni e proposte.
In questo caso, il coordinatore è Andrea Pillon. Collegata in videoconferenza con l’evento di apertura, la viceministra delle Infrastrutture Teresa Bellanova si è espressa così: «Abbiamo una responsabilità in più perché seguiamo un percorso che accadrà poi con altre opere strategiche. È fondamentale avere un coinvolgimento attivo da parte delle persone che abitano i territori ed è nostra responsabilità informare e sensibilizzare. Non è un ascolto formale ma un percorso sostanziale che ci vincola e ci impegna». La Bellanova non si è nascosta il fatto che obiezioni e contestazioni siano già sul tavolo, ma ha cercato di rispondere evocando gli effetti occupazionali del progetto: «È evidente - ha detto - che anche nel corso del dibattito pubblico bisognerà essere capaci di guardare all’opera e al più complessivo progetto di cui fa parte per coglierne compiutamente la rilevanza, non ultime ovviamente, anzi prioritarie, le ricadute occupazionali attese, che indicano un fabbisogno occupazionale per oltre 12.000 unità lavorative annue».
Sulla stessa linea, presentando il progetto come un’occasione unica per il territorio, il presidente della Provincia Maurizio Fugatti e il sindaco Franco Ianeselli. Attenzione, però: le contestazioni non mancano, dal percorso alla bonifica di alcune aree, passando per la necessità di un certo numero di espropri. E senza trascurare chi è ideologicamente contrario all’opera in sé.
Ora, in questo caso l’utilità dell’opera appare evidente. Ma è sufficiente moltiplicare questa procedura per l’enorme messe di opere ricomprese nel Pnrr in tutta Italia, e, a quel punto, non serve un indovino per immaginare - da parte di associazioni genuinamente sorte sui territori, o da parte di soggetti politicizzati, o da parte delle stesse istituzioni locali - un notevole fuoco di sbarramento. Un ostacolo da non sottovalutare, insomma. Basteranno le procedure veloci e alleggerite fissate dai decreti sulla governance del Pnrr? Lo capiremo nei prossimi mesi.
I no Tav tornano a lanciare bombe e razzi in Val di Susa
La nostra intelligence lo aveva previsto e scritto nell’ultima relazione inviata al parlamento a marzo di quest’anno. Durante il lockdown dovuto alla pandemia alcune realtà antagoniste ormai frammentate si sono riorganizzate. E sulla scia dell’ambientalismo di Greta Thunberg, come delle critiche alle restrizioni governative per il Covid 19, sono riemersi gruppi di antagonisti che si pensavano ormai scomparsi. Così tra martedì e mercoledì sono tornate le proteste no Tav. Lo avevano annunciato loro stessi sui loro siti internet e social network di riferimento, come Notav.info: i ribelli della Valsusa sono tornati. «Oggi come allora, nonostante la neve, ci rimetteremo in marcia per le strade della nostra Valle!», hanno scritto ricordando quando nel 2005 ci fu un’altra marcia di protesta contro la Torino-Lione e in particolare contro lo sgombero di alcuni terreni da parte delle forze dell’ordine. A distanza di nemmeno 20 anni a pagare le conseguenze delle manifestazioni di martedì notte è stato un carabiniere, rimasto ferito negli scontri: ne avrà per circa una settimana.
A San Didero in Val di Susa due gruppi, di circa 50 persone, hanno attaccato il cantiere sui due lati contemporaneamente con pietre, bombe carta e fuochi d’artificio. Per disperdere i manifestanti le forze dell’ordine hanno dovuto utilizzare idrante e lacrimogeni.
Nel 2005 c’era un altro mondo. Al governo c’era Silvio Berlusconi, mentre al Viminale c’era Beppe Pisanu e Pietro Lunardi alle Infrastrutture. All’epoca le decisioni dell’esecutivo di sgomberare con la forza le zone dei cantieri per l’alta velocità provocarono una mezza crisi istituzionale. Lo stesso popolo no Tav era molto più variegato: c’era un po’ di tutto, valligiani, reduci dal G8 di Genova, qualche leghista, mentre i sindaci della Valle avevano il compito di mediare tra forze dell’ordine e manifestanti.
La protesta è andata avanti nella notte tra martedì e mercoledì, poi sempre nella giornata di ieri c’è stato un altro corteo. Gli amministratori locali hanno voluto prendere le distanze dai movimenti no green pass. Nella relazione dell’intelligence si spiegava che questi gruppi si erano frammentati negli anni, ma allo stesso tempo i nostri 007 avevano «rilevato come l’emergenza pandemica e la gestione della crisi da parte del governo abbiano costituito i temi centrali di un ampio dibattito che ha coinvolto le diverse “anime” del dissenso, in un’ottica di rilancio delle tradizionali campagne di lotta e, nello stesso tempo, di superamento dell’endemica frammentazione che affligge da tempo il movimento.
Così, la nuova propaganda contro la pandemia e la diffusione del virus - unito alle proteste contro il progresso tecnologico, i cambiamenti climatici e le spese militari - ha creato una nuova narrazione antisistema. «È in tale contesto che, all’indomani del primo lockdown nazionale, si è registrata una ripresa sul territorio delle iniziative che, muovendo dalla tematica ecologista, si sono progressivamente declinate, sulla scia di omologhe mobilitazioni internazionali, anche in chiave anticapitalista e no-global» si legge nella relazione. Sono tutti argomenti collegati alla battaglia ambientalista a cui si sono aggiunte le critiche al decreto sempli‑cazione, accusato dagli antagonisti di agevolare la realizzazione delle «grandi opere inutili e dannose». «Tema, quest’ultimo» riportano i servizi segreti italiani «dalla persistente capacità propulsiva per frange di diversa matrice che hanno rivitalizzato la campagna no Tav con assalti ai cantieri valsusini e scontri con le forze dell’ordine» .
I soldi promessi dall'Europa non sono ancora arrivati, ma già il governo si prepara a presentare agli italiani il conto del «meraviglioso» accordo raggiunto da Giuseppe Conte l'altra notte. Già, perché al di là dei numeri che sono, come abbiamo spiegato nell'edizione di ieri, assai meno entusiasmanti di ciò che il Minculpop di Palazzo Chigi tende a far credere, c'è una piccola questione da risolvere: i soldi non arriveranno prima della prossima primavera.
Perciò che si fa se della montagna di miliardi promessa non si vede neanche l'ombra per almeno dieci mesi? Confidare in un anticipo non si può, perché la condizione per ottenerlo consiste nel non far aumentare il debito pubblico, cosa non possibile anche volendo. Infatti, per la sola maturazione degli interessi, la crescita diventa automatica e dunque beneficiare di un acconto è da escludere. Che cosa succederà dunque a settembre, quando ci sarà bisogno di mettere mano al portafogli per sostenere le aziende ed evitare che la disoccupazione schizzi alle stelle? Chiedere i fondi del Mes, cioè del fondo Salvastati, è escluso, in quanto i grillini non vogliono intestarsi l'ennesima retromarcia, dopo la Tav, il Tap e in parte anche Autostrade (il governo si era impegnato a far cadere la concessione, non a trovare un modo per far uscire i Benetton accollandosi i debiti). Se quindi non ci sono soldi e non li si può chiedere a prestito accettando le condizioni previste dal Meccanismo europeo di stabilità, vale a dire le regole della Troika, che cosa rimane? La risposta è una sola: le tasse. Sì, per far quadrare i conti ed evitare che centinaia di lavoratori rimangano senza cassa integrazione e centinaia di migliaia di aziende chiudano, il governo sta pensando di fare cassa con una bella stangata fiscale, come tutti i governi statalisti e di sinistra.
Al ministero dell'Economia hanno già pronte nel cassetto una serie di misure, due delle quali sono un vecchio cavallo di battaglia dei compagni. La prima si chiama tassa di successione, ovvero una stretta sulle eredità. Mentre adesso la normativa garantisce una zona esentasse per ogni figlio che riceve un lascito dai propri genitori, con il nuovo sistema si vorrebbe non solo dimezzare la cifra sulla quale il fisco non può mettere le mani, ma la somma su cui non si pagano le imposte varrebbe per tutti gli eredi. In pratica, da 1 milione a testa che sfugge alle grinfie dell'erario, si passerebbe a mezzo milione ma per tutta la famiglia, moglie e figli compresi. Ora qualcuno potrebbe pensare che 500.000 euro sono una bella somma e chi eredita non dovrebbe lamentarsi. Si dà però il caso che raggiungere il livello indicato per l'esenzione sia abbastanza facile, soprattutto per famiglie che hanno lavorato e risparmiato per una vita. È sufficiente avere una casa, magari un appartamentino al mare e qualche cosa da parte per il futuro e si corre il rischio di incappare nell'avidità fiscale dello Stato e dunque di vedere volatilizzarsi in tasse gran parte di ciò che i genitori hanno accantonato.
Anche perché, e qui viene il brutto, tra i progetti del ministero dell'Economia ritorna l'idea di riformare il catasto, dove riformare significa soltanto cambiare i parametri reddituali con cui sono registrati gli immobili. Tradotto, vorrebbe dire che il governo adeguerebbe i valori del mattone a una stima effettuata dagli uffici, con il risultato che gli italiani, i quali sono in massima parte proprietari delle quattro stanze in cui vivono, si ritroverebbero non solo a pagare di più in caso di introduzione di una imposta sulla prima casa (mentre sulla seconda il prelievo, oltre a essere assicurato, sarebbe più salato), ma in caso di successione vedrebbero lievitare il valore dell'immobile, con tutto quello che ne consegue se si abbassa il livello in cui l'eredità è da considerarsi esentasse.
In pratica, in capo a poco tempo i contribuenti si vedrebbero infilare le mani dello Stato nel portafogli, sempre naturalmente che a qualcuno non venga la bella pensata di una patrimoniale, imposta che ufficialmente è esclusa, ma che da sempre è un chiodo fisso della sinistra.
In fatto di tasse però non ci sono solo Palazzo Chigi e via XX Settembre, sede del ministero dell'Economia. Infatti, oltre ai tassatori nostrani, sono quelli esteri, vale a dire Bruxelles. Non penserete infatti che i soldi di cui Giuseppe Conte si fa vanto siano gratis. I fondi Ue non li fabbrica lo spirito santo, ma Bruxelles li spremerà con le tasse, perché il via libera al Recovery fund prevede che l'Europa provveda sul mercato o con proprie tasse, che si aggiungono a quelle nazionali, a reperire il fabbisogno finanziario. Con la scusa di voler difendere l'ambiente, già si annunciano una plastic tax e una carbon tax europea, in pratica due stangate in una, che ovviamente pagheranno i consumatori. In poche parole, ci daranno soldi per poi chiederceli indietro. O, peggio, prima ce li chiederanno e dopo, forse, con molta calma, ce li daranno. Ma a precise condizioni, ovvero fare le riforme. Quindi saremo tassati, riformati e mazzolati.
- Giancarlo Cancelleri (M5s) attacca Aspi, che ha congelato gli investimenti per le polemiche sul maxi prestito garantito dallo Stato. E mette nel mirino pure il ministro: «Nessuno ha visto i documenti sulla trattativa con Autostrade».
- I grillini cambiano metodo: gli onorevoli dovranno restituire solo una cifra forfettaria, senza rendicontazione Era l'ultimo caposaldo del manifesto originale che gli restava da rinnegare dopo Tav, alleanze, Mes e Tap.
Lo speciale contiene due articoli.
Altra rissa nella maggioranza, e altra occasione per Atlantia e la sua controllata Autostrade per l'Italia (Aspi) per far vedere chi comanda. A scatenare la bagarre, tramite una diretta Facebook casalinga, è stato ieri il viceministro grillino delle Infrastrutture Giancarlo Cancelleri, che ha sparato a palle incatenate contro due bersagli: Autostrade ma pure la titolare del suo dicastero, l'esponente Pd Paola De Micheli.
Ecco le parole di Cancelleri: «Aspi, quelli del crollo del ponte di Genova, che si sono macchiati delle 43 vittime, che non hanno neanche chiesto scusa, quelli lì dei Benetton, che ricattavano il governo, se ne sono usciti con una novità. Hanno detto: se non ci fate la garanzia dello Stato per avere un prestito anche noi di qualche miliardo, non facciamo gli investimenti. Il ricatto, la logica del ricatto…». Su queste basi, l'attacco del grillino è stato pesante: «Abbiamo perso solo tempo, mi rivolgo alle altre forze di maggioranza. Revochiamogli le concessioni, questa non è gente seria». E ancora: «Vogliamo commissariare Aspi. E Spea, che era quella che taroccava i controlli, la sostituiamo con Anas».
Fin qui, nulla di nuovo: le tradizionali posizioni grilline (tranne il fatto che da mesi sono a loro volta inerti sul dossier). Ma a questo punto è arrivata la botta del viceministro contro la De Micheli, accusata di una trattativa opaca e di tenere nascoste le carte: «Il ministro De Micheli ha questo dossier dove ha fatto insieme con Aspi una sorta di trattativa. Non lo conosce nessuno questo dossier, non lo conoscono né il M5s né le altre forze di governo, né il presidente Conte. Lo ha dichiarato lei sui giornali. Ebbene che lo tirasse fuori (il congiuntivo è del viceministro grillino, ndr)».
Nel frattempo, il cda di Atlantia ha ordinato ad Aspi, sua controllata, di mettere in freezer il piano di investimenti, tranne manutenzione e sicurezza. Su tutto il resto, congelamento. Ma è inutile girarci intorno; la richiesta di garanzia statale per un prestito da 1,25 miliardi da parte di Aspi (con relativa risposta pubblica di un altro viceministro M5s, Stefano Buffagni: «No grazie») è solo l'aperitivo (pur ricchissimo) di una contesa ben più ampia, che è quella che riguarda la concessione.
La posizione di Autostrade è difficile. Contro Aspi, pesa come un macigno il rapporto che la Corte dei conti ha prodotto prima di Natale: un'autentica requisitoria, che ha messo in fila la costante salita dei ricavi derivanti dai pedaggi, gli utili annuali elevatissimi, la poderosa distribuzione di dividendi, a fronte - però - di un clamoroso taglio delle spese per gli investimenti e in particolare per la manutenzione. E se a questo si aggiungono altre ipotesi giudiziarie, e cioè - secondo le accuse - una presunta non episodica attività di ammorbidimento dei report sulle condizioni di sicurezza della rete autostradale, si comprende la delicatezza del quadro.
Mesi fa, il governo aveva incaricato l'avvocatura dello Stato e la Corte dei conti di fornire altri pareri, e aveva avviato la stesura di un dossier (se ne era incaricato il dicastero delle Infrastrutture). In quella fase, la De Micheli e i grillini sembravano più vicini (tutti su una posizione critica verso Aspi), dopo le divaricazioni che avevano accompagnato l'avvio del Conte bis. Si ricorderà che, a settembre, l'allora neonominata De Micheli aveva fatto infuriare i grillini con un'intervista in cui escludeva la revoca della concessione («Nel programma è prevista solo la revisione»). Nel suo discorso alle Camere, Giuseppe Conte aveva invece tirato fuori dal cilindro un gioco di parole, e cioè una «progressiva e inesorabile revisione di tutto il sistema». Così, quelli del Pd poterono focalizzarsi sulla revisione, che esclude la revoca, mentre i grillini esultarono per l'aggettivo «inesorabile», che lasciava presagire chissà quale punizione per i Benetton.
Ma ormai diversi mesi sono passati invano. A cavallo di Natale, fu varato il Milleproroghe, con una norma - contestata da Italia viva - che stabilisce che, in caso di revoca per inadempimento del concessionario, quest'ultimo non riceva più i mega indennizzi teoricamente previsti (una specie di «manovra»: circa 23 miliardi), ma solo il valore delle opere realizzate più gli oneri accessori. Se non che, nonostante questa sforbiciata, non è chiaro a quanto ammonterebbe l'eventuale conto: e da allora circolano voci su una misteriosa trattativa.
Ieri, fonti del ministero delle Infrastrutture hanno attaccato la nota di Atlantia («Ha il sapore di un ultimatum»). E ancora: «Premesso che nessuno, né tanto meno Atlantia, può permettersi di minacciare le istituzioni, è bene ricordare che determinate decisioni vanno aspettate con rispetto delle istituzioni e di coloro che hanno lavorato senza mai fermarsi alla procedura di caducazione». Secondo le fonti ministeriali, il dicastero «ha completato il dossier, come già annunciato in Parlamento dalla ministra, e lo ha inviato alla presidenza del Consiglio per avviare una discussione e un confronto prima della decisione che avverrà in cdm». Altra melina.
Ma ormai il nodo è arrivato al pettine, anche per il tentativo grillino di rialzare qualche bandiera, dopo tante umiliazioni. Si tratta di capire dove sia il pettine, e chi - tra M5s, la De Micheli e Conte - lo maneggerà effettivamente.
Rimborsi: lo scontrino non serve più. Il M5s ora è casta a tutti gli effetti
C'era una volta il M5s: con l'addio al sistema degli scontrini per le famigerate rendicontazioni, il movimento che fu anticasta abbandona la castità, si converte integralmente alla sana e consapevole libidine di potere con tutti gli oneri che comporta, ma anche con tutti gli onori e le comodità che accompagnano chi ricopre ruoli istituzionali. Niente più scontrini, niente più obbligo di rendicontare le spese: cambia il metodo di finanziamento al partito da parte degli eletti, che dovranno versare una quota fissa.
Come rivelato dal Corriere della Sera, giovedì scorso l'autoreggente del M5s, Vito Crimi, ha informato attraverso una mail i parlamentari grillini che il nuovo metodo di finanziamento del partito consiste nel versamento di una somma forfettaria, che però non comporta l'obbligo di rendicontare le spese. La regola in vigore fino a oggi prevede invece un contributo minimo mensile di 2.000 euro, al quale vanno aggiunti 1.000 euro per finanziare gli eventi, 300 per sostenere le spese di Rousseau e infine la restituzione di «tutto ciò che non è speso, oltre l'indennità e la diaria forfettaria». Eliminata questa ultime voce, crolla anche l'ultimo pilastro di ciò che fu, in origine il M5s.
L'anticasta che si fece casta, infatti, gli altri comandamenti dell'ex vate Beppe Grillo li ha già riposti da tempo nell'archivio delle promesse assolutamente da non mantenere. Ricordate il dogma della impossibilità di stipulare alleanze? A chi gli chiedeva se dopo le elezioni politiche i grillini avrebbero potuto allearsi in parlamento con altri partiti, così rispondeva Beppe Grillo il 19 gennaio 2018, il giorno della presentazione del simbolo per le politiche di un mese e mezzo dopo: «Sono domande senza senso», proclamava Grillo, «è come dire che un giorno un panda può mangiare carne cruda. Noi mangiamo solo cuore di bambù». Il panda lasciò perdere il cuore di bambù appena due mesi dopo, alleandosi con la Lega per formare il governo gialloverde e dunque assaporando una bella fetta di carne al sangue. Digerito l'arrosto, il M5s non si è più fermato: l'appetito vien mangiando, e così i grillini non solo si sono alleati, ma hanno pure cambiato partner con estrema disinvoltura, quando Matteo Salvini li ha scaricati e loro si sono risposati con il Pd. Stesso discorso per le elezioni regionali: «Il M5s», scriveva nel 2015 il Blog delle Stelle, «non fa alleanze elettorali con partiti o liste, quindi per natura non può entrare in una lista con partitini in via di estinzione o camuffati da liste civiche. Il M5s fa accordi con i cittadini che vivono quotidianamente il territorio, non con i politicanti locali. Chi, pur occupando un posto nelle istituzioni in quanto eletto con il M5s», proseguiva il sacro blog, «cambia idea e afferma che l'unica strada sia una grande lista civica trasversale e si adopera per raggiungere questo obiettivo è libero di farlo, di assumersene le responsabilità e di lasciare il suo posto a chi intende portare avanti il programma del M5s». Bene, anzi molto male: lo scorso ottobre il M5s si alleò con il Pd per le elezioni regionali in Umbria, candidando alla presidenza Vincenzo Bianconi. Il destino cinico ma dotato di senso dell'umorismo fece anche capitare i due simboli vicini vicini sulla scheda elettorale, tuttavia gli elettori scelsero il centrodestra, che con Donatella Tesei, senatrice della Lega, trionfò con ben 20 punti di vantaggio sui giallorossi.
Le giravolte del M5s, sui temi che rappresentavano i pilastri del movimento, sono tantissime. Pensiamo alla Tav: anni e anni di proclami, lotte, battaglie proteste, studi e contro studi, e alla fine la Tav si fa, con il M5s al governo. La Tap? Idem: i mille proclami contro il gasdotto in Puglia sono stati accantonati nel nome della ragion di poltrona. E l'Ilva? Ricordate quanto prometteva il M5s fino alle politiche del marzo 2018? Lo stabilimento siderurgico di Taranto doveva essere chiuso, e i lavoratori impiegati nella bonifica ambientale. Alla fine, il governo guidato da Giuseppi Conte si è seduto a trattare con Arcelor Mittal e l'Ilva è rimasta aperta. La fornitura di F35? Il M5s era fieramente contrario all'acquisto dei cacciabombardieri americani, ovviamente fino a quando è arrivato al governo e ha dato il via libera. Il Mes? Il «no» al ricorso al fondo ammazza stati è durato meno di un mes.
Insomma, di quello che fu il M5s, non c'è più traccia. Non solo: ogni volta che si è trattato di rimangiarsi una promessa, di rinunciare a un punto irrinunciabile del programma, i grillini hanno anche dato vita a un imbarazzante quanto finto dibattito interno, con favorevoli, contrari, dissidenti, critici, ortodossi, panda e giaguari, falchi e colombe impegnati per settimane ad alimentare retroscena, a vergare lapidari comunicati stampa, a minacciare addii, dimissioni, gesti eclatanti. Alla fine, però, sempre e comunque, si sono ritrovati tutti a cuccia, fingendo di dimenticare sulla base di quale programma avevano ricevuto il consenso di un terzo degli italiani, pur di restare incollati alle poltrone.







