2018-12-30
Secondo una ricerca di Unimpresa, la presenza straniera nell'azionariato si conferma maggioritaria. La fiducia nell'Italia, quindi, non è svanita di colpo. Ma occhio alle operazioni dettate dalla speculazione.Non è stato un 2018 lusinghiero per piazza Affari. Borsa italiana, secondo uno studio di Unimpresa (l'Unione nazionale delle imprese che rappresenta le Pmi), si conferma un piccolo mercato perlopiù popolato da investitori stranieri. La qual cosa, però, si presta a una doppia lettura: se da un lato l'aumento della presenza straniera nell'azionariato può mettere a rischio l'italianità delle nostre eccellenze, dall'altro viene a cadere il refrain della «fuga degli investitori dal nostro Paese». Secondo lo studio dell'associazione, che si basa su dati della Banca d'Italia aggiornati al primo semestre 2018, il valore delle Spa quotate è cresciuto complessivamente dai 519,9 miliardi dei primi sei mesi del 2017 ai 540,6 miliardi dello stesso periodo 2018. Il primato nell'azionariato spetta agli investitori esteri che possiedono il 50,56% delle quote, in leggero calo rispetto al 51,34% del 2017. Seguono in classifica le imprese col 24,96% (era il 23,57% nella prima parte del 2017), le famiglie col 9,58% (era il 10,36%), le banche col 9,86% (era il 9,62%), lo Stato col 3,58% (era il 3,70%), le assicurazioni e i fondi pensione con lo 0,74% (era lo 0,69%); quote minoritarie sono riconducibili invece alle amministrazioni locali (dallo 0,60% allo 0,61%) e agli enti di previdenza (dallo 0,11% allo 0,10%).«È uno degli effetti della crisi», commenta il presidente di Unimpresa, Giovanna Ferrara. «L'ingresso degli stranieri nel mercato finanziario italiano non è necessariamente un fattore negativo. Dipende, però, dalle intenzioni», ricorda. «Se si tratta di investimenti di lungo periodo va bene, mentre se le operazioni sono dettate dalla speculazione, allora c'è da preoccuparsi».Secondo Unimpresa, gli azionisti esteri hanno visto i loro investimenti crescere di 6,3 miliardi (+2,40%) da 266,9 miliardi a 273,3 miliardi, le imprese hanno «guadagnato» di più con 12,4 miliardi (+10,14%) da 122,5 miliardi a 134,9 miliardi, mentre le famiglie hanno perso 2,09 miliardi (-3,88%) da 53,8 miliardi a 51,7 miliardi. Bilancio positivo, poi, per le banche con un aumento delle quote in società per azioni quotate pari a 3,3 miliardi (+6,60%) da 50,03 miliardi a 53,3 miliardi; su anche le quote di assicurazioni e fondi pensione, in aumento di 416 milioni (+11,53%) da 3,6 miliardi a 4,02 miliardi. Le quote in mano allo Stato sono invece aumentate poco, solo 121 milioni (+0,63%). La variazione è stata più positiva per le quote in mano alle amministrazioni locali, salite di 155 milioni (+4,97%) da 3,1 miliardi a 3,2 miliardi. Negativo, invece, il saldo per le quote degli enti di previdenza, calate di 52 milioni (-8,80%) da 591 milioni a 539 milioni.Ma se, per Unimpresa, nel primo semestre 2018 la capitalizzazione delle imprese non è salita troppo (a quota 540,6 miliardi), anche nella seconda parte dell'anno non è andata meglio. La capitalizzazione delle imprese quotate a Piazza Affari nel 2018 si è fermata a 543 miliardi (cedendo dunque in un anno oltre 90 miliardi), pari al 33,5% del prodotto interno lordo italiano. A dirlo è la stessa Borsa italiana all'interno della sua annuale «review» sui mercati.Rispetto all'anno scorso il dimagrimento di Piazza Affari è notevole. Il Ftse Mib, l'«elite» di Borsa italiana che racchiude le migliori 40 società quotate, ha ceduto il 16,15%. A fine 2017 Milano valeva infatti 644 miliardi, pari al 37,8% del prodotto interno lordo, l'indicatore della ricchezza del Paese. Nel 2018 hanno mostrato il segno meno anche l'indice Ftse Italia All Share (in calo del 16,5%) e il Ftse Aim Itali (-12,9%).La buona notizia è che gli scambi di azioni si sono mostrati sostanzialmente stabili, con una media giornaliera di 2,5 miliardi e 282.761 contratti (+2,3% rispetto al 2017). Complessivamente sono stati scambiati nel 2018 oltre 70 milioni di contratti e un controvalore di oltre 622 miliardi. Il massimo giornaliero per contratti è stato raggiunto il 29 maggio 2018 con 642.457 contratti scambiati e per controvalore il 31 maggio 2018 con 5,9 miliardi.Intesa Sanpaolo è stata l'azione più scambiata del 2018 per controvalore, con un totale di 71 miliardi e la più trattata in termini di contratti con più di 4 milioni di contratti. In realtà, però, il comparto bancario di Piazza Affari è tra quelli che ha sofferto di più. Il titolo Carige in un anno ha perso l'85%, quello di Banca Mps il 61%. Non è andata bene neanche alle due «big» del settore, Intesa SanPaolo (la più scambiata, ma non la più apprezzata) e Unicredit, che perso rispettivamente il 32% e il 40%. Male anche il Credito Valtellinese che, nonostante l'aumento di capitale da 700 milioni, ha ridotto il suo valore in Borsa del 63%. Perdite importanti anche per Azimut (-40%), Banca Generali (-34%), Anima (-45%) e Banca Mediolanum (-31%), tutti player di spicco del mondo del risparmio gestito e della consulenza finanziaria.Al di fuori del comparto bancario, si segnalano i segni meno di Astaldi (-76%, anche a causa della richiesta di concordato preventivo avanzata pochi mesi fa) e Atlantia (-32%).All'interno di un 2018 da dimenticare, però, ci sono anche delle perle. Il titolo migliore del 2018 è stato Eurotech, gruppo friulano dell'hi-tech. In 12 mesi il titolo è salito del 143%. L'arrivo di Cristiano Ronaldo ha fatto impennare le quotazioni della Juventus (da poco nell'elitario club dell'indice Ftse Mib) con un aumento del 40%. Da segnalare anche il risultato di Fiera Milano con un balzo del 74%.Ad ogni modo, c'è poco da gioire. Bisogna ricordare infatti come il buon andamento del 2017, quando il Ftse Mib chiuse l'anno con un aumento del 15,5%, è stato tutto «mangiato» dal saliscendi del 2018. Se non altro Piazza Affari è in buona compagnia: il segno meno è arrivato su anche tutte le Borse europee.
Anna Falchi (Ansa)
La conduttrice dei «Fatti vostri»: «L’ho sdoganato perché è un complimento spontaneo. Piaghe come stalking e body shaming sono ben altra cosa. Oggi c’è un perbenismo un po’ forzato e gli uomini stanno sulle difensive».
iStock
Il capo del Consorzio, che celebra i 50 anni di attività, racconta i segreti di questo alimento, che può essere dolce o piccante.
Daniela Palazzoli, ritratto di Alberto Burri
Scomparsa il 12 ottobre scorso, allieva di Anna Maria Brizio e direttrice di Brera negli anni Ottanta, fu tra le prime a riconoscere nella fotografia un linguaggio artistico maturo. Tra mostre, riviste e didattica, costruì un pensiero critico fondato sul dialogo e sull’intelligenza delle immagini. L’eredità oggi vive anche nel lavoro del figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e presidente Angamc.
C’è una frase che Daniela Palazzoli amava ripetere: «Una mostra ha un senso che dura nel tempo, che crea adepti, un interesse, un pubblico. Alla base c’è una stima reciproca. Senza quella non esiste una mostra.» È una dichiarazione semplice, ma racchiude l’essenza di un pensiero critico e curatoriale che, dagli anni Sessanta fino ai primi Duemila, ha inciso profondamente nel modo italiano di intendere l’arte.
Scomparsa il 12 ottobre del 2025, storica dell’arte, curatrice, teorica, docente e direttrice dell’Accademia di Brera, Palazzoli è stata una figura-chiave dell’avanguardia critica italiana, capace di dare alla fotografia la dignità di linguaggio artistico autonomo quando ancora era relegata al margine dei musei e delle accademie. Una donna che ha attraversato cinquant’anni di arte contemporanea costruendo ponti tra discipline, artisti, generazioni, in un continuo esercizio di intelligenza e di visione.
Le origini: l’arte come destino di famiglia
Nata a Milano nel 1940, Daniela Palazzoli cresce in un ambiente dove l’arte non è un accidente, ma un linguaggio quotidiano. Suo padre, Peppino Palazzoli, fondatore nel 1957 della Galleria Blu, è uno dei galleristi che più precocemente hanno colto la portata delle avanguardie storiche e del nuovo informale. Da lui eredita la convinzione che l’arte debba essere una forma di pensiero, non di consumo.
Negli anni Cinquanta e Sessanta Milano è un laboratorio di idee. Palazzoli studia Storia dell’arte all’Università degli Studi di Milano con Anna Maria Brizio, allieva di Lionello Venturi, e si laurea su un tema che già rivela la direzione del suo sguardo: il Bauhaus, e il modo in cui la scuola tedesca ha unito arte, design e vita quotidiana. «Mi sembrava un’idea meravigliosa senza rinunciare all’arte», ricordava in un’intervista a Giorgina Bertolino per gli Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea.
A ventun anni parte per la Germania per completare le ricerche, si confronta con Walter Gropius (che le scrive cinque lettere personali) e, tornata in Italia, viene notata da Vittorio Gregotti ed Ernesto Rogers, che la invitano a insegnare alla Facoltà di Architettura. A ventitré anni è già docente di Storia dell’Arte, prima donna in un ambiente dominato dagli uomini.
Gli anni torinesi e l’invenzione della mostra come linguaggio
Torino è il primo teatro della sua azione. Nel 1967 cura “Con temp l’azione”, una mostra che coinvolge tre gallerie — Il Punto, Christian Stein, Sperone — e che riunisce artisti come Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio. Una generazione che di lì a poco sarebbe stata definita “Arte Povera”.
Quella mostra è una dichiarazione di metodo: Palazzoli non si limita a selezionare opere, ma costruisce relazioni. «Si tratta di individuare gli interlocutori migliori, di convincerli a condividere la tua idea, di renderli complici», dirà più tardi. Con temp l’azione è l’inizio di un modo nuovo di intendere la curatela: non come organizzazione, ma come scrittura di un pensiero condiviso.
Nel 1973 realizza “Combattimento per un’immagine” al Palazzo Reale di Torino, un progetto che segna una svolta nel dibattito sulla fotografia. Accanto a Luigi Carluccio, Palazzoli costruisce un percorso che intreccia Man Ray, Duchamp e la fotografia d’autore, rivendicando per il medium una pari dignità artistica. È in quell’occasione che scrive: «La fotografia è nata adulta», una definizione destinata a diventare emblematica.
L’intelligenza delle immagini
Negli anni Settanta, Palazzoli si muove tra Milano e Torino, tra la curatela e la teoria. Fonda la rivista “BIT” (1967-68), che nel giro di pochi numeri raccoglie attorno a sé voci decisive — tra cui Germano Celant, Tommaso Trini, Gianni Diacono — diventando un laboratorio critico dell’Italia post-1968.
Nel 1972 cura la mostra “I denti del drago” e partecipa alla 36ª Biennale di Venezia, nella sezione Il libro come luogo di ricerca, accanto a Renato Barilli. È una stagione in cui il concetto di opera si allarga al libro, alla rivista, al linguaggio. «Ho sempre pensato che la mostra dovesse essere una forma di comunicazione autonoma», spiegava nel 2007 in Arte e Critica.
La sua riflessione sull’immagine — sviluppata nei volumi Fotografia, cinema, videotape (1976) e Il corpo scoperto. Il nudo in fotografia (1988) — è uno dei primi tentativi italiani di analizzare la fotografia come linguaggio del contemporaneo, non come disciplina ancillare.
Brera e l’impegno pedagogico
Negli anni Ottanta Palazzoli approda all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove sarà direttrice dal 1987 al 1992. Introduce un approccio didattico aperto, interdisciplinare, convinta che il compito dell’Accademia non sia formare artisti, ma cittadini consapevoli della funzione dell’immagine nel mondo. In quegli anni l’arte italiana vive la transizione verso la postmodernità: lei ne accompagna i mutamenti con una lucidità mai dogmatica.
Brera, per Palazzoli, è una palestra civile. Nelle sue aule si discute di semiotica, fotografia, comunicazione visiva. È in questo contesto che molti futuri curatori e critici — oggi figure di rilievo nelle istituzioni italiane — trovano nella sua lezione un modello di rigore e libertà.
Il sentimento del Duemila
Dalla fine degli anni Novanta al nuovo secolo, Palazzoli continua a curare mostre di grande respiro: “Il sentimento del 2000. Arte e foto 1960-2000” (Triennale di Milano, 1999), “La Cina. Prospettive d’arte contemporanea” (2005), “India. Arte oggi” (2007). Il suo sguardo si sposta verso Oriente, cogliendo i segni di un mondo globalizzato dove la fotografia diventa linguaggio planetario.
«Mi sono spostata, ho viaggiato e non solo dal punto di vista fisico», diceva. «Sono un viaggiatore e non un turista.» Una definizione che è quasi un manifesto: l’idea del curatore come esploratore di linguaggi e di culture, più che come amministratore dell’esistente.
Il suo ultimo progetto, “Photosequences” (2018), è un omaggio all’immagine in movimento, al rapporto tra sequenza, memoria e percezione.
Pensiero e eredità
Daniela Palazzoli ha lasciato un segno profondo non solo come curatrice, ma come pensatrice dell’arte. Nei suoi scritti e nelle interviste torna spesso il tema della mostra come forma autonoma di comunicazione: non semplice contenitore, ma linguaggio.
«La comprensione dell’arte», scriveva nel 1973 su Data, «nasce solo dalla partecipazione ai suoi problemi e dalla critica ai suoi linguaggi. Essa si fonda su un dialogo personale e sociale che per esistere ha bisogno di strutture che funzionino nella quotidianità e incidano nella vita dei cittadini.»
Era questa la sua idea di critica: un’arte civile, capace di rendere l’arte parte della vita.
L’eredità di una visione
Oggi il suo nome è legato non solo alle mostre e ai saggi, ma anche al Fondo Daniela Palazzoli, custodito allo IUAV di Venezia, che raccoglie oltre 1.500 volumi e documenti di lavoro. Un archivio che restituisce mezzo secolo di riflessione sulla fotografia, sul ruolo dell’immagine nella società, sul legame tra arte e comunicazione.
Ma la sua eredità più viva è forse quella raccolta dal figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e fondatore di Osart Gallery, che dal 2008 rappresenta uno dei punti di riferimento per la ricerca artistica contemporanea in Italia. Presidente dell’ANGAMC (Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea) dal 2022 , Ortolani prosegue, con spirito diverso ma affine, quella tensione tra sperimentazione e responsabilità che ha animato il percorso della madre.
Conclusione: l’intelligenza come pratica
Nel ricordarla, colpisce la coerenza discreta della sua traiettoria. Palazzoli ha attraversato decenni di trasformazioni mantenendo una postura rara: quella di chi sa pensare senza gridare, di chi considera l’arte un luogo di ricerca e non di potere.
Ha dato spazio a linguaggi considerati “minori”, ha anticipato riflessioni oggi centrali sulla fotografia, sul digitale, sull’immagine come costruzione di senso collettivo. In un paese spesso restio a riconoscere le sue pioniere, Daniela Palazzoli ha aperto strade, lasciando dietro di sé una lezione di metodo e di libertà.
La sua figura rimane come una bussola silenziosa: nel tempo delle immagini totali, lei ci ha insegnato che guardare non basta — bisogna vedere, e vedere è sempre un atto di pensiero.
Continua a leggereRiduci
Fabio Giulianelli (Getty Images)
L’ad del gruppo Lube Fabio Giulianelli: «Se si riaprisse il mercato russo saremmo felici. Abbiamo puntato sulla pallavolo 35 anni fa: nonostante i successi della Nazionale, nel Paese mancano gli impianti. Eppure il pubblico c’è».