2018-03-20
Letta, il prudente che ha annacquato Berlusconi
Con la sua fama di spargitore di vaselina sul mondo, il soprannome di Zolletta e il suo morboso amore di pace ha fatto carte false per impedire al Cavaliere di onorare le sue promesse più riformatrici. Senza evitargli attacchi delle toghe e ostilità del Quirinale.Scosso dall'ascesa del selvatico Matteo Salvini, il prudente Gianni Letta rifà capolino. Aveva smesso di badare a Silvio Berlusconi nel 2011, sperando che al declino si accompagnasse la prudenza. Ora però che il Cav, mai domo, ha voluto gareggiare e ha perso, Gianni torna in servizio. Ai suoi occhi, il padano è un brutale estremista da isolare. Perciò, passerà i prossimi giorni a tarlare l'alleanza tra Fi e Lega. Se Silvio non lo ascolta, potrà risentirne il loro quarantennale sodalizio. Gianni ha una reputazione da difendere lunga quanto i suoi 82 anni di vita: quella di conciliatore universale che sparge vaselina sul mondo. Ma con gli irriducibili alla Salvini non c'è rimedio. L'unica è appallottolarli come un brutto disegno.Un bello spirito ha detto che Gianni, anziché nascere sotto una comune foglia di cavolo, fu trovato dai genitori tra cespi di rose. Era un bebè così lindo e distinto da sembrare un amministratore delegato. Mamma e papà si portarono a casa il batuffolo profumato che aveva le stigmate di un futuro d'eccezione. Il ritrovamento avvenne nell'aprile del 1935 in quel di Avezzano, cittadina abruzzese fin lì nota solo per essere adagiata sul fondo prosciugato di un antico lago.Il papà di Gianni era avvocato, la mamma una pia donna, lo zio prefetto. Il ragazzo assimilò quella solida visione del mondo: Dio ci protegge, il governo ci guida, le mani servono al lavoro, le gambe per andarci. Ebbe fratelli e sorelle, tutti della stessa pasta. I Letta si sparsero per ogni dove nei gangli della vita italiana. Matematici, storici, manager, alti funzionari, politici. Poiché anche la generazione successiva si è fatta onore - basti pensare al nipote di Gianni, l'ex premier Enrico Letta -, vanno annoverati tra le dinastie contemporanee. Gareggiano per lustro con gli irpini De Mita, di cui Ciriaco è l'icona, e i reggiani Prodi, con Romano fiore all'occhiello. Complessivamente una centuria di predestinati con un passato parrocchiale intinto di laicismo salottiero. Il mix perfetto del «cattolico adulto».Gianni crebbe dunque senza grilli per la testa, che fu libera di concentrarsi sulla carriera. In attesa di laurearsi in legge si impiegò come operaio in uno zuccherificio. Di lì a breve, era direttore del reparto chimico. In capo a un anno, sposava la figlia del proprietario, Maddalena Marignetti, dalla quale, festeggiate ormai da tempo le nozze di diamante, ha avuto Marina e Giampaolo, ad di Medusa Film, società Mediaset. Col tempo, coniugando lo zuccherificio col buonismo del suo carattere, gli fu dato il soprannome di Zolletta. Mentre noi ci dilungavamo, Zolletta è passato al giornalismo. Corrispondente dall'Aquila del Tempo di Roma, fu presto chiamato nella sede centrale da Renato Angiolillo, direttore e fondatore del quotidiano. Nel 1973, alla sua morte, gli successe al timone tessendo morbidi rapporti con i politici di ogni orientamento. Prediligeva i dc e sterzò al centro il giornale che era piuttosto destrorso. Legatissimo ad Amintore Fanfani e Giulio Andreotti, che tra loro si odiavano, andava da uno senza dirlo all'altro, facendosi amare da entrambi. Ma era delizioso con l'intero Palazzo, a 360 gradi. Ecco come si legò all'imprenditore Berlusconi che, dopo la fase del mattone, si avventurava nella selva delle tv private, impastoiate allora da leggi retrive. Per propagandare le sue ragioni, Silvio spediva di continuo ai quotidiani, con preghiera di pubblicazione, gli scritti del proprio legale, Aldo Bonomo. Inneggiavano alla modernità della sua battaglia. Gli articoli erano però pedanti e i direttori li gettavano nel cestino. Solo Letta li stampava in bella vista. La cosa non sfuggì al Cav che cominciò, come tutti, ad adorare l'amabile Gianni. Così, quando nel 1987 il Nostro lasciò il Tempo, Berlusconi lo assunse all'istante a Mediaset. Non se ne separò più. Lo volle testimone delle seconde nozze con Veronica Lario. Andavano insieme alla Scala e ai banchetti ufficiali. Come commensale, Gianni è sobrio come una top model. Un'insalata poco condita per primo, un'insalata poco condita per secondo. Beve solo acqua. Questo gli consente una vigilanza continua. Nel 1994, Gianni fu contrarissimo all'ingresso del Cav in politica. «Ti distruggeranno», diceva profeticamente, temendo anche di guastare i suoi meravigliosi rapporti con i politici di ogni colore. Appena però Berlusconi fece il passo, lo affiancò. Nelle tre fasi governative -1994, 2001, 2008 - è stato sempre sottosegretario a Palazzo Chigi, stanza vicina al capo. Mentre costui volteggiava con Vladimir Putin e George Bush, Letta appianava divergenze dietro le quinte e smussava attriti con l'opposizione. Vi do un scampolo della sua tecnica. Si era liberato un prestigioso posto di primario ospedaliero a Roma. Un medico di provincia con ottimi titoli e simpatie berlusconiane chiese l'appoggio di alcuni di Fi per ottenerlo. Fu interpellato l'allora governatore an del Lazio, Francesco Storace, competente per materia, che però disse: «La decisione è politica. Parlatene col responsabile regionale di Fi, Antonio Tajani». Ma Tajani replicò: «Il solo che può decidere è Letta». Il piccolo corteo si trascinò fino a Palazzo Chigi. «Ci penso io», fu la risposta di Gianni, accompagnata da un cortese sorriso. Tre giorni dopo, il posto andò a un medico legato ai Ds. Era il modo con cui Letta pensava di sopire l'opposizione e dare respiro al Berlusca. S'è visto.Prebende e miele del sottosegretario non hanno evitato al Cav il Duomo di bronzo sul grugno, l'assedio delle toghe, gli attacchi della stampa, l'ostilità del Quirinale. Letta, per il suo morboso amore di pace, ha fatto carte false per impedire a Berlusconi di onorare le sue promesse più riformatrici. «Ti massacreranno», gli diceva ogni volta. Quando c'era bonaccia, tutto contento esclamava: «Finalmente mi è stato a sentire». Se c'era tempesta, preludio dell'azione, diceva sconsolato: «Non sono riuscito a trattenerlo». Così, l'ha annacquato fino a omologarlo. E ha segnato la fine, neppure gloriosa, del Cav. Non ho prove ma lo sospetto di un ruolo trasversale nel precipitoso ritiro di Silvio da Palazzo Chigi nel 2011, quando l'Ue e lo spread lo azzannarono. Un episodio trascurato, altrimenti inspiegabile, mi fa pensare che abbia esercitato pressioni tali da dare un aiuto decisivo a chi voleva abbatterlo. La storia si svolge in due tempi.Terminata al Quirinale la cerimonia del giuramento di Mario Monti, il successore, Giorgio Napolitano disse a sorpresa: «Un grazie speciale a Gianni Letta per lo spirito di servizio con cui ha contribuito a tenere limpido il rapporto tra presidenza della Repubblica e governo nell'interesse generale». Come dire: io non ho defenestrato il Berlusca a tradimento ma in pieno accordo col suo plenipotenziario. Due giorni dopo, durante il discorso di insediamento, Monti fece il bis. Vedendo Letta nella galleria dell'aula di Montecitorio disse di punto in bianco: «Una persona molto rispettata da tutti, mi riferisco al dottor Gianni Letta, mi usa la cortesia di essere presente in tribuna. Lo ringrazio». Due salamelecchi irrituali. Una chiamata di correo?
Il presidente di Generalfinance e docente di Corporate Finance alla Bocconi Maurizio Dallocchio e il vicedirettore de la Verità Giuliano Zulin
Dopo l’intervista di Maurizio Belpietro al ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, Zulin ha chiamato sul palco Dallocchio per discutere di quante risorse servono per la transizione energetica e di come la finanza possa effettivamente sostenerla.
Il tema centrale, secondo Dallocchio, è la relazione tra rendimento e impegno ambientale. «Se un green bond ha un rendimento leggermente inferiore a un titolo normale, con un differenziale di circa 5 punti base, è insensato - ha osservato - chi vuole investire nell’ambiente deve essere disposto a un sacrificio più elevato, ma serve chiarezza su dove vengono investiti i soldi». Attualmente i green bond rappresentano circa il 25% delle emissioni, un livello ritenuto ragionevole, ma è necessario collegare in modo trasparente raccolta e utilizzo dei fondi, con progetti misurabili e verificabili.
Dallocchio ha sottolineato anche il ruolo dei regolamenti europei. «L’Europa regolamenta duramente, ma finisce per ridurre la possibilità di azione. La rigidità rischia di scoraggiare le imprese dal quotarsi in borsa, con conseguenze negative sugli investimenti green. Oggi il 70% dei cda delle banche è dedicato alla compliance e questo non va bene». Un altro nodo evidenziato riguarda la concentrazione dei mercati: gli emittenti privati si riducono, mentre grandi attori privati dominano la borsa, rendendo difficile per le imprese italiane ed europee accedere al capitale. Secondo Dallocchio, le aziende dovranno abituarsi a un mercato dove le banche offrono meno credito diretto e più strumenti di trading, seguendo il modello americano.
Infine, il confronto tra politica monetaria europea e americana ha messo in luce contraddizioni: «La Fed dice di non occuparsi di clima, la Bce lo inserisce nei suoi valori, ma non abbiamo visto un reale miglioramento della finanza green in Europa. La sensibilità verso gli investimenti sostenibili resta più personale che istituzionale». Il panel ha così evidenziato come la finanza sostenibile possa sostenere la transizione energetica solo se accompagnata da chiarezza, regole coerenti e attenzione al ritorno degli investimenti, evitando mode o vincoli eccessivi che rischiano di paralizzare il mercato.
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Intervistato da Maurizio Belpietro, direttore de La Verità, il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica Gilberto Pichetto Fratin non usa giri di parole: «Io non sono contro l’elettrico, sono convinto che il motore elettrico abbia un futuro enorme. Ma una cosa è credere in una tecnologia, un’altra è trasformarla in un’imposizione politica. Questo ha fatto l’Unione Europea con la scadenza del 2035». Secondo Pichetto Fratin, il vincolo fissato a Bruxelles non nasce da ragioni scientifiche: «È come se io oggi decidessi quale sarà la tecnologia del 2040. È un metodo sovietico, come le tavole di Leontief: la politica stabilisce dall’alto cosa succederà, ignorando il mercato e i progressi scientifici. Nessuno mi toglie dalla testa che Timmermans abbia imposto alle case automobilistiche europee – che all’epoca erano d’accordo – il vincolo del 2035. Ma oggi quelle stesse industrie si accorgono che non è più sostenibile».
Il motore elettrico: futuro sì, imposizioni no. Il ministro tiene a ribadire di non avere pregiudizi sulla tecnologia: «Il motore elettrico è il più semplice da costruire, ha sette-otto volte meno pezzi, si rompe raramente. Pensi al motore del frigorifero: quello di mia madre ha funzionato cinquant’anni senza mai guastarsi. È una tecnologia solida. Ma da questo a imporre a tutti gli europei di pagare la riconversione industriale delle case automobilistiche, ce ne corre». Colonnine e paradosso dell’uovo e della gallina. Belpietro chiede conto del tema infrastrutturale: perché le gare per le colonnine sono andate deserte? Pichetto Fratin replica: «Perché non c’è il mercato. Non ci sono abbastanza auto elettriche in circolazione, quindi nessuno vuole investire. È il classico paradosso: prima l’uovo o la gallina?». Il ministro racconta di aver tentato in tutti i modi: «Ho fatto bandi, ho ripetuto le gare, ho perfino chiesto a Rfi di partecipare. Alla fine ho dovuto riconvertire i 597 milioni di fondi europei destinati alle colonnine, dopo una lunga contrattazione con Bruxelles. Ma anche qui si vede l’assurdità: l’Unione Europea ci impone obiettivi, senza considerare che il mercato non risponde».
Prezzi eccessivi e mercato bloccato. Un altro nodo è il costo delle auto elettriche: «In Germania servono due o tre annualità di stipendio di un operaio per comprarne una. In Italia ce ne vogliono cinque. Non è un caso che fino a poco tempo fa fossero auto da direttori di giornale o grandi manager. Questo non è un mercato libero, è un’imposizione politica». L’errore: imporre il motore, non le emissioni. Per Pichetto Fratin, l’errore dell’Ue è stato vincolare la tecnologia, non il risultato: «Se l’obiettivo era emissione zero nel 2035, bastava dirlo. Ci sono già veicoli diesel a emissioni zero, ci sono biocarburanti, c’è il biometano. Ma Bruxelles ha deciso che l’unica via è l’elettrico. È qui l’errore: hanno trasformato una direttiva ambientale in un regalo alle case automobilistiche, scaricando il costo sugli europei».
Bruxelles e la vicepresidente Ribera. Belpietro ricorda le dichiarazioni della vicepresidente Teresa Ribera. Il ministro risponde: «La Ribera è una che ascolta, devo riconoscerlo. Ma resta molto ideologica. E la Commissione Europea è un rassemblement, non un vero governo: dentro c’è di tutto. In Spagna, per esempio, la Ribera è stata protagonista delle scelte che hanno portato al blackout, puntando solo sulle rinnovabili senza un mix energetico». La critica alla Germania. Il ministro non risparmia critiche alla Germania: «Prima chiudono le centrali nucleari, poi riaprono quelle a carbone, la fonte più inquinante. È pura ipocrisia. Noi in Italia abbiamo smesso col carbone, ma a Berlino per compiacere i Verdi hanno abbandonato il nucleare e sono tornati indietro di decenni».
Obiettivi 2040: «Irrealistici per l’Italia». Si arriva quindi alla trattativa sul nuovo target europeo: riduzione del 90% delle emissioni entro il 2040. Pichetto Fratin è netto: «È un obiettivo irraggiungibile per l’Italia. I Paesi del Nord hanno territori sterminati e pochi abitanti. Noi abbiamo centomila borghi, due catene montuose, il mare, la Pianura Padana che soffre già l’inquinamento. Imporre le stesse regole a tutti è sbagliato. L’Italia rischia di non farcela e di pagare un prezzo altissimo». Il ruolo del gas e le prospettive future. Il ministro difende il gas come energia di transizione: «È il combustibile fossile meno dannoso, e ci accompagnerà per decenni. Prima di poterlo sostituire servirà il nucleare di quarta generazione, o magari la fusione. Nel frattempo il gas resta la garanzia di stabilità energetica». Conclusione: pragmatismo contro ideologia. Nelle battute finali dell’intervista con Belpietro, Pichetto Fratin riassume la sua posizione: «Ridurre le emissioni è un obiettivo giusto. Ma un conto è farlo con scienza e tecnologia, un altro è imporre scadenze irrealistiche che distruggono l’economia reale. Qui non si tratta di ambiente: si tratta di ideologia. E i costi ricadono sempre sugli europei.»
Il ministro aggiunge: «Oggi produciamo in Italia circa 260 TWh. Il resto lo importiamo, soprattutto dalla Francia, poi da Montenegro e altri paesi. Se vogliamo davvero dare una risposta a questo fabbisogno crescente, non c’è alternativa: bisogna guardare al nucleare. Non quello di ieri, ma un nuovo nucleare. Io sono convinto che la strada siano i piccoli reattori modulari, anche se aspettiamo i fatti concreti. È lì che dobbiamo guardare». Pichetto Fratin chiarisce: «Il nucleare non è un’alternativa alle altre fonti: non sostituisce l’eolico, non sostituisce il fotovoltaico, né il geotermico. Ma è un tassello indispensabile in un mix equilibrato. Senza, non potremo mai reggere i consumi futuri». Gas liquido e rapporti con gli Stati Uniti. Il discorso scivola poi sul gas: «Abbiamo firmato un accordo standard con gli Stati Uniti per l’importazione di Gnl, ma oggi non abbiamo ancora i rigassificatori sufficienti per rispettarlo. Oggi la nostra capacità di importazione è di circa 28 miliardi di metri cubi l’anno, mentre l’impegno arriverebbe a 60. Negli Usa i liquefattori sono in costruzione: servirà almeno un anno o due. E, comunque, non è lo Stato a comprare: sono gli operatori, come Eni, che decidono in base al prezzo. Non è un obbligo politico, è mercato». Bollette e prezzi dell’energia. Sul tema bollette, il ministro precisa: «L’obiettivo è farle scendere, ma non esistono bacchette magiche. Non è che con un mio decreto domani la bolletta cala: questo accadeva solo in altri regimi. Noi stiamo lavorando per correggere il meccanismo che determina il prezzo dell’energia, perché ci sono anomalie evidenti. A breve uscirà un decreto con alcuni interventi puntuali. Ma la verità è che per avere bollette davvero più basse bisogna avere energia a un costo molto più basso. E i francesi, grazie al nucleare, ce l’hanno a prezzi molto inferiori ai nostri».
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