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2019-03-28
I pm provano a montare un caso Diciotti bis
Ansa
L'indagato. Con la speranza neppure troppo nascosta che prima o poi diventi l'imputato. Arenata sul bagnasciuga delle autorizzazioni a procedere l'offensiva Diciotti, la battaglia navale dei giudici nei confronti del ministro dell'Interno Matteo Salvini ricomincia con la Sea Watch 3. L'ipotesi di reato è la stessa: omissione d'atti di ufficio e limitazione della libertà personale (praticamente sequestro di persona) dei 47 migranti arrivati davanti a Siracusa a fine gennaio, e bloccati per alcuni giorni sulla nave della Ong tedesca in attesa di soluzione internazionale del problema.
Per approfondire il capo d'imputazione, il fascicolo (per ora contro ignoti) è stato trasmesso dalla Procura di Roma, a firma del pm Sergio Colaiocco, a quella di Siracusa per competenza territoriale. Ma la patata bollente è stata immediatamente deviata come una pallina da flipper verso Catania, dove erano sbarcati i profughi, dove era stata istruita la pratica Diciotti e dove il Tribunale dei ministri etneo dovrà eventualmente pronunciarsi. Ci sono tutti i presupposti perché questo sia il secondo tempo di quella partita, anche se qualche sostanziale distinguo esiste.
A differenza della Diciotti, la Sea Watch 3 è una nave straniera che aveva imbarcato i migranti in acque territoriali libiche e, messa in allarme per l'arrivo di un fortunale, aveva deciso di puntare direttamente sulle coste italiane più lontane invece di riparare nella vicina Tunisia, meta rifugio di cargo e petroliere che in quei giorni incrociavano nella zona. A molti l'operazione è sembrata una provocazione per forzare la mano rispetto alle restrizioni del governo italiano. Il Pd la cavalcò immediatamente, e il rodeo di parlamentari sui gommoni attorno alla nave con salita a bordo di Matteo Orfini e Maurizio Martina (leader delle pittoresche «staffette democratiche») fece da sfondo alla campagna per le primarie del centrosinistra.
Il secondo punto debole dell'inchiesta riguarda l'accusa nel merito. Nei giorni della sosta davanti a Siracusa con le 47 persone a bordo (fra le quali otto minori di 16 e 17 anni senza documenti e non accompagnati), la stessa Ong Sea Watch denunciò il governo alla Corte europea dei Diritti dell'uomo di Strasburgo per imporre lo sbarco immediato. La risposta fu lapidaria: «La Cedu non accoglie la richiesta dei ricorrenti ad essere sbarcati, ma chiede all'Italia di adottare tutte le misure necessarie, il prima possibile, per fornire ai migranti adeguate cure mediche, cibo, acqua e generi di prima necessità». Supporto doveroso, peraltro in atto dall'ingresso in rada della nave.
La sentenza della Corte proseguiva così: «Per quanto riguarda i minori non accompagnati, si richiede al governo di fornire adeguata assistenza legale. La misura è in vigore fino a nuovo ordine». Dopo 12 giorni i passeggeri sbarcarono e la vicenda si risolse con il coinvolgimento di sette Paesi europei e alcune associazioni che se ne fecero carico. Ora la Procura di Catania dovrebbe contraddire la decisione ufficiale di un Tribunale internazionale qualificato come quello dei diritti umani, che non aveva ravvisato reati, tanto meno sequestri di persona in essere.
Matteo Salvini non mostra alcuna preoccupazione per la nuova offensiva che ricorda un metodo in voga durante i governi di Silvio Berlusconi, contrappuntati da fuochi d'artificio di inchieste e avvisi di garanzia. «È in arrivo un altro processo nei confronti del cattivone Salvini?», si domanda in una diretta Facebook dal Viminale. «Lo scopriremo solo vivendo come cantava Lucio Battisti. Io non cambio idea, in Italia si arriva col permesso, anche perché a meno partenze corrispondono meno morti». Poi un messaggio diretto ai magistrati: «Possono continuare a denunciare, denunciare denunciare. Non cambio idea, i porti italiani sono sigillati per quello che riguarda l'immigrazione clandestina e il traffico di esseri umani».
La battaglia navale prosegue e sposta onde anche ad Agrigento, dove la procura ha deciso di dissequestrare il naviglio Mare Jonio della ong italiana Mediterranea, che all'arrivo in porto a Lampedusa con 50 persone a bordo era stata presa in carico dalla Guardia di finanza. È un atto dovuto perché «sono cessate le esigenze probatorie», ha spiegato il procuratore aggiunto Salvatore Vella. Si tratta della nave di Luca Casarini, l'ex «disobbediente» di professione riscopertosi pirata dei Caraibi ed ora indagato con il comandante Pietro Marrone per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e mancato rispetto di un ordine proveniente da una nave militare. Quella della Gdf che aveva loro intimato l'alt.
«Vorrei presto tornare in mare a salvare vite», ha spiegato l'ex leader dei No Global. Poi si è precipitato alla Camera dei deputati dove il suo ex compare di assalti alla polizia Nicola Fratoianni e Orfini in rappresentanza del Pd, gli hanno offerto il caffè. La sfilata del rivoluzionario all'amatriciana ha creato imbarazzi perfino a sinistra. E Salvini ha chiosato con disgusto: «La Camera trasformata in un centro sociale».
Migranti salvati dirottano mercantile. Dalle coste libiche puntano verso di noi
La virata è arrivata all'improvviso a sei miglia marine, più o meno, da Tripoli. Sui radar gli ufficiali della Guardia costiera libica hanno visto la nave cisterna turca El Hiblu 1 invertire la rotta e riprendere il largo in direzione dell'area di ricerca e soccorso di Malta con a bordo i 108 migranti tratti in salvo poche ore prima. Uomini e donne che avevano sfidato le onde su una bagnarola per raggiungere le coste europee, ma che si erano ritrovati quasi immediatamente in difficoltà.
Nessuno aveva impartito l'ordine di tornare indietro né ipotizzato una diversa destinazione rispetto a quella programmata subito dopo il primo contatto radio tra le autorità libiche e il comandante. La nave cisterna El Hiblu 1 doveva entrare nel porto della capitale nordafricana e far sbarcare lì i profughi. Che cosa è successo, allora nella sala comandi dell'imbarcazione? E perché sono stati poi spenti i transponder?
«Poveri naufraghi che dirottano il mercantile che li ha salvati perché vogliono decidere la rotta della crociera», ha spiegato in diretta Facebook il ministro Matteo Salvini. Mostrando sulla cartina il punto in cui si trovava la nave «a mezza via tra Italia e Malta». In direzione Nord. Fuori dall'area di competenza della Guardia costiera libica, ormai tagliata fuori da ogni possibile genere di intervento. Ostaggio dei migranti che ne hanno preso il controllo.
«Io dico ai pirati: «l'Italia scordatevela», ha aggiunto Salvini. A bordo del natante, battente bandiera delle Isole Palau, non si sono registrati atti di violenza, almeno per quel che è stato possibile ricostruire. Le autorità maltesi, nonostante i ripetuti tentativi, non sono riuscite a parlare con il comandante della nave cisterna se non a tarda sera, quando è stato ufficialmente confermato l'atto di pirateria con tanto di segnalazione satellitare al sistema Ssas, ovvero lo Ship security alert system.
«Questa è la dimostrazione più evidente che non si tratta di un'operazione di soccorso ma un traffico criminale di esseri umani che arriva addirittura a dirottare un'imbarcazione privata. È un gesto di delinquenza, di criminalità organizzata. Le acque italiane sono precluse ai criminali», è stato l'affondo del capo del Viminale.
Fino a questa notte, la situazione è rimasta praticamente nel limbo: la nave cisterna è entrata in zona Sar maltese (termine inglese, search and rescue, che indica lo specchio d'acqua di competenza di un Paese per la ricerca e il soccorso di navi in avaria) in concomitanza con un peggioramento delle condizioni meteo. Il che significa che, solo nelle prossime ore, si riuscirà a capire se la petroliera punterà la prua verso Lampedusa o verso le coste maltesi. Intanto, La Valletta ha immediatamente attivato il protocollo di sicurezza. Non per accogliere i migranti, ma per tutelare sé stessa. Una portavoce dell'Aeronautica militare maltese ha confermato infatti di aver ricevuto una segnalazione su una «nave dirottata» anticipando un possibile intervento delle autorità marittime nazionali per impedirle l'accesso ai porti. Ma questo sarà possibile solo quando, e se, la nave entrerà nelle acque territoriali dell'isola, entro le 24 miglia marine.
Intanto, il salvataggio dei profughi ha immediatamente fatto scoccare la scintilla della polemica politica contro il leader della Lega. Il primo a parlare è stato Luca Casarini, capo missione della Ong Mediterranea, recentemente indagato per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina in relazione all'attracco della nave Mare Jonio a Lampedusa. «Il nostro centro di controllo sta monitorando questa vicenda, ma è evidente che non si tratta di pirati, bensì di persone che scappano dai lager, dai campi di concentramento», ha dichiarato l'ex leader dei No Global. La rete delle associazioni italiane che con la nave Mare Jonio si alterna con Sea Watch e Open Arms nel Mediterraneo ha rincarato la dose. «L'articolo 33 della Convenzione di Ginevra parla chiaro», attacca la Ong Mediterranea, «nessuno Stato contraente espellerà o respingerà in qualsiasi modo un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate. I governi che si oppongono a questo salvataggio e pretendono che la nave consegni i naufraghi in un porto libico compiono un reato oltre che un atto disumano». «Facciamo appello alle istituzioni europee perché non voltino la testa da un'altra parte ed aiutino le persone in fuga dai campi di concentramento libici». «Alla El Hiblu 1 deve essere immediatamente assegnato un porto sicuro in un Paese europeo», conclude la rete, «dove alle persone salvate siano garantiti i diritti umani fondamentali. Queste persone non possono né devono essere trattate come “pirati" o criminali, ma come richiedenti asilo in fuga dall'inferno dei campi di detenzione libici».
Una nuova crisi diplomatica e politica è a questo punto all'orizzonte.
I supporter dello ius soli mentono. La legge tutela già i giovani stranieri
Potevano mancare i sindacati alla crociata promossa dalla sinistra per lo ius soli? No, e infatti non mancano. L'altro ieri pure Annamaria Furlan, segretario generale della Cisl, ha timbrato il cartellino (intervistona a Repubblica), facendoci evidentemente immaginare che, prima del lavoro, dei contratti, delle pensioni, della ripresa economica, venga - priorità delle priorità - lo ius soli, e lo stravolgimento di una normativa che già attualmente, come La Verità ha spiegato due giorni fa in dettaglio, produce ogni anno nuovi record italiani di concessione della cittadinanza. Più di qualunque altro Paese europeo. Ma al sindacato non basta.
Anzi, il fatto che l'Italia sia per distacco il primo paese Ue a concedere cittadinanze non sfiora nemmeno la Furlan, che sentenzia: «Una legge così restrittiva sul diritto di cittadinanza non ha senso in termini umani, giuridici, sociali e anche economici». Con tanti saluti alle cifre e ai dati Istat, che attestano il contrario.
Dopo di che, il leader Cisl si lancia nel repertorio più classico: la storia umana, il caso strappalacrime: «Due anni fa al congresso Cisl è venuto un ragazzo di Caserta che proprio quel giorno compiva 18 anni, e ha raccontato come, pur essendo nato in Italia, frequentato le scuole italiane, giocato a calcio in una squadra locale, avesse dovuto aspettare fino a quel giorno» per la cittadinanza.
Non ditelo alla Furlan: ma esattamente il suo racconto mostra che una ragionevolissima attesa della cittadinanza (non a caso fatta coincidere con il compimento della maggiore età) non priva l'adolescente figlio di cittadini stranieri proprio di nulla: né sul piano scolastico e educativo, né su quello sociale, né in ogni altro aspetto riguardante i diritti e le libertà di un giovane.
E infatti il segretario Cisl è costretto a ripiegare su dati puramente psicologici, inafferrabili, discutibilissimi: «Il mancato riconoscimento della cittadinanza comporta disagi per i bambini e le bambine di seconda generazione». Ma in che senso? Semmai, è vero il contrario: chiunque conosca la realtà di molte scuole elementari italiane sa che proprio la presenza, a volte troppo elevata, di bimbi di origine non italiana determina - per tutti, indipendentemente da qualunque considerazione politica - un'oggettiva difficoltà didattica.
Ma torniamo al punto di fondo. Quale sarebbe il danno - per l'adolescente figlio di cittadini non italiani - di dover attendere il diciottesimo compleanno per diventare italiani? Due sere fa, nel programma di Rete 4 Quarta Repubblica, Nicola Porro lo ha gentilmente - quindi con massima perfidia - chiesto ai suoi ospiti di sinistra: «Ma scusate, quali sarebbero le discriminazioni, le possibilità in meno per un adolescente senza cittadinanza? Me le elencate?». Un lungo, interminabile silenzio. Sorridendo soddisfatto, il sottosegretario leghista Stefano Candiani ha mormorato: «Dovranno restare muti, perché non ce ne sono». E infatti, in mancanza d'altro, da sinistra è ripartita la solita canzoncina del «sentirsi accettati».
Ma la realtà è un'altra. Non c'è alcuna discriminazione. Sul piano costituzionale, piena tutela è garantita dal comma 2 dell'articolo 10 della Carta: «La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali». Anche per gli irregolari (ovviamente) sono e restano garantiti i diritti fondamentali della persona umana. Quanto ai regolari, in linea di massima hanno gli stessi diritti dei cittadini italiani. In particolare, i lavoratori e le loro famiglie hanno piena parità di trattamento e uguaglianza giuridica rispetto ai lavoratori italiani.
Certo, ai fini dell'accesso ad alcuni servizi o benefici, la legge può sempre mettere dei paletti (è accaduto di recente anche per il reddito di cittadinanza, ancorato alla condizione dei dieci anni di residenza), ma deve appunto trattarsi di criteri oggettivi, generali ed astratti: non certo legati a razza, lingua o religione. È perfino superfluo sottolineare che queste ultime ipotesi siano tassativamente escluse, e addirittura inimmaginabili per il nostro ordinamento.
Morale. Il nostro adolescente figlio di non italiani e in attesa di cittadinanza può studiare? Sì, anzi deve. Può curarsi, se ha un problema di salute? Certamente. Può comportarsi in tutto e per tutto come i suoi compagni? Assolutamente sì. Ovviamente avrà solo documenti diversi, che gli serviranno per viaggiare e spostarsi. Il massimo del disagio pratico può essere questo.
Quanto, infine, al tema dell'«accettazione», anche lì l'argomento degli immigrazionisti è facilmente rovesciabile. Se ci fosse un governo (il loro), determinato ad andare contro la maggioranza degli elettori per imporre lo ius soli, ma contemporaneamente permanesse una diffidenza sociale, una contrarietà degli italiani alla novità, sarebbe proprio quella situazione a generare ulteriore rancore, conflitti, ostilità. È esattamente quel circuito perverso che - in altri Paesi - ha portato ragazzi apparentemente normali e integrati a compiere atti violenti. Meglio pensarci prima.
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La Procura di Roma gira a Siracusa il fascicolo sulla Sea Watch 3. L'imbarcazione dell'Ong tedesca che fece sbarcare a Catania 47 migranti dopo una finta emergenza. L'ipotesi da omissione di atti d'ufficio diventa sequestro di persona. Viminale nel mirino.La nave, con 108 persone, s'è allontanata da Tripoli diretta a Nord. Malta schiera la marina. Matteo Salvini: «Pirati, l'Italia ve la scordate».Mentre aspettano di compiere i 18 anni, i minori di seconda generazione godono dei medesimi diritti dei compagni italiani: dalla scuola, alla salute è tutto uguale. Gli isterismi della sinistra sono infondati.Lo speciale contiene tre articoli.L'indagato. Con la speranza neppure troppo nascosta che prima o poi diventi l'imputato. Arenata sul bagnasciuga delle autorizzazioni a procedere l'offensiva Diciotti, la battaglia navale dei giudici nei confronti del ministro dell'Interno Matteo Salvini ricomincia con la Sea Watch 3. L'ipotesi di reato è la stessa: omissione d'atti di ufficio e limitazione della libertà personale (praticamente sequestro di persona) dei 47 migranti arrivati davanti a Siracusa a fine gennaio, e bloccati per alcuni giorni sulla nave della Ong tedesca in attesa di soluzione internazionale del problema. Per approfondire il capo d'imputazione, il fascicolo (per ora contro ignoti) è stato trasmesso dalla Procura di Roma, a firma del pm Sergio Colaiocco, a quella di Siracusa per competenza territoriale. Ma la patata bollente è stata immediatamente deviata come una pallina da flipper verso Catania, dove erano sbarcati i profughi, dove era stata istruita la pratica Diciotti e dove il Tribunale dei ministri etneo dovrà eventualmente pronunciarsi. Ci sono tutti i presupposti perché questo sia il secondo tempo di quella partita, anche se qualche sostanziale distinguo esiste. A differenza della Diciotti, la Sea Watch 3 è una nave straniera che aveva imbarcato i migranti in acque territoriali libiche e, messa in allarme per l'arrivo di un fortunale, aveva deciso di puntare direttamente sulle coste italiane più lontane invece di riparare nella vicina Tunisia, meta rifugio di cargo e petroliere che in quei giorni incrociavano nella zona. A molti l'operazione è sembrata una provocazione per forzare la mano rispetto alle restrizioni del governo italiano. Il Pd la cavalcò immediatamente, e il rodeo di parlamentari sui gommoni attorno alla nave con salita a bordo di Matteo Orfini e Maurizio Martina (leader delle pittoresche «staffette democratiche») fece da sfondo alla campagna per le primarie del centrosinistra. Il secondo punto debole dell'inchiesta riguarda l'accusa nel merito. Nei giorni della sosta davanti a Siracusa con le 47 persone a bordo (fra le quali otto minori di 16 e 17 anni senza documenti e non accompagnati), la stessa Ong Sea Watch denunciò il governo alla Corte europea dei Diritti dell'uomo di Strasburgo per imporre lo sbarco immediato. La risposta fu lapidaria: «La Cedu non accoglie la richiesta dei ricorrenti ad essere sbarcati, ma chiede all'Italia di adottare tutte le misure necessarie, il prima possibile, per fornire ai migranti adeguate cure mediche, cibo, acqua e generi di prima necessità». Supporto doveroso, peraltro in atto dall'ingresso in rada della nave. La sentenza della Corte proseguiva così: «Per quanto riguarda i minori non accompagnati, si richiede al governo di fornire adeguata assistenza legale. La misura è in vigore fino a nuovo ordine». Dopo 12 giorni i passeggeri sbarcarono e la vicenda si risolse con il coinvolgimento di sette Paesi europei e alcune associazioni che se ne fecero carico. Ora la Procura di Catania dovrebbe contraddire la decisione ufficiale di un Tribunale internazionale qualificato come quello dei diritti umani, che non aveva ravvisato reati, tanto meno sequestri di persona in essere. Matteo Salvini non mostra alcuna preoccupazione per la nuova offensiva che ricorda un metodo in voga durante i governi di Silvio Berlusconi, contrappuntati da fuochi d'artificio di inchieste e avvisi di garanzia. «È in arrivo un altro processo nei confronti del cattivone Salvini?», si domanda in una diretta Facebook dal Viminale. «Lo scopriremo solo vivendo come cantava Lucio Battisti. Io non cambio idea, in Italia si arriva col permesso, anche perché a meno partenze corrispondono meno morti». Poi un messaggio diretto ai magistrati: «Possono continuare a denunciare, denunciare denunciare. Non cambio idea, i porti italiani sono sigillati per quello che riguarda l'immigrazione clandestina e il traffico di esseri umani».La battaglia navale prosegue e sposta onde anche ad Agrigento, dove la procura ha deciso di dissequestrare il naviglio Mare Jonio della ong italiana Mediterranea, che all'arrivo in porto a Lampedusa con 50 persone a bordo era stata presa in carico dalla Guardia di finanza. È un atto dovuto perché «sono cessate le esigenze probatorie», ha spiegato il procuratore aggiunto Salvatore Vella. Si tratta della nave di Luca Casarini, l'ex «disobbediente» di professione riscopertosi pirata dei Caraibi ed ora indagato con il comandante Pietro Marrone per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e mancato rispetto di un ordine proveniente da una nave militare. Quella della Gdf che aveva loro intimato l'alt.«Vorrei presto tornare in mare a salvare vite», ha spiegato l'ex leader dei No Global. Poi si è precipitato alla Camera dei deputati dove il suo ex compare di assalti alla polizia Nicola Fratoianni e Orfini in rappresentanza del Pd, gli hanno offerto il caffè. La sfilata del rivoluzionario all'amatriciana ha creato imbarazzi perfino a sinistra. E Salvini ha chiosato con disgusto: «La Camera trasformata in un centro sociale». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/i-pm-provano-a-montare-un-caso-diciotti-bis-2632971356.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="migranti-salvati-dirottano-mercantile-dalle-coste-libiche-puntano-verso-di-noi" data-post-id="2632971356" data-published-at="1766869337" data-use-pagination="False"> Migranti salvati dirottano mercantile. Dalle coste libiche puntano verso di noi La virata è arrivata all'improvviso a sei miglia marine, più o meno, da Tripoli. 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E perché sono stati poi spenti i transponder? «Poveri naufraghi che dirottano il mercantile che li ha salvati perché vogliono decidere la rotta della crociera», ha spiegato in diretta Facebook il ministro Matteo Salvini. Mostrando sulla cartina il punto in cui si trovava la nave «a mezza via tra Italia e Malta». In direzione Nord. Fuori dall'area di competenza della Guardia costiera libica, ormai tagliata fuori da ogni possibile genere di intervento. Ostaggio dei migranti che ne hanno preso il controllo. «Io dico ai pirati: «l'Italia scordatevela», ha aggiunto Salvini. A bordo del natante, battente bandiera delle Isole Palau, non si sono registrati atti di violenza, almeno per quel che è stato possibile ricostruire. Le autorità maltesi, nonostante i ripetuti tentativi, non sono riuscite a parlare con il comandante della nave cisterna se non a tarda sera, quando è stato ufficialmente confermato l'atto di pirateria con tanto di segnalazione satellitare al sistema Ssas, ovvero lo Ship security alert system. «Questa è la dimostrazione più evidente che non si tratta di un'operazione di soccorso ma un traffico criminale di esseri umani che arriva addirittura a dirottare un'imbarcazione privata. È un gesto di delinquenza, di criminalità organizzata. Le acque italiane sono precluse ai criminali», è stato l'affondo del capo del Viminale. Fino a questa notte, la situazione è rimasta praticamente nel limbo: la nave cisterna è entrata in zona Sar maltese (termine inglese, search and rescue, che indica lo specchio d'acqua di competenza di un Paese per la ricerca e il soccorso di navi in avaria) in concomitanza con un peggioramento delle condizioni meteo. Il che significa che, solo nelle prossime ore, si riuscirà a capire se la petroliera punterà la prua verso Lampedusa o verso le coste maltesi. Intanto, La Valletta ha immediatamente attivato il protocollo di sicurezza. Non per accogliere i migranti, ma per tutelare sé stessa. Una portavoce dell'Aeronautica militare maltese ha confermato infatti di aver ricevuto una segnalazione su una «nave dirottata» anticipando un possibile intervento delle autorità marittime nazionali per impedirle l'accesso ai porti. Ma questo sarà possibile solo quando, e se, la nave entrerà nelle acque territoriali dell'isola, entro le 24 miglia marine. Intanto, il salvataggio dei profughi ha immediatamente fatto scoccare la scintilla della polemica politica contro il leader della Lega. Il primo a parlare è stato Luca Casarini, capo missione della Ong Mediterranea, recentemente indagato per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina in relazione all'attracco della nave Mare Jonio a Lampedusa. «Il nostro centro di controllo sta monitorando questa vicenda, ma è evidente che non si tratta di pirati, bensì di persone che scappano dai lager, dai campi di concentramento», ha dichiarato l'ex leader dei No Global. La rete delle associazioni italiane che con la nave Mare Jonio si alterna con Sea Watch e Open Arms nel Mediterraneo ha rincarato la dose. «L'articolo 33 della Convenzione di Ginevra parla chiaro», attacca la Ong Mediterranea, «nessuno Stato contraente espellerà o respingerà in qualsiasi modo un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate. I governi che si oppongono a questo salvataggio e pretendono che la nave consegni i naufraghi in un porto libico compiono un reato oltre che un atto disumano». «Facciamo appello alle istituzioni europee perché non voltino la testa da un'altra parte ed aiutino le persone in fuga dai campi di concentramento libici». «Alla El Hiblu 1 deve essere immediatamente assegnato un porto sicuro in un Paese europeo», conclude la rete, «dove alle persone salvate siano garantiti i diritti umani fondamentali. Queste persone non possono né devono essere trattate come “pirati" o criminali, ma come richiedenti asilo in fuga dall'inferno dei campi di detenzione libici». 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L'altro ieri pure Annamaria Furlan, segretario generale della Cisl, ha timbrato il cartellino (intervistona a Repubblica), facendoci evidentemente immaginare che, prima del lavoro, dei contratti, delle pensioni, della ripresa economica, venga - priorità delle priorità - lo ius soli, e lo stravolgimento di una normativa che già attualmente, come La Verità ha spiegato due giorni fa in dettaglio, produce ogni anno nuovi record italiani di concessione della cittadinanza. Più di qualunque altro Paese europeo. Ma al sindacato non basta. Anzi, il fatto che l'Italia sia per distacco il primo paese Ue a concedere cittadinanze non sfiora nemmeno la Furlan, che sentenzia: «Una legge così restrittiva sul diritto di cittadinanza non ha senso in termini umani, giuridici, sociali e anche economici». Con tanti saluti alle cifre e ai dati Istat, che attestano il contrario. Dopo di che, il leader Cisl si lancia nel repertorio più classico: la storia umana, il caso strappalacrime: «Due anni fa al congresso Cisl è venuto un ragazzo di Caserta che proprio quel giorno compiva 18 anni, e ha raccontato come, pur essendo nato in Italia, frequentato le scuole italiane, giocato a calcio in una squadra locale, avesse dovuto aspettare fino a quel giorno» per la cittadinanza. Non ditelo alla Furlan: ma esattamente il suo racconto mostra che una ragionevolissima attesa della cittadinanza (non a caso fatta coincidere con il compimento della maggiore età) non priva l'adolescente figlio di cittadini stranieri proprio di nulla: né sul piano scolastico e educativo, né su quello sociale, né in ogni altro aspetto riguardante i diritti e le libertà di un giovane. 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Certo, ai fini dell'accesso ad alcuni servizi o benefici, la legge può sempre mettere dei paletti (è accaduto di recente anche per il reddito di cittadinanza, ancorato alla condizione dei dieci anni di residenza), ma deve appunto trattarsi di criteri oggettivi, generali ed astratti: non certo legati a razza, lingua o religione. È perfino superfluo sottolineare che queste ultime ipotesi siano tassativamente escluse, e addirittura inimmaginabili per il nostro ordinamento. Morale. Il nostro adolescente figlio di non italiani e in attesa di cittadinanza può studiare? Sì, anzi deve. Può curarsi, se ha un problema di salute? Certamente. Può comportarsi in tutto e per tutto come i suoi compagni? Assolutamente sì. Ovviamente avrà solo documenti diversi, che gli serviranno per viaggiare e spostarsi. Il massimo del disagio pratico può essere questo. Quanto, infine, al tema dell'«accettazione», anche lì l'argomento degli immigrazionisti è facilmente rovesciabile. Se ci fosse un governo (il loro), determinato ad andare contro la maggioranza degli elettori per imporre lo ius soli, ma contemporaneamente permanesse una diffidenza sociale, una contrarietà degli italiani alla novità, sarebbe proprio quella situazione a generare ulteriore rancore, conflitti, ostilità. È esattamente quel circuito perverso che - in altri Paesi - ha portato ragazzi apparentemente normali e integrati a compiere atti violenti. Meglio pensarci prima.
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Veniamo al profeta, Pellegrino Artusi, il Garibaldi della cucina tricolore. Scrivendo il libro La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene (1891), l’uomo di Forlimpopoli trapiantato a Firenze creò un’identità gastronomica comune nel Paese da poco unificato, raccogliendo le ricette tradizionali delle varie Regioni - e subregioni - italiane valorizzando le tipicità e diffondendone la conoscenza. È così che suscitò uno slancio di orgoglio nazionale per le diverse cucine italiane che, nei secoli, si sono caratterizzate ognuna in maniera diversa, attraverso i vari coinvolgimenti storici, la civiltà contadina, la cucina di corte (anche papale), quella borghese, le benefiche infiltrazioni e contaminazioni di popoli e cucine d’oltralpe e d’oltremare, e, perché no, anche attraverso la fame e la povertà.
Orio Vergani, il custode, giornalista e scrittore milanese (1898-1960), è una figura di grande rilievo nella storia della cucina patria. Fu lui insieme ad altri innamorati a intuire negli anni Cinquanta del secolo scorso il rischio che correvano le buone tavole del Bel Paese minacciate dalla omologazione e dall’appiattimento dei gusti, insidiate da una cucina industriale e standardizzata. Fu lui a distinguere i pericoli nel turismo di massa e nell’alta marea della modernizzazione. Il timore e l’allarme sacrosanto di Vergani erano dettati dalla paura di perdere a tavola l’autenticità, la qualità e il legame col territorio della nostra tradizione gastronomica. Per combattere la minaccia, l’invitato speciale fondò nel 1953 l’Accademia italiana della cucina sottolineando già nel nome la diversità dell’arte culinaria nelle varie parti d’Italia.
L’Accademia, istituzione culturale della Repubblica italiana, continua al giorno d’oggi, con le sue delegazioni in sessanta Paesi del mondo e gli 8.000 soci, a portare avanti il buon nome della cucina italiana. Non è un caso se a sostenere il progetto all’Unesco siano stati tre attori, due dei quali legati al «profeta» romagnolo e al «custode» milanese: la Fondazione Casa Artusi di Forlimpopoli e l’Accademia italiana della cucina nata, appunto, dall’intuizione di Orio Vergani. Terzo attore è la rivista La cucina Italiana, fondata nel 1929. Paolo Petroni, presidente dell’Accademia, commenta: «Il riconoscimento dell’Unesco rappresenta una grandissima medaglia al valore, per noi. La festeggeremo il terzo giovedì di marzo in tutte le delegazioni del mondo e nelle sedi diplomatiche con una cena basata sulla convivialità e sulla socialità. Il menu? Libero. Ogni delegazione lo rapporterà al territorio e alla tradizione.
L’Unesco ha riconosciuto la cucina italiana patrimonio immateriale andando oltre alle ricette e al semplice nutrimento, considerandola un sistema culturale, rafforzando il ruolo dell’Italia come ambasciatrice di un modello culturale nel mondo in quanto la nostra cucina è una pratica sociale viva, che trasmette memoria, identità e legame con il territorio, valorizzando la convivialità, i rituali, la condivisione famigliare, come il pranzo della domenica, la stagionalità e i gesti quotidiani, oltre a promuovere inclusione e sostenibilità attraverso ricette antispreco tramandate da generazione in generazione. Il riconoscimento non celebra piatti specifici come è stato fatto con altri Paesi, ma l’intera arte culinaria e culturale che lega comunità, famiglie e territori attraverso il cibo. Riconosce l’intelligenza delle ricette tradizionali nate dalla povertà contadina, che insegnano a non sprecare nulla, un concetto di sostenibilità ancestrale. Incarna il legame tra la natura, le risorse locali e le tradizioni culturali, riflettendo la diversità dei paesaggi italiani».
Peccato che non tutti la pensino così, vedi l’attacco del critico e scrittore britannico di gastronomia Giles Coren sul Times. Dopo aver bene intinto la penna nell’iperbole, nella satira e nell’insulto, Coren è partito all’attacco alla baionetta contro, parole sue, il riconoscimento assegnato dall’Unesco, riconoscimento prevedibile, servile, ottuso e irritante. Dice l’opinionista prendendosela anche con i suoi connazionali snob: «Da quando scrivo di ristoranti, combatto contro la presunta supremazia del cibo italiano. Perché è un mito, un miraggio, una bugia alimentata da inglesi dell’alta borghesia che, all’inizio degli anni Novanta, trasferirono le loro residenze estive in Toscana».
Risponde Petroni: «Credo che l’articolo di Coren sia una burla, lo scherzo di uno che in fondo, e lo ha dimostrato in altri articoli, apprezza la cucina italiana. Per etichettare il tutto come burla, basta leggere la parte in cui elogia la cucina inglese candidandola al riconoscimento Unesco per il valore culturale del “toast bruciato appena prima che scatti l’allarme antincendio”, gli “spaghetti con il ketchup”, il “Barolo britannico”, i “noodles cinesi incollati alla tovaglia” e altre perle di questo genere. C’è da sottolineare, invece, che la risposta dell’Unesco è stata unanime: i 24 membri del comitato intergovernativo per la salvaguardia del Patrimonio culturale immateriale hanno votato all’unanimità in favore della cucina italiana. Non c’è stato nemmeno un astenuto. La prima richiesta fu bocciata. Nel 2023 l’abbiamo ripresentata. È la parola “immateriale” che ci bloccò. È difficile definire una cucina immateriale senza cadere nel materiale. Per esempio l’Unesco non ha dato il riconoscimento alla pizza in quanto pizza, ma all’arte napoletana della pizza. Il cammino è stato molto difficile ma, alla fine, siamo riusciti a unificare la pratica quotidiana, i gesti, le parole, i rituali di una cucina variegata e il risultato c’è stato. La cucina italiana è la prima premiata dall’Unesco in tutta la sua interezza».
Se Coren ha scherzato, Alberto Grandi, docente all’Università di Parma, autore del libro La cucina italiana non esiste, è andato giù pesante nell’articolo su The Guardian. Basta il titolo per capire quanto: «Il mito della cucina tradizionale italiana ha sedotto il mondo. La verità è ben diversa». «Grandi è arrivato a dire che la pizza l’hanno inventata gli americani e che il vero grana si trova nel Wisconsin. Che la cucina italiana non risalga al tempo dei Romani lo sanno tutti. Prima della scoperta dell’America, la cucina era un’altra cosa. Quella odierna nasce nell’Ottocento da forni e fornelli borghesi. Se si rimane alla civiltà contadina, si rimane alle zuppe o poco più. Le classi povere non avevano carne da mangiare». Petroni conclude levandosi un sassolino dalla scarpa: l’esultanza dei cuochi stellati, i «cappelloni», come li chiama, è comprensibile ma loro non c’entrano: «Sono contento che approvino il riconoscimento, ma sia chiaro che questo va alla cucina italiana famigliare, domestica».
A chi si deve il maggior merito del riconoscimento Unesco? «A Maddalena Fossati, la direttrice de La cucina italiana. È stata lei a rivolgersi all’Accademia e alla Fondazione Casa Artusi. Il documento l’abbiamo preparato con il prezioso aiuto di Massimo Montanari, accademico onorario, docente all’Università di Bologna, e presentato con il sostegno del sottosegretario alla Cultura, Gianmarco Mazzi».
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Gianluigi Cimmino (Imagoeconomica)
Yamamay ha sempre scelto testimonial molto riconoscibili. Oggi il volto del brand è Rose Villain. Perché questa scelta?
«Negli ultimi tre anni ci siamo avvicinati a due canali di comunicazione molto forti e credibili per i giovani: la musica e lo sport. Oggi, dopo il crollo del mondo degli influencer tradizionali, è fondamentale scegliere un volto autentico, coerente e riconoscibile. Gran parte dei nostri investimenti recenti è andata proprio in questa direzione. Rose Villain rappresenta la musica, ma anche una bellezza femminile non scontata: ha un sorriso meraviglioso, un fisico prorompente che rispecchia le nostre consumatrici, donne che si riconoscono nel brand anche per la vestibilità, che riteniamo tra le migliori sul mercato. È una voce importante, un personaggio completo. Inoltre, il mondo musicale oggi vive molto di collaborazioni: lo stesso concetto che abbiamo voluto trasmettere nella campagna, usando il termine «featuring», tipico delle collaborazioni tra artisti. Non a caso, Rose Villain aveva già collaborato con artisti come Geolier, che è stato nostro testimonial l’anno scorso».
I volti famosi fanno vendere di più o il loro valore è soprattutto simbolico e di posizionamento del brand?
«Oggi direi soprattutto posizionamento e coerenza del messaggio. La vendita non dipende più solo dalla pubblicità: per vendere bisogna essere impeccabili sul prodotto, sul prezzo, sull’assortimento. Viviamo un momento di consumi non esaltanti, quindi è necessario lavorare su tutte le leve. Non è che una persona vede lo spot e corre subito in negozio. È un periodo “da elmetto” per il settore retail».
È una situazione comune a molti brand, in questo momento.
«Assolutamente sì. Noi non possiamo lamentarci: anche questo Natale è stato positivo. Però per portare le persone in negozio bisogna investire sempre di più. Il traffico non è più una costante: meno persone nei centri commerciali, meno in strada, meno negli outlet. Per intercettare quel traffico serve investire in offerte, comunicazione, social, utilizzando tutti gli strumenti che permettono soprattutto ai giovani di arrivare in negozio, magari grazie a una promozione mirata».
Guardando al passato, c’è stato un testimonial che ha segnato una svolta per Yamamay?
«Sicuramente Jennifer Lopez: è stato uno dei primi casi in cui una celebrità ha firmato una capsule collection. All’epoca era qualcosa di totalmente nuovo e ci ha dato una visibilità internazionale enorme. Per il mondo maschile, Cristiano Ronaldo ha rappresentato un altro grande salto di qualità. Detto questo, Yamamay è nata fin dall’inizio con una visione molto chiara».
Come è iniziata questa avventura imprenditoriale?
«Con l’incoscienza di un ragazzo di 28 anni che rescinde un importante contratto da manager perché vuole fare l’imprenditore. Ho coinvolto tutta la famiglia in questo sogno: creare un’azienda di intimo, un settore che ho sempre amato. Dico spesso che ero già un grande consumatore, soprattutto perché l’intimo è uno dei regali più fatti. Oggi posso dire di aver realizzato un sogno».
Oggi Yamamay è un marchio internazionale. Quanti negozi avete nel mondo?
«Circa 600 negozi in totale. Di questi, 430 sono in Italia e circa 170 all’estero».
Il vostro è un settore molto competitivo. Qual è oggi il vostro principale elemento di differenziazione?
«Il rapporto qualità-prezzo. Abbiamo scelto di non seguire la strada degli aumenti facili nel post Covid, quando il mercato lo permetteva. Abbiamo continuato invece a investire su prodotto, innovazione, collaborazioni e sostenibilità. Posso dire con orgoglio che Yamamay è uno dei marchi di intimo più sostenibili sul mercato. La sostenibilità per noi non è una moda né uno strumento di marketing: è un valore intrinseco. Anche perché abbiamo in casa una delle massime esperte del settore, mia sorella Barbara, e siamo molto attenti a non fare greenwashing».
Quali sono le direttrici di crescita future?
«Sicuramente l’internazionale, più come presenza reale che come notorietà, e il digitale: l’e-commerce è un canale dove possiamo crescere ancora molto. Inoltre stiamo investendo tantissimo nel menswear. È un mercato in forte evoluzione: l’uomo oggi compra da solo, non delega più alla compagna o alla mamma. È un cambiamento culturale profondo e la crescita sarà a doppia cifra nei prossimi anni. La società è cambiata, è più eterogenea, e noi dobbiamo seguirne le evoluzioni. Penso anche al mondo Lgbtq+, che è storicamente un grande consumatore di intimo e a cui guardiamo con grande attenzione».
Capodanno è un momento simbolico anche per l’intimo. Che consiglio d’acquisto dai ai vostri clienti per iniziare bene l’anno?
«Un consiglio semplicissimo: indossate intimo rosso a Capodanno. Mutande, boxer, slip… non importa. È una tradizione che non va persa, anzi va rafforzata. Il rosso porta amore, ricchezza e salute. E le tradizioni belle vanno rispettate».
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