2019-05-19
«I miei gioielli da film piacciono alle star»
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Emanuele e Giulia Bicocchi
Il giovane designer Emanuele Bicocchi: «Molte celebrità indossano le nostre creazioni, tra cui il bracciale protagonista di due pellicole campioni d'incassi. Sono partito dal nulla e senza una lira, con la spinta di mia moglie allora sedicenne. Si fa tutto a mano e made in Italy».Il marchio Lardini ha prodotto una maglietta speciale per sostenere la Lega del filo d'oro. «Un'immagine raffigurante me con i miei cugini e tutti quei bambini desiderosi di vivere a pieno le loro vite e raggiungere i loro obiettivi» spiega Clio Moretti Lardini.Il gruppo francese Kering imprime una svolta non da poco a tutto il pianeta del fashion scegliendo solo indossatrici e indossatori maggiorenni.Lo speciale contiene tre articoli.«Se da giovane non lo fai con passione, icchefai?». Già. Senza passione nulla avviene. E non è solo una questione di età. Senza dubbio, se di anni ne hai 34 e hai iniziato a lavorare a 20, oltre alla passione ci sono l'entusiasmo, la forza, l'energia, la creatività a mille. Nulla ti può fermare, vai avanti come un treno. Emanuele Bicocchi, designer inserito nella classifica dei top ten dei nuovi brand italiani più popolari, e l'unico di gioielleria, è un cavallo di razza che in poco tempo ha saputo scalare le alte e ripide salite del successo riuscendo in un'impresa titanica solo sostenuto dalla sua voglia di fare e di emergere. Lui la chiama «moda a chilometro zero» perché tutto avviene a Montevarchi, giusto giusto a metà strada tra Firenze e Arezzo, più precisamente a Terranuova Bracciolini. «Studiavo al liceo scientifico e non avevo mai pensato alla moda. Mia mamma aveva un piccolissimo laboratorio artigianale di gioielli e ho iniziato scoprendo i metalli e la struttura delle lavorazioni. Lì ho capito che avevo una possibilità». Non basta un'idea, però.«Ho subito pensato che era meglio partire lavorando per grandi maison e collaborazioni esterne e quindi ho scritto personalmente alla maison Fendi, prendendo i contatti su un giornale, dove, in poco tempo, mi venne concesso un colloquio. Mi presentai come un giovane ragazzo dalle belle speranze e con tante idee. Dal primo appuntamento ho fatto amicizia con Eric Wright, all'epoca direttore creativo di Fendi e braccio destro di Karl Lagerfeld. Eravamo nel 2003. Da subito ho iniziato a lavorare a stretto contato con Eric e, da zero, mi fece fare la collezione di gioielli per la sfilata. Ci eravamo piaciuti a pelle, un'immediata sintonia d'intenti». Disegnavate assieme gli accessori?«Mai disegnato in vita mia. Nel mondo della moda, scatta qualcosa di naturale, quasi primitivo. Non devi essere per forza laureato, è un mondo di vibrazioni, di sensazioni senza regole scritte. La prima stagione ho lavorato per Fendi ma già alla seconda mi sentivo incompleto e avevo la necessità di esprimermi con la massima libertà. Avevo 20 anni, ho conosciuto Giulia, mia moglie, che ne aveva sedici e mi ha dato la spinta giusta. Una bambina di sedici anni che mi disse “perché non si fa una linea insieme?" E ci ha messo anche delle risorse dopo aver parlato con la mamma. E così è stato, siamo partiti carichi di speranze. Andavo a proporre i nostri gioielli ai negozi ma sempre di alto livello. Le difficoltà iniziali erano tante soprattutto per chi, come noi, non aveva soldi. Oggi vendiamo in tutto il mondo nei migliori negozi in Cina e in America, nei department store più importanti come Barneys, Neiman Marcus, Saks e Selfridges a Londra».Come avviene la produzione?«Nonostante ora si venda in tutti i continenti la produzione è totalmente artigianale fatta solo da tre persone: io, Gino Diamanti, l'altro mio socio, e un collaboratore. Giulia Diamanti, mia moglie, si occupa delle vendite. Si fa tutto a mano, l'oggetto si plasma nelle nostre dita ogni volta che se ne fa uno. Sono migliaia di pezzi, ho le mani tutte spaccate. Il bracciale a treccia, quello iconico, è nato così, con una catena che ci piaceva che abbiamo intrecciato».Soprattutto è piaciuto a un vastissimo pubblico. «Un sacco di celebrity indossano i nostri gioielli. In Italia Nek; Irama, le sue piume sono le nostre; Renga; Salmo; J-Ax; la Dark Polo Gang; Salvatore Esposito in Gomorra. In America gli One Direction e Zayn Malik, Gigi Hadid, Machine Gun Kelly attore del film di Netflix sui Motley Crue e poi, ancora rigorosamente top secret, due perle enormi di cui non posso parlare e dove il nostro bracciale sarà protagonista, due film sempre campioni d'incassi». Come riuscite a soddisfare tutte le richieste lavorando in tre?«Le richieste che non ci interessano si annullano. Per esempio in Toscana si vende solo a Forte dei Marmi e da LuisaviaRoma a Firenze. Volendo potremmo avere altri venti negozi ma non ce la faremmo, quindi si sceglie. Ci troviamo nella condizione che la domanda supera l'offerta. Sono partito da zero, non dico che dei soldi non me ne frega nulla, sono importanti però siamo a un compromesso eccellente, se vuoi un bracciale di Emanuele Bicocchi lo trovi solo in certi negozi e non ovunque. A livello produttivo ora possiamo permetterci questo. Se si allargherà il lavoro magari penseremo di prendere altre persone. Ma ci teniamo molto a fare la produzione interna».Quanto tempo impiega a produrre un bracciale?«Per una treccia fatta a mano, lucidata a mano, almeno due tre ore a bracciale. Sul gioiello c'è la costruzione, la lucidatura e il colore giusto e queste ultime due operazioni, se ne fai cento, diventa più veloce. In tre siamo riusciti a creare una buona catena produttiva».Quali materiali usa?«Solo argento e pietre come quarzi, occhi di tigre per dare tocchi di colore. E poi ci sono i pezzi placcati oro. Una scelta che ci dà soddisfazioni. L'oro costa settanta volte l'argento e pesa il doppio. Se un bracciale d'argento costa 600 euro, d'oro può arrivare a 6-7.000 euro. S'è preferito un bel bagno d'oro ed è un buon compromesso per avere comunque un'immagine di rilievo».Prossimi passi?«Uno molto importante lo abbiamo già fatto. Quando abbiamo iniziato distribuivamo i nostri oggetti in vari show room ma abbiamo deciso di aprire il nostro spazio a Milano, nonostante mille difficoltà perché non ci si aveva una lira. Ma questo rispecchiava i nostri ideali. Si trovarono le risorse in famiglia, tra i nonni, con i quali riuscimmo a dare la caparra per l'affitto. I clienti ci hanno subito visto come brand con uno spazio completamente dedicato. Una scelta che ha pagato. Farfetch, piattaforma online con miliardi di fatturato, solo a noi e a Pomellato ha offerto di aprire un monomarca che abbiamo già aperto. Ciò dovuto alla richiesta del prodotto». E nel futuro?«Bambini, in piena crescita lavorativa, non ci si riesce. E allora, lavoro. Il futuro è assolutamente esclusività e brand. La nostra fortuna è che i nostri gioielli, fin dall'inizio erano riconoscibili immediatamente. Bisogna continuare a brandizzarsi, non esagerare nella produzione e rimanere esclusivi, diventando desiderabili in maniera adeguata ma anche accontentando le richieste. La bellezza è che produciamo tutto noi».
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