
Il pestaggio di due agenti a Sanremo riaccende la polemica sui corsi di pugilato e arti marziali nelle prigioni. Il sindacato della polizia penitenziaria protesta: «Bene lo sport in carcere. Assurdo se educa alla violenza».Un ring al centro, guantoni pronti per l'uso e grossi punching ball rossi appesi al soffitto per imparare a sferrare diretti, ganci e montanti. Non siamo in una delle tante palestre dove si pratica la nobile arte della boxe. Ma all'interno di un carcere. Di una delle strutture penitenziarie che nel nostro Paese hanno deciso di inserire, fra gli sport dedicati ai detenuti, anche il pugilato. Progetti di questo genere sono in costante evoluzione: qualcuno comincia, qualcun altro (complici le proteste delle guardie penitenziarie) è costretto a cambiare rotta. Ma intanto ci sono persone potenzialmente pericolose, e per questo private della libertà, che dentro la prigione possono imparare a picchiare e dare libero sfogo alla violenza. Che, in qualche caso non così raro, si abbatte su chi li sorveglia. L'ultimo episodio è accaduto pochi giorni fa nel carcere di Sanremo. Un detenuto romeno, condannato a trent'anni di reclusione per omicidio e già evaso a Varese, ha aggredito a morsi il poliziotto che gli aveva aperto la cella e poi si è avventato sull'altro agente accorso in soccorso del primo, colpendolo con una sventagliata di pugni al volto. In quella stessa struttura è possibile praticare pugilato. In un primo momento è stato detto che l'uomo, ex pugile, aveva frequentato i corsi di boxe del penitenziario. Notizia poi smentita dai vertici della struttura. Ma non si capisce bene come stiano le cose.Resta il fatto che in Liguria, e in altre regioni, i carcerati hanno la possibilità di praticare anche questo sport. Così come il judo e il tiro con l'arco. Discipline probabilmente inopportune all'interno di un istituto di pena nel quale i reclusi normalmente non si distinguono per essere pacifici. Proprio per questo il Sappe, Sindacato autonomo polizia penitenziaria, protesta contro questi progetti. «Il primo tentativo di inserire la boxe fra le sbarre risale a qualche anno fa, all'interno del carcere Sollicciano di Firenze», racconta il segretario generale, Donato Capece. «L'iniziativa è stata sospesa quasi immediatamente grazie alle nostre rimostranze. Ma nel tempo sono nati altri progetti, come per esempio quello di Sanremo». Che però non è il solo. Il pugilato è stato inserito anche nella casa circondariale Lorusso e Cutugno di Torino: «I detenuti sono selezionati per costituire un gruppo di pugili che, allenati da un supervisore, saranno affiliati alla Federazione nazionale di pugilato, potendo in tal modo disputare il campionato regionale», recita il sito ufficiale del penitenziario.La stessa cosa avviene nel carcere di Bollate, alle porte di Milano. Qui, grazie al progetto «Pugni chiusi», sono partite le lezioni di boxe impartite dall'ex pugile Mirko Chiari. Questo sport lo scorso anno è entrato anche nel penitenziario di Ferrara con l'iniziativa «Un guantone di speranza», arrivata alla seconda edizione. «Troviamo giustissimo introdurre lo sport in carcere, allestire palestre e permettere ai detenuti di allenarsi. Quello che è assurdo è spingerli alla violenza. Sono soggetti ristretti, che potrebbero esplodere da un momento all'altro. Spesso se la prendono con i poliziotti perché rappresentano lo Stato all'interno del carcere, sono l'ultimo baluardo fra sé stessi e la libertà», aggiunge Capece. La lista dei casi di violenza registrati ai danni della polizia penitenziaria è allarmante. Solo nel 2017, secondo i dati forniti dal Sappe, nelle carceri italiane sono stati contati 7.446 casi di colluttazione, 1.175 ferimenti, 2 tentati omicidi e 2 omicidi. Numeri altissimi, che suggeriscono di tenere fuori dalle prigioni sport da combattimento o che prevedano un'arma. Proprio per questo lo scorso 17 luglio il Sappe ha scritto una lettera al neo ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, specificando che il sindacato «non sarà mai d'accordo con corsi di sport violenti, come pugilato e arti marziali, che possono solo rafforzare reazioni violente e pericolose per il personale di polizia penitenziaria, e non solo, operante all'interno degli istituti. Troppe volte abbiamo assistito, inermi, ad atti di aggressione fisica nei confronti del personale di polizia penitenziaria». Prosegue Capece: «I responsabili dei penitenziari dovrebbero essere molto più attenti a questo genere di iniziative. Dopo il pestaggio dell'agente è stato detto che i corsi di boxe nel carcere di Sanremo non esistono. Noi abbiamo le prove del contrario, io stesso sono venuto in possesso delle foto della palestra all'interno della struttura, allestita proprio per tale scopo». Questo, però, non vuol dire bloccare qualunque genere di attività fisica dietro le sbarre. «Ci sono molti sport che i detenuti possono fare senza alcun problema», precisa il segretario del Sappe, «noi siamo contrari solo alle attività potenzialmente pericolose come pugilato, judo o tiro con l'arco. Qualunque progetto futuro che vada in questa direzione troverà sempre il nostro disaccordo. Gli agenti di polizia penitenziaria lavorano per garantire la sicurezza dei cittadini e degli stessi detenuti. Non ci stiamo a essere trasformati in sacchi a disposizione di chi voglia sfogare la propria violenza».
Container in arrivo al Port Jersey Container Terminal di New York (Getty Images)
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Un disegno che ricostruisce i 16 mulini in serie del sito industriale di Barbegal, nel Sud della Francia (Getty Images)
Nel 1937 l’archeologo francese Fernand Benoit fece una scoperta clamorosa. Durante gli scavi archeologici nei pressi dell’acquedotto romano di Arles, la sua città, riportò alla luce un sito straordinario. Lungo un crinale ripido e roccioso, scoprì quello che probabilmente è stato il primo impianto industriale della storia, un complesso che anticipò di oltre un millennio la prima rivoluzione industriale, quella della forza idraulica.
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Situato a circa 8 km a nord di Arelate (odierna Arles), il sito archeologico di Barbegal ha riportato alla luce una fabbrica per la macinazione del grano che, secondo gli studiosi, era in grado di servire una popolazione di circa 25.000 persone. Ma la vera meraviglia è la tecnica applicata allo stabilimento, dove le macine erano mosse da 16 mulini ad acqua in serie. Il sito di Barbegal, costruito si ritiene attorno al 2° secolo dC, si trova ai piedi di una collina rocciosa piuttosto ripida, con un gradiente del 30% circa. Le grandi ruote erano disposte all’esterno degli edifici di fabbrica centrali, 8 per lato. Erano alimentate da due acquedotti che convergevano in un canale la cui portata era regolata da chiuse che permettevano di controllare il flusso idraulico.
Gli studi sui resti degli edifici, i cui muri perimetrali sono oggi ben visibili, hanno stabilito che l’impianto ha funzionato per almeno un secolo. La datazione è stata resa possibile dall’analisi dei resti delle ruote e dei canali di legno che portavano l’acqua alle pale. Anche questi ultimi erano stati perfettamente studiati, con la possibilità di regolarne l’inclinazione per ottimizzare la forza idraulica sulle ruote. La fabbrica era lunga 61 metri e larga 20, con una scala di passaggio tra un mulino e l’altro che la attraversava nel mezzo. Secondo le ipotesi a cui gli archeologi sono giunti studiando i resti dei mulini, il complesso di Barbegal avrebbe funzionato ciclicamente, con un’interruzione tra la fine dell’estate e l’autunno. Il fatto che questo periodo coincidesse con le partenze delle navi mercantili, ha fatto ritenere possibile che la produzione dei 16 mulini fosse dedicata alle derrate alimentari per i naviganti, che in quel periodo rifornivano le navi con scorte di pane a lunga conservazione per affrontare i lunghi mesi della navigazione commerciale.
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