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2018-04-26
Fico pronto a chiedere al Colle i supplementari
ANSA
Lo spavento per il malore del suo predecessore, Giorgio Napolitano, ha tenuto sveglio il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, fino a tarda ora, la scorsa notte. Sinceratosi della buona riuscita dell'intervento chirurgico al quale è stato sottoposto il presidente emerito, Mattarella ha riposato poche ore, per poi dedicarsi, nella giornata di ieri, alle celebrazioni per il 25 aprile. Due eventi, il malore di Napolitano e il 25 aprile, che hanno finito inevitabilmente per incrociare il mandato esplorativo che in queste ore il presidente della Camera, Roberto Fico, sta portando avanti per verificare le possibilità di un accordo di governo tra il Pd e il M5s. Fico, ieri mattina, ha partecipato al primo evento di celebrazione, l'omaggio al Monumento del Milite ignoto all'Altare della Patria, insieme a Mattarella, alla presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, al presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, e alle altre autorità dello Stato. Il presidente della Camera ha espresso gli auguri di pronta guarigione a Re Giorgio.
Oggi, Roberto Fico incontrerà, per un secondo giro di consultazioni, la delegazione del Pd (alle 11) e quella del M5s (alle 13). In serata, come previsto dal mandato, riferirà al Quirinale, chiedendo altro tempo: il Pd ha la necessità di riunire la direzione, che voterà sull'ipotesi di iniziare una trattativa di governo con i grillini. La direzione dovrebbe essere convocata nei primi giorni della prossima settimana. Mattarella sa benissimo che l'ipotesi di un'alleanza Pd-M5s è assai remota. Matteo Renzi è fermamente contrario. Ieri mattina, tra i fedelissimi dell'ex segretario, circolava la certezza che la direzione confermerà il «no» all'accordo. Se anche la spuntassero i governisti, guidati dal segretario reggente Maurizio Martina, i numeri al Senato sarebbero da brividi (1 solo voto più della maggioranza assoluta); basterebbe una dozzina di dissidenti teleguidati da Renzi per mettere ko il governo. Non è certo un caso che ieri il capogruppo al Senato del Pd, il renzianissimo Andrea Marcucci, abbia sorpreso tutti convocando per il 2 maggio prossimo un'assemblea dei senatori dem: «Chiederò ai senatori», ha avvertito Marcucci, «di valutare lo stato delle consultazioni. Il Pd non ha piattaforme truccabili o programmi che cambiano secondo la convenienza». Il senatore Renzi avrà modo di mettere in riga personalmente chi si mostrasse favorevole a un accordo destinato a non vedere mai la luce.
Venerdì prossimo, si prevede che al Quirinale, il secondo forno di Luigi Di Maio, quello col Pd, sarà spento. Il capo dello Stato ha letto con stupore le critiche che gli sono piovute addosso dalla Lega, nonché quel riferimento alle «spinte secessionistiche» previste dal braccio destro di Matteo Salvini, Giancarlo Giorgetti, in una intervista a Repubblica, «se il Nord produttivo venisse escluso dal governo del Paese». Mattarella ha concesso quasi due mesi di tempo a Matteo Salvini e Luigi Di Maio per stringere un patto di governo: l'ipotesi di un'alleanza centrodestra-M5s è stata la prima a essere «esplorata» dalla presidente del Senato, Casellati. I veti di Di Maio su Forza Italia e Fratelli d'Italia hanno circoscritto, nei fatti, quella esplorazione a un'ipotesi di accordo tra la Lega e il M5s. Le «novità pubbliche, esplicite e significative nel confronto tra i partiti» evocate ancora tre giorni fa da Mattarella, non sono emerse. Il capo dello Stato ha atteso che Salvini certificasse la sua uscita dal centrodestra, «pubblicamente, esplicitamente e significativamente» ma ciò non è avvenuto in quasi due mesi. La prossima settimana, salvo clamorosi imprevisti, Mattarella prenderà atto della chiusura del secondo forno e passerà alla esplorazione di un'ipotesi di alleanza tra centrodestra e Pd. Se nemmeno questa carta risulterà vincente, anche il capo dello Stato si potrebbe rassegnare alle elezioni anticipate, probabilmente il prossimo autunno, con la coscienza di aver fatto di tutto per dare un governo stabile all'Italia. Potrebbe essere Paolo Gentiloni, a questo punto, a guidare l'esecutivo balneare.
Mattarella, ieri, ha scelto l'Abruzzo per le celebrazioni del 25 aprile: si è recato prima a Taranta Peligna, in provincia di Chieti, per rendere omaggio al sacrario della brigata Maiella, e poi a Casoli. «La Patria, che rinasceva dalle ceneri della guerra», ha detto Mattarella, «si ricollegava direttamente al Risorgimento, ai suoi ideali di libertà, umanità, civiltà e fratellanza. Non fu, dunque, per caso, che gli uomini della brigata Maiella scelsero per se stessi la denominazione di patrioti. La stessa dei giovani che andavano a morire in nome dell'Unità d'Italia».
Parole che suonano come una risposta alle «spinte secessionistiche» evocate da Giorgetti.
Carlo Tarallo
Il Pd è alla frutta: Renzi fa sondaggi in piazza
«E tu lo faresti un governo con i 5 stelle? Lo faresti? Eh?». Ciao, io sono quello che nella foto e nelle immagini di ieri sta sulla bicicletta in piazza della Signoria a fare domande in favore di telecamera il giorno del 25 aprile.
Mi chiamo Matteo Renzi, e da giorni mi chiedo, con il consueto dilemma morettiano che affligge le star: mi si nota di più se vado o se non vado? Ve lo dico io, mi si nota di più se vado, ed infatti eccomi. Il problema è che io (ormai è la terza volta che lo faccio), avevo detto che me ne andavo dopo le politiche e poi non l'ho più fatto. Il fatto è che non riesco a stare lontano dalla scena, dai riflettori, dagli applausi. Non è malanimo, ma io sono uno che quando vede sui giornali le foto di quel Maurizio Martina, che ieri ha elogiato ancora la rottura a prole di Luigi Di Maio con la Lega, vede rosso. Poi, subito dopo penso a quanto soffriate nello sfogliare i giornali e non trovarmi. Tant'è vero che per non sapere né leggere né scrivere gli ho già fatto saltare l'assemblea del 21. Se poi davvero continua con questa balla del governo con Di Maio mi incazzo e lo sego.
Avrete notato che ieri ho avuto una trovata delle mie: mi sono messo a fare le domande, a chiedere: «Siete d'accordo o meno a fare il governo del M5s?». Erano tutti contrari. È vero che il sondaggio aveva l'attendibilità scientifica di quelli di Davide Mengacci su Rete 4, ai tempi d'oro. Però intanto io domani torno a fare titolo alla faccia di Martina, di Dario Franceschini, di quei due rinnegati di Matteo Richetti e della Debora Serracchiani, gente che per me non esiste. Se mi fanno incazzare alla guida del Pd ci piazzo Ettore Rosato. Qui faccio come mi pare. È cosa mia. È vero che avevo detto che avrei fatto il senatore semplice, lo so. Ma poi sento il profumo della guerra, avverto le fitte di dolore per l'usurpazione, e non capisco più nulla. Il Pd è il mio tessoóóro, Smeagol buono, Martina cattivo! Ah ah ah. D'altra parte io sono Matteo Renzi, quello delle slides, del carrettto dei gelati Grom a Palazzo Chigi. Del trolley. E vi ricordate la fase zen? E l'euro in sicurezza e l'euro in cultura? E i 1.000 giorni per cambiare l'Italia? E la camicia bianca? E il chiodo di pelle alla Fonzie? Il pranzo al sacco da Eataly. Il camper con dietro l'aereo pagato dalla fondazione Big Bang. E la Smart di Ernesto Carbone al Quirinale. E la bici. E il treno. E il motorino.
Quello di «ogni settimana in una scuola», e la cabina di regia straordinaria per l'edilizia scolastica il dipartimento mamme. Della riforma Costituzionale che l'Italia attende da 70 anni e della legge elettorale che ci invidia tutto il mondo. Ogni giorno me ne veniva una, a me se mi danno una prima serata Paolo Bonolis scompare. Insomma, io a fare il senatore semplice di Scandicci e di Lastra a Signa e dell'Impruneta non ci so stare. Non mi faccio imporre l'anonimato da una banda di mediocri. Avete visto sui social #renzitorna? Ho passato una serata a leggere i tweet uno per uno: lo so, ci sono hashtag che ti riempiono il cuore. Io non sono fatto per stare nell'ombra, anonimo un passo indietro. E non posso accettare di vedere il mio partito in mano ad un mollaccione che si mette a fare il segretario educato e va ad ascoltare pure le riunioni della minoranza. Io sono quello della rottamazione, di Franceschini vicedisastro, di adesso mi incazzo e uso il lanciafiamme. E Calenda lascia se ci mettiamo con il M5s? Calenda chi?
Io ero fatto per governare l'Italia, per le colazioni con Barack Obama, per fissare i record di ascolti da Maria De Filippi. Io a Pontassieve mi annoio. Questa cosa del #senzadime, parliamoci chiaro, mi ha rimesso in gioco. Io quando ho un nemico davanti rinasco. Dopo cinque sconfitte consecutive, dopo la batosta del referendum, dopo la catastrofe delle politiche, dopo il minimo storico del Pd, ho bisogno di una guerra con qualcuno per rientrare sulla scena. Datemi un pretesto per tornare perché sennó così muoio.
Luca Telese
L’Ue dà 50.000 euro al guru M5s per il suo europeismo
Se per
Enrico IV Parigi valeva bene una messa, per Luigi Di Maio Palazzo Chigi val bene una giravolta. Dopo le elezioni del 4 marzo, i grillini hanno impresso al Movimento una svolta moderata, arrivando persino a correggere, all'insaputa degli iscritti, il loro programma politico. Tra gli artefici della conversione c'è il professor Giacinto Della Cananea, il giurista incaricato di emendare l'agenda dei 5 Stelle, in vista di un eventuale accordo di governo con il Partito democratico.
Due giorni fa,
Della Cananea è stato insignito del premio Altiero Spinelli, istituito lo scorso anno dalla Commissione europea con lo scopo di «dare riconoscimento a contributi straordinari che comunichino i valori fondanti dell'Ue», ampliarne il «raggio d'azione» e «creare un clima di fiducia» verso le istituzioni comunitarie. Il «saggio» grillino, tra i sei primi classificati, ha incassato un assegno da 50.000 euro per il suo lavoro sul diritto amministrativo europeo. Il regista del negoziato avviato dal Movimento 5 stelle con il Pd è asceso all'olimpo europeista: il suo nome è associato a quello di Spinelli, uno dei padri fondatori dell'Ue, autore del Manifesto di Ventotene, denso di discutibili utopie socialisteggianti, ma diventato il motivo ispiratore del federalismo europeo.
Che il professor
Della Cananea potesse piacere a Bruxelles non è una novità. Allievo del giudice costituzionale emerito Sabino Cassese, addottoratosi in diritto comunitario all'Università europea di Firenze, oggi insegna «European administrative law».
La novità, casomai, viene dal fronte pentastellato. Come avevamo ricordato ieri sulla
Verità, quattro anni fa i deputati grillini consideravano Della Cananea un «incompetente». Ma dopo il suo avvicinamento al Movimento, propiziato dalla partecipazione a un convegno sulla giustizia che i grillini organizzarono alla Camera nel giugno 2017, Della Cananea è diventato lo sponsor del complicato matrimonio con i dem.
Sembra che, pur di comandare,
Di Maio non esiterebbe a rimangiarsi le promesse elettorali. Anche in questo caso, niente di nuovo sotto il sole. È un dato di fatto che gli unici partiti «populisti» ammessi al governo, oppure tollerati dalle élite, sono quelli che hanno eseguito fedelmente le direttive della Troika, come nel caso di Alexis Tsipras in Grecia, o che comunque si sono rivelati funzionali alla conservazione dello status quo, come Podemos in Spagna. Quando non riesce a sfornare un Emmanuel Macron, l'establishment sa servirsi delle sedicenti forze «antisistema». È facile fare due più due, leggendo le dichiarazioni del Commissario europeo per gli Affari monetari, Pierre Moscovici, riportate dal Corriere della Sera: un concentrato di terrore verso l'«estrema destra» rappresentata da Matteo Salvini. Il quale, esattamente come Alternative für Deutschland, esclusa dal governo tedesco grazie alla grande coalizione tra Angela Merkel e Martin Schulz, è l'unico a fare davvero paura all'Europa. Perciò, è il Carroccio che Bruxelles vuole tenenere fuori da Palazzo Chigi, sfruttando le debolezze di Silvio Berlusconi e accompagnando i grillini tra le braccia della Bce e del Fondo monetario.
In questo gioco delle parti, tre sono le potenziali vittime. Il centrodestra, la coalizione che ha ottenuto più voti degli altri contendenti, ma rischia di essere scalzata dai secondi e dai terzi classificati. Il Partito democratico, che se cedesse alla tentazione dell'inciucio con i pentastellati, finirebbe sicuramente fagocitato dal Movimento, cui cederebbe la funzione di polo della sinistra. E, soprattutto, gli elettori grillini, che avevano votato il Movimento 5 stelle perché cambiasse tutto, ma si ritrovano un partito-gattopardo che vuol lasciare tutto com'è.
Alessandro Rico
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In mattinata il presidente della Camera concluderà il secondo giro di consultazioni ed entro sera salirà dal presidente Sergio Mattarella. Quasi scontata la domanda di più tempo per le trattative. Ma anche il Quirinale è scettico.Il Pd è alla frutta. Da una parte il reggente Maurizio Martina elogia ancora Luigi Di Maio per l'addio alla Lega. Dall'altra, l'ex segretario Mattei Renzi si aggira in bicicletta per Firenze chiedendo alla gente se l'alleanza con i 5 stelle s'ha da fare o no. E Carlo Calenda, appena iscritto, dice: «Se andiamo con il M5s, lascio».Intanto al guru grillino, il professore Giacinto Della Cananea, autore del programma, consegnato il premio Spinelli. Un altro motivo di sconcerto per la base pentastellata.Lo speciale contiene tre articoli.Lo spavento per il malore del suo predecessore, Giorgio Napolitano, ha tenuto sveglio il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, fino a tarda ora, la scorsa notte. Sinceratosi della buona riuscita dell'intervento chirurgico al quale è stato sottoposto il presidente emerito, Mattarella ha riposato poche ore, per poi dedicarsi, nella giornata di ieri, alle celebrazioni per il 25 aprile. Due eventi, il malore di Napolitano e il 25 aprile, che hanno finito inevitabilmente per incrociare il mandato esplorativo che in queste ore il presidente della Camera, Roberto Fico, sta portando avanti per verificare le possibilità di un accordo di governo tra il Pd e il M5s. Fico, ieri mattina, ha partecipato al primo evento di celebrazione, l'omaggio al Monumento del Milite ignoto all'Altare della Patria, insieme a Mattarella, alla presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, al presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, e alle altre autorità dello Stato. Il presidente della Camera ha espresso gli auguri di pronta guarigione a Re Giorgio. Oggi, Roberto Fico incontrerà, per un secondo giro di consultazioni, la delegazione del Pd (alle 11) e quella del M5s (alle 13). In serata, come previsto dal mandato, riferirà al Quirinale, chiedendo altro tempo: il Pd ha la necessità di riunire la direzione, che voterà sull'ipotesi di iniziare una trattativa di governo con i grillini. La direzione dovrebbe essere convocata nei primi giorni della prossima settimana. Mattarella sa benissimo che l'ipotesi di un'alleanza Pd-M5s è assai remota. Matteo Renzi è fermamente contrario. Ieri mattina, tra i fedelissimi dell'ex segretario, circolava la certezza che la direzione confermerà il «no» all'accordo. Se anche la spuntassero i governisti, guidati dal segretario reggente Maurizio Martina, i numeri al Senato sarebbero da brividi (1 solo voto più della maggioranza assoluta); basterebbe una dozzina di dissidenti teleguidati da Renzi per mettere ko il governo. Non è certo un caso che ieri il capogruppo al Senato del Pd, il renzianissimo Andrea Marcucci, abbia sorpreso tutti convocando per il 2 maggio prossimo un'assemblea dei senatori dem: «Chiederò ai senatori», ha avvertito Marcucci, «di valutare lo stato delle consultazioni. Il Pd non ha piattaforme truccabili o programmi che cambiano secondo la convenienza». Il senatore Renzi avrà modo di mettere in riga personalmente chi si mostrasse favorevole a un accordo destinato a non vedere mai la luce. Venerdì prossimo, si prevede che al Quirinale, il secondo forno di Luigi Di Maio, quello col Pd, sarà spento. Il capo dello Stato ha letto con stupore le critiche che gli sono piovute addosso dalla Lega, nonché quel riferimento alle «spinte secessionistiche» previste dal braccio destro di Matteo Salvini, Giancarlo Giorgetti, in una intervista a Repubblica, «se il Nord produttivo venisse escluso dal governo del Paese». Mattarella ha concesso quasi due mesi di tempo a Matteo Salvini e Luigi Di Maio per stringere un patto di governo: l'ipotesi di un'alleanza centrodestra-M5s è stata la prima a essere «esplorata» dalla presidente del Senato, Casellati. I veti di Di Maio su Forza Italia e Fratelli d'Italia hanno circoscritto, nei fatti, quella esplorazione a un'ipotesi di accordo tra la Lega e il M5s. Le «novità pubbliche, esplicite e significative nel confronto tra i partiti» evocate ancora tre giorni fa da Mattarella, non sono emerse. Il capo dello Stato ha atteso che Salvini certificasse la sua uscita dal centrodestra, «pubblicamente, esplicitamente e significativamente» ma ciò non è avvenuto in quasi due mesi. La prossima settimana, salvo clamorosi imprevisti, Mattarella prenderà atto della chiusura del secondo forno e passerà alla esplorazione di un'ipotesi di alleanza tra centrodestra e Pd. Se nemmeno questa carta risulterà vincente, anche il capo dello Stato si potrebbe rassegnare alle elezioni anticipate, probabilmente il prossimo autunno, con la coscienza di aver fatto di tutto per dare un governo stabile all'Italia. Potrebbe essere Paolo Gentiloni, a questo punto, a guidare l'esecutivo balneare. Mattarella, ieri, ha scelto l'Abruzzo per le celebrazioni del 25 aprile: si è recato prima a Taranta Peligna, in provincia di Chieti, per rendere omaggio al sacrario della brigata Maiella, e poi a Casoli. «La Patria, che rinasceva dalle ceneri della guerra», ha detto Mattarella, «si ricollegava direttamente al Risorgimento, ai suoi ideali di libertà, umanità, civiltà e fratellanza. Non fu, dunque, per caso, che gli uomini della brigata Maiella scelsero per se stessi la denominazione di patrioti. La stessa dei giovani che andavano a morire in nome dell'Unità d'Italia». 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Il problema è che io (ormai è la terza volta che lo faccio), avevo detto che me ne andavo dopo le politiche e poi non l'ho più fatto. Il fatto è che non riesco a stare lontano dalla scena, dai riflettori, dagli applausi. Non è malanimo, ma io sono uno che quando vede sui giornali le foto di quel Maurizio Martina, che ieri ha elogiato ancora la rottura a prole di Luigi Di Maio con la Lega, vede rosso. Poi, subito dopo penso a quanto soffriate nello sfogliare i giornali e non trovarmi. Tant'è vero che per non sapere né leggere né scrivere gli ho già fatto saltare l'assemblea del 21. Se poi davvero continua con questa balla del governo con Di Maio mi incazzo e lo sego. Avrete notato che ieri ho avuto una trovata delle mie: mi sono messo a fare le domande, a chiedere: «Siete d'accordo o meno a fare il governo del M5s?». Erano tutti contrari. È vero che il sondaggio aveva l'attendibilità scientifica di quelli di Davide Mengacci su Rete 4, ai tempi d'oro. Però intanto io domani torno a fare titolo alla faccia di Martina, di Dario Franceschini, di quei due rinnegati di Matteo Richetti e della Debora Serracchiani, gente che per me non esiste. Se mi fanno incazzare alla guida del Pd ci piazzo Ettore Rosato. Qui faccio come mi pare. È cosa mia. È vero che avevo detto che avrei fatto il senatore semplice, lo so. Ma poi sento il profumo della guerra, avverto le fitte di dolore per l'usurpazione, e non capisco più nulla. Il Pd è il mio tessoóóro, Smeagol buono, Martina cattivo! Ah ah ah. D'altra parte io sono Matteo Renzi, quello delle slides, del carrettto dei gelati Grom a Palazzo Chigi. Del trolley. E vi ricordate la fase zen? E l'euro in sicurezza e l'euro in cultura? E i 1.000 giorni per cambiare l'Italia? E la camicia bianca? E il chiodo di pelle alla Fonzie? Il pranzo al sacco da Eataly. Il camper con dietro l'aereo pagato dalla fondazione Big Bang. E la Smart di Ernesto Carbone al Quirinale. E la bici. E il treno. E il motorino. Quello di «ogni settimana in una scuola», e la cabina di regia straordinaria per l'edilizia scolastica il dipartimento mamme. Della riforma Costituzionale che l'Italia attende da 70 anni e della legge elettorale che ci invidia tutto il mondo. Ogni giorno me ne veniva una, a me se mi danno una prima serata Paolo Bonolis scompare. Insomma, io a fare il senatore semplice di Scandicci e di Lastra a Signa e dell'Impruneta non ci so stare. Non mi faccio imporre l'anonimato da una banda di mediocri. Avete visto sui social #renzitorna? Ho passato una serata a leggere i tweet uno per uno: lo so, ci sono hashtag che ti riempiono il cuore. Io non sono fatto per stare nell'ombra, anonimo un passo indietro. E non posso accettare di vedere il mio partito in mano ad un mollaccione che si mette a fare il segretario educato e va ad ascoltare pure le riunioni della minoranza. Io sono quello della rottamazione, di Franceschini vicedisastro, di adesso mi incazzo e uso il lanciafiamme. E Calenda lascia se ci mettiamo con il M5s? Calenda chi? Io ero fatto per governare l'Italia, per le colazioni con Barack Obama, per fissare i record di ascolti da Maria De Filippi. Io a Pontassieve mi annoio. Questa cosa del #senzadime, parliamoci chiaro, mi ha rimesso in gioco. Io quando ho un nemico davanti rinasco. Dopo cinque sconfitte consecutive, dopo la batosta del referendum, dopo la catastrofe delle politiche, dopo il minimo storico del Pd, ho bisogno di una guerra con qualcuno per rientrare sulla scena. Datemi un pretesto per tornare perché sennó così muoio. 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Due giorni fa, Della Cananea è stato insignito del premio Altiero Spinelli, istituito lo scorso anno dalla Commissione europea con lo scopo di «dare riconoscimento a contributi straordinari che comunichino i valori fondanti dell'Ue», ampliarne il «raggio d'azione» e «creare un clima di fiducia» verso le istituzioni comunitarie. Il «saggio» grillino, tra i sei primi classificati, ha incassato un assegno da 50.000 euro per il suo lavoro sul diritto amministrativo europeo. Il regista del negoziato avviato dal Movimento 5 stelle con il Pd è asceso all'olimpo europeista: il suo nome è associato a quello di Spinelli, uno dei padri fondatori dell'Ue, autore del Manifesto di Ventotene, denso di discutibili utopie socialisteggianti, ma diventato il motivo ispiratore del federalismo europeo. Che il professor Della Cananea potesse piacere a Bruxelles non è una novità. Allievo del giudice costituzionale emerito Sabino Cassese, addottoratosi in diritto comunitario all'Università europea di Firenze, oggi insegna «European administrative law». La novità, casomai, viene dal fronte pentastellato. Come avevamo ricordato ieri sulla Verità, quattro anni fa i deputati grillini consideravano Della Cananea un «incompetente». Ma dopo il suo avvicinamento al Movimento, propiziato dalla partecipazione a un convegno sulla giustizia che i grillini organizzarono alla Camera nel giugno 2017, Della Cananea è diventato lo sponsor del complicato matrimonio con i dem. Sembra che, pur di comandare, Di Maio non esiterebbe a rimangiarsi le promesse elettorali. Anche in questo caso, niente di nuovo sotto il sole. È un dato di fatto che gli unici partiti «populisti» ammessi al governo, oppure tollerati dalle élite, sono quelli che hanno eseguito fedelmente le direttive della Troika, come nel caso di Alexis Tsipras in Grecia, o che comunque si sono rivelati funzionali alla conservazione dello status quo, come Podemos in Spagna. Quando non riesce a sfornare un Emmanuel Macron, l'establishment sa servirsi delle sedicenti forze «antisistema». È facile fare due più due, leggendo le dichiarazioni del Commissario europeo per gli Affari monetari, Pierre Moscovici, riportate dal Corriere della Sera: un concentrato di terrore verso l'«estrema destra» rappresentata da Matteo Salvini. Il quale, esattamente come Alternative für Deutschland, esclusa dal governo tedesco grazie alla grande coalizione tra Angela Merkel e Martin Schulz, è l'unico a fare davvero paura all'Europa. Perciò, è il Carroccio che Bruxelles vuole tenenere fuori da Palazzo Chigi, sfruttando le debolezze di Silvio Berlusconi e accompagnando i grillini tra le braccia della Bce e del Fondo monetario. In questo gioco delle parti, tre sono le potenziali vittime. Il centrodestra, la coalizione che ha ottenuto più voti degli altri contendenti, ma rischia di essere scalzata dai secondi e dai terzi classificati. Il Partito democratico, che se cedesse alla tentazione dell'inciucio con i pentastellati, finirebbe sicuramente fagocitato dal Movimento, cui cederebbe la funzione di polo della sinistra. E, soprattutto, gli elettori grillini, che avevano votato il Movimento 5 stelle perché cambiasse tutto, ma si ritrovano un partito-gattopardo che vuol lasciare tutto com'è. Alessandro Rico
Da sx in alto: americani della 92ª Divisione, alpini della Divisione «Monterosa», paracadutisti tedeschi e la frazione di Sommocolonia oggi. Garfagnana, 26 dicembre 1944
La battaglia della Garfagnana, nota come Operazione «Wintergewitter» (tempesta invernale) fu l’ultima controffensiva delle forze dell’Asse sul fronte italiano. Iniziò la notte tra Natale e Santo Stefano del 1944 per terminare tre giorni più tardi. L’obiettivo, pur presentando scarse se non nulle possibilità di raggiungerlo, era quello di arrestare l’avanzata alleata lungo il fronte della linea Gotica allora in stallo per l’inverno rallentando l’avanzata degli angloamericani che puntavano verso Bologna e la Pianura Padana. Il teatro delle operazioni fu la valle del Serchio nella Garfagnana, in provincia di Lucca, dove gli americani del 92° Infantry Regiment, i famosi «Buffalo Soldiers» a maggioranza afroamericana, si erano acquartierati nei giorni precedenti al Natale, ritenendo le ostilità in pausa. L’effetto sorpresa era proprio il punto cardine dell’operazione pianificata dal comando tedesco guidato dal generale Otto Fretter-Pico. Le forze dell’Asse consistevano sostanzialmente di reparti da montagna, i «Gebirgsjaeger» tedeschi e gli alpini italiani della Divisione «Monterosa», uno dei primi reparti addestrati in Germania dopo la nascita della Repubblica Sociale. L’attacco fu fissato per la mezzanotte, tra il 25 e il 26 dicembre e procedette speditamente. I reparti speciali tedeschi e gli alpini iniziarono una manovra di accerchiamento da Montebono per Bobbio, Tiglio e Pian di Coreglia, mentre un reparto leggero prendeva in poche ore Sommocolonia. Contemporaneamente tutti i reparti si muovono, compreso un nucleo del Battaglione «San Marco», che in poco tempo occupava Molazzana. Entro la sera di Santo Stefano la linea dei Buffalo Soldiers era sfondata, mentre i reparti americani arretravano in massa. I prigionieri erano circa 250, mentre numerose armi e munizioni venivano requisite. Anche vettovaglie e generi di conforto cadevano nelle mani degli attaccanti.
Gli americani praticamente non reagirono, ma si spostarono in massa verso la linea difensiva di Bagni di Lucca. Per un breve tempo sembrò (soprattutto agli italiani, mentre i tedeschi sembravano paghi della riuscita sorpresa) che il fronte potesse cedere fino in Versilia e verso Livorno. L’ordine di Fretter-Pico di arrestare l’avanzata fu una doccia fredda. Le ragioni dell'arresto risiedevano principalmente nella difficoltà di mantenere le posizioni, la scarsità ormai cronica di uomini e munizioni (c’era solo l’artiglieria, nessun carro armato e soprattutto nessun supporto dall’Aviazione, praticamente sparita dai cieli del Nord Italia). Gli americani invece avevano il dominio assoluto del cielo, con i cacciabombardieri che potevano decollare dai vicini aeroporti della Toscana occupata, come quelli di Grosseto e Rosignano. Tra il 27 e il 30 dicembre 1944 i P-47 Thunderbolt dell’Usaf bombardarono a tappeto, mietendo vittime soprattutto tra la popolazione civile. La linea difensiva dell’Asse ritornò nei giorni successivi alle posizioni di partenza, mentre il fronte si assestava fino all’inizio del febbraio 1945 quando gli alleati lanciarono l’operazione «Fourth Term», che portò in pochi giorni alla conquista della Garfagnana. Durante l’operazione «Wintergewitter» lo scontro più violento si verificò nell’abitato di Sommocolonia dove la guarnigione americana perse quasi tutti gli uomini, compreso il proprio comandante tenente John R. Fox che, vistosi ormai circondato dai tedeschi, chiese all’artiglieria della 92ª di sparare sull’abitato nel tentativo disperato di rallentare l’attacco a sorpresa. Morì sotto le macerie della sua postazione e solamente nel 1997 fu insignito della medaglia d’onore.
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Lee Raybon avrebbe ambizioni da detective. Non da investigatore tout court. Piuttosto, vorrebbe essere un reporter, di quelli capaci - forti solo delle proprie risorse - di portare a termine indagini e inchieste, di dar forma alle notizie prima ancora che queste vengano diffuse dalle autorità competenti.
L'ambizione, tuttavia, è rimasta tale, nel corso di un'esistenza che ha costretto Raybon a ripiegare su altro per il mero sostentamento. Si è reinventato libraio, Lee Raybon, gestendo di giorno un negozio di libri rari. La notte, però, ha continuato a seguire il cuore, dando spazio alle sue indagini scalcagnate. Qualcuna è riuscito a trasformarla in articolo di giornale, venendola alle pagine di cronaca locale di Tulsa, città che ospita il racconto. E sono i pezzi ritagliati, insieme ai libri ormai giallognoli, ad affollare l'apportamento di Raybon, che la moglie ha mollato su due piedi, quando ben ha realizzato che non ci sarebbe stato spazio per altro nella vita di quell'uomo. Raybon, dunque, è rimasto solo. Non solo come il crime, per lo più, ha raccontato i suoi detective. Non è, cioè, una solitudine disperata, quella di Raybon. Non c'è tristezza né emarginazione. C'è passione, invece: quella per un mestiere cui anche la figlia dell'uomo sembra guardare con grande interesse.
Francis, benché quattordicenne, ha sviluppato per il secondo mestiere del padre una curiosità quasi morbosa, in nome della quale ha cominciato a seguirlo in ogni dove, partecipando lei pure alle indagini. Cosa, questa, che si ostina a fare anche quando la situazione diventa insolitamente complicata. Lee Raybon ha messo nel mirino i Washberg, una tra le famiglie più potenti di Tulsa. Ma uno di loro, Dale, si è tolto la vita, quando l'articolo di Raybon sulle faccende losche della dinastia è stato pubblicato su carta. Perché, però? Quali segreti nascondo i Washberg? Le domande muovono la nuova indagine di Raybon, la sostanziano. E, attorno alla ricerca di risposte, si dipana The Lowdon, riuscendo a bilanciare l'irrequietezza del suo protagonista, il suo cinismo, con il racconto di una dinamica familiare di solito estranea al genere crime.
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Secondo i calcoli di Facile.it, il 2025 si chiuderà con un calo di circa 50 euro per la rata mensile di un mutuo variabile standard, scesa da 666 euro di inizio anno a circa 617 euro. Un movimento coerente con il progressivo rientro delle componenti di costo indicizzate (Euribor) e con l’aspettativa di stabilizzazione di breve periodo.
Sul versante dei mutui a tasso fisso, il 2025 è stato invece caratterizzato da un lieve aumento dei costi per i nuovi mutuatari, in larga parte legato alla risalita dell’indice IRS (il riferimento tipico per i fissi). A gennaio 2025 l’IRS a 25 anni è stato in media pari a 2,4%; nell’ultimo mese è arrivato al 3,1%. L’effetto, almeno parziale, si è trasferito sulle nuove offerte: per un finanziamento standard la rata risulta oggi più alta di circa 40 euro rispetto a inizio anno.
«Il 2025 è stato un anno positivo sul fronte dei tassi dei mutui: i variabili sono scesi a seguito dei tagli della Bce, mentre i fissi, seppur in lieve aumento, offrono comunque buone condizioni per chi vuole tutelarsi da possibili futuri aumenti di rata. Oggi, quindi, l’aspirante mutuatario può godere di un’ampia offerta di soluzioni: scegliere il tasso variabile significa partire con una rata più contenuta, ma il vantaggio economico iniziale può essere ritenuto da molti ancora non sufficiente per giustificare il rischio connesso a questo tipo di finanziamento. Per chi non è disposto a rischiare, invece, i fissi garantiscono comunque condizioni favorevoli, oltre alla certezza che la rata resti uguale per tutte la durata del mutuo. Non esiste in assoluto una soluzione giusta o sbagliata, la scelta va presa da ciascun richiedente secondo le proprie caratteristiche; un consulente esperto può essere d’aiuto per valutare pregi e difetti di ciascuna proposta e identificare quella più adatta», spiegano gli esperti di Facile.it
Guardando in avanti, un’indicazione operativa sui variabili arriva dai Futures sugli Euribor (aggiornati al 10 dicembre 2025): per il 2026 non vengono prezzate grandi variazioni. L’Euribor a 3 mesi, oggi sotto il 2,1%, è atteso su livelli simili anche nel prossimo anno.
«In questo momento il mercato non prevede ulteriori tagli da parte della BCE nel 2026 e al netto di qualche piccola oscillazione al rialzo verso fine anno, nei prossimi 12 mesi le rate dovrebbero rimanere tendenzialmente stabili», continuano gli esperti di Facile.it
Lo snodo resta l’inflazione: se dovesse tornare ad accelerare, non si potrebbero escludere nuove mosse restrittive della Bce, con un impatto immediato sugli indici e quindi sulle rate dei variabili. Più difficile, invece, «leggere» i fissi: finché i rendimenti dei titoli europei resteranno in salita, è complicato immaginare una traiettoria diversa per gli Irs e, a cascata, per i mutui collegati.
Per chi deve scegliere adesso, lo scenario è nettamente diverso rispetto a inizio anno. Nel 2025, il tasso variabile è tornato mediamente più conveniente. Secondo l’analisi** di Facile.it sulle migliori offerte online, per un mutuo da 126.000 euro in 25 anni (LTV 70%) i variabili partono da un TAN del 2,54%, con rata di 554,5 euro. A parità di profilo, i fissi partono da un TAN del 3,10%, con rata di 604 euro: circa 50 euro in più al mese.
«Scegliere oggi un tasso variabile significa partire con una rata più contenuta, ma il vantaggio economico iniziale può essere ritenuto da molti ancora non sufficiente per giustificare il rischio connesso a questo tipo di finanziamento. Per chi non è disposto a rischiare, invece, i fissi garantiscono comunque condizioni favorevoli, oltre alla certezza che la rata resti uguale per tutte la durata del mutuo. Non esiste in assoluto una soluzione giusta o sbagliata, la scelta va presa da ciascun richiedente secondo le proprie caratteristiche; un consulente esperto può essere d’aiuto per valutare pregi e difetti di ciascuna proposta e identificare quella più adatta», concludono gli esperti di Facile.it.
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Brahim Diaz esulta dopo aver segnato un gol durante la partita inaugurale della 35ª Coppa d'Africa tra Marocco e Comore allo stadio Prince Moulay Abdellah di Rabat (Getty Images)
Serve a spostare l’immaginario: non più periferia, non più frontiera, ma piattaforma. Il governo marocchino non lo nasconde. «La Coppa d’Africa è una prova generale per il Mondiale 2030 e un simbolo della nostra capacità di organizzare eventi globali con standard elevati», ha dichiarato recentemente un portavoce del governo di Rabat, sottolineando l’utilizzo dello sport come leva di soft power e di consolidamento di immagine internazionale. Il re Mohammed VI ha insistito pubblicamente sul ruolo dello sport come strumento di dialogo e cooperazione regionale, definendo iniziative come Afcon e il Mondiale 2030 parte integrante della «strategia marocchina di apertura e modernizzazione». Questa visione è stata ripresa anche dai media di Stato come elemento di legittimazione politica e di promozione dell’identità nazionale. I numeri aiutano a capire la traiettoria. Il Marocco conta oggi circa 37 milioni di abitanti e una crescita demografica relativamente contenuta dell’1 per cento annuo circa, molto più bassa rispetto a molte economie subsahariane.
Questo rallentamento demografico consente una pianificazione a medio-lungo termine più sostenibile. Sul piano economico, il pil ha superato i 140 miliardi di dollari nel 2023, con un pil pro capite attorno ai 3.700 dollari, superiore a molti Paesi dell’Africa subsahariana e stabile negli ultimi anni. Il calcio entra qui. La Coppa d’Africa diventa una vetrina perché cade in un momento preciso. Il Paese è nel pieno di un ciclo di investimenti pubblici legati a grandi eventi. Strade, aeroporti, linee ferroviarie ad alta velocità, stadi. Secondo stime ufficiali, tra infrastrutture sportive e opere collegate il Marocco ha messo sul piatto investimenti nell’ordine di oltre 21 miliardi di dirham — quasi 2 miliardi di euro — per modernizzare stadi e città in vista di Afcon 2025 e del Mondiale 2030. Questa spinta è percepita anche a livello diplomatico.
Nel corso degli ultimi anni Rabat ha promosso nuove alleanze economiche in Africa occidentale, con piani di investimento in energia, telecomunicazioni e infrastrutture. La Coppa d’Africa è intesa come un elemento di “soft power” che attraversa i confini: non solo uno spettacolo sportivo, ma un’occasione per creare reti di relazioni, far visita a delegazioni internazionali e mostrare un’immagine di stabilità e apertura. Il messaggio è rivolto prima di tutto al continente africano. Il Marocco si propone come modello alternativo: africano per storia e geografia, ma sempre più occidentale per governance, modelli economici e partner strategici. “Lo sport è parte integrante della nostra politica estera e interna”, ha detto un consigliere politico marocchino parlando della Coppa d’Africa come di un evento che rafforza l’influenza regionale di Rabat. La Coppa d’Africa serve anche a rafforzare una narrativa interna. Il Paese viene da anni di riforme graduali, non sempre popolari, tra cui la promozione di miglioramenti nei servizi pubblici. Il consenso passa anche dalla capacità di offrire orgoglio nazionale e visibilità internazionale.
Dopo il quarto posto al Mondiale 2022, la nazionale è diventata un moltiplicatore emotivo, un simbolo di successo collettivo. Ma non mancano le critiche. In un anno segnato da proteste giovanili e richieste di maggiori investimenti in sanità ed educazione, alcuni osservatori ricordano che infrastrutture sportive e servizi sociali competono per risorse limitate. «Vogliamo ospedali, non stadi» è stato lo slogan di manifestazioni che hanno investito diverse città marocchine nei mesi scorsi, sottolineando il rischio di disallineamento tra spesa per eventi e bisogni sociali. Nel contesto internazionale il torneo assume un ulteriore significato. La Coppa d’Africa 2025 arriva pochi anni prima del Mondiale 2030, che il Marocco ospiterà insieme a Spagna e Portogallo. Non come semplice partecipante, ma come Paese co-organizzatore, una delle prime volte che un Paese africano riveste questo ruolo congiunto nel calcio globale. Il Marocco conta di vincere la Coppa D'Africa. Il risultato sportivo conterà. Ma conterà meno del messaggio lasciato. Rabat vuole usare il calcio per ribadire che il centro può spostarsi, che l’Africa non è solo luogo di risorse e problemi, ma anche piattaforma, regia e snodo geopolitico. E nel 2030, quando il mondo guarderà lo stesso pallone rimbalzare tra Europa e Africa, quella storia sarà già stata scritta.
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