«È una nemesi», dice scherzando Luca Richeldi, presidente della società di pneumologia nel commentare la notizia-bomba che arriva dal l'Inghilterra: un farmaco che ha effetti miracolosi sul Covid, scoperto (come vedremo) quasi «per errore». Ma oltre alla scoperta c'è anche una nemesi, ovvero una «vendetta esemplare e imprevedibile di AstraZeneca contro le big pharma americane che l'hanno messa al tappeto nella grande guerra dei vaccini. La notizia non è una leggenda metropolitana, ma il frutto di un report della seriosissima rivista medica Lancet. E il nome del farmaco anti-Covid dagli effetti «miracolosi» (esito curativo positivo al 90%, nei casi trattati fino a oggi) sembra un anagramma della Settimana Enigmistica: «Budesoníde», con l'accento sulla i finale. Come una parente buona della Kriptonite che faceva soffrire Superman, Budesonìde è invece è stato fin dalla nascita il corredo di una particolare categoria di uomini «fragili». «L'errore», poi, è di quelli che sembrano fatti apposta per entrare nella narrativa mitologica della ricerca. Perché il Budesonìde non è uno dei tanti farmaci approntati e messi in campo in questi mesi di emergenza, alla ricerca di una cura farmacologica anti-coronavirus, ma esiste, e viene adoperato con successo già da anni: solo che serve (ma sarebbe meglio dire serviva) per curare tutt'altro. Ed ecco la storia, quasi esemplare di questa scoperta, che non a caso avviene nel Regno della medicina «empirica», ovvero la Gran Bretagna. I medici del Regno Unito avevano osservato una singolare anomalia nei contagi di una particolare categoria: ricevevano moltissime chiamate angosciate di tanti malati cronici di asma, terrorizzati (comprensibilmente) dall'idea di ammalarsi di Covid. Contrariamente a quanto si poteva supporre - invece - , medici britannici, avevano scoperto che di questi pazienti la percentuale dei casi riscontrati era prossima allo zero. Negli altri paesi, senza avere successo, molti avevano dedotto che chi aveva sindromi asmatiche, sviluppasse inspiegabilmente, una sorta di immunità al Coronavirus dovuta al loro male. Ed invece era vero esattamente il contrario: era la cura, il segreto, era la cura la chiave di tutto. Così, dopo un meticoloso lavoro di anamnesi, studiando caso per caso le cartelle e i referti, i medici del Regno Unito hanno avuto una intuizione rovesciata. E se invece fosse qualche farmaco assunto per via della loro malattia, a produrre un effetto immunizzante? Detto fatto: ad un secondo giro di questionari, i ricercatori avevano scoperto che tutti gli «immuni asmatici» erano accomunati dall'uso regolare e continuato di una particolare medicina: il Budesonìde, appunto. Ed è qui che parte l'idea di tentare un «trial», una ambiziosa sperimentazione clinica, che nasceva da questo assunto rovesciato: cosa può accadere trattando con il farmaco di AstraZeneca dei soggetti contagiati dal virus? I risultati del trial sono quelli pubblicati sull'ultimo numero di Lancet, pochi giorni fa, in tempo per correre e diffondersi con il tam-tam nella comunità scientifica.
Ma presto la notizia supererà la cerchia dei cultori della materia e degli addetti ai lavori per produrre una sperimentazione su scala più ampia. Il trial clinico ha confermato che Budesonìde ha un effetto immunizzante anche su chi non è asmatico, soprattutto se adoperato nei primi giorni del contagio. Spiega Richeldi, che come sappiamo è stato membro del primo Cts e lavora al Gemelli di Roma: «Si tratta di una notizia fantastica e va dato atto si colleghi inglesi di avere avuto una grande intuizione». Siccome il trial riguarda proprio il suo campo di competenza (i polmoni) il presidente della società di pneumologia osserva: «Ci sono almeno tre ottimi motivi per guardare con grande speranza e attenzione ai risultati di questa ricerca sperimentale». Ecco il primo: «In termini semplificati si può dire che Budesoníde è un farmaco molto semplice: si tratta di un cortisonico inalatorio. Si assume molto facilmente per aerosol. E c'è un altro aspetto altrettanto importante». Quale, gli chiedo, e lui risponde così: «Non ci sono effetti collaterali. Una piccola boccettina di Budesonìde contiene la quantità di farmaco necessaria ad ciclo di cura completo. Infine, ha un costo molto contenuto. Parliamo di poco più di venti euro a dose». Prossima tappa? «Se questo studio confermasse i suoi risultati anche su scala più ampia» aggiunge Richeldi avremmo un'arma in più per fermare il virus prima dell'ingresso in ospedale: un farmaco economico e non invasivo per combattere la malattia nella primissima fase». Anche perché, come sa chiunque abbia fatto degli aerosol terapeutici, il farmaco (ovviamente) si può assumere a domicilio senza bisogno di nessuna assistenza. La prossima settimana ne sapremo di più: «Ho già invitato la collega britannica che ha guidato questa ricerca a fare un seminario con noi».
Sarà un incontro in streaming, ovviamente, ma sarà un dibattito pubblico. Una bella soddisfazione, se AstraZeneca dovesse scoprire - dopo tante critiche sul suo vaccino - che aveva una farmaco portentoso in casa. E che non lo sapeva. Ecco un'altra storia perfetta, ed esemplare, per raccontare la pandemia più folle della storia.
Il caso della Sardegna, che passa dal bianco al rosso, pur restando una delle regioni con meno vittime e meno contagi d'Italia, è un apologo perfetto che ci deve far riflettere su un metodo che non funziona. Parliamo di questa complessa architettura pandemica, regolata via algoritmo, che ha preso il nome popolare di «regioni a colori». Non funzionano i tempi - folgoranti quando si chiude, biblici quando si deve riaprire -; non funziona il criterio principe (l'indice Rt); non funziona il sottotesto moralistico che sembra la bussola di questo alternare cromatico vagamente punitivo: ve la siete spassata (quando eravate «bianchi»), adesso pentitevi e accettate la giusta sanzione. Nessuna di queste cose, andando a vedere bene, è vera. Partiamo dai numeri: la Sardegna aumenta i tamponi, come sempre quando si verificano nuovi focolai, ma ha solo 425 positivi. Le nuove vittime di ieri sono solo 2 (su 300 a livello nazionale). Se si considera quello dei decessi un indice ritardato, anche i nuovi ricoveri sono bassissimi, appena sette: di cui cinque in terapia intensiva e solo due nei reparti ordinari. Le rianimazioni non risultano sotto pressione. Questi significa che - in una regione di un milione e mezzo di abitanti -non esiste (toccando ferro) emergenza. Cosa determina il passaggio al regime più severo, dunque? Alcuni focolai molto localizzati, e la conseguente impennata dell'indice Rt. In quale, però, per paradosso, penalizza le regioni che contano pochi casi. E quelle che hanno spazi più grandi. Perché è ovvio che una regione in cui ci sono molti casi, e in cui si scoprono molti nuovi positivi, avrà una crescita percentuale bassissima, rispetto a una in cui ci sono pochi positivi, ma in cui basta un semplice focolaio di 100 casi per far balzare il tasso di incremento.
E qui emerge un altro tema su cui da mesi - invano - le Regioni protestano. Un conto è un'impennata di contagi in un'area metropolitana ampia, in cui questo può significare che il contagio è andato fuori controllo: ma in una regione di un milione e mezzo di persone, con grandi spazi, è evidente che cento casi in un'area circoscritta sono sotto controllo. Quindi il caso sardo rende più chiaro quello che provavano invano a spiegare, nei giorni scorsi, molti sindaci delle aree locali lombarde: il passaggio alla zona rossa non può avvenire su scala regionale. Se il focolaio è (geograficamente) circoscrivibile, la sua contabilità deve essere scorporata dal macro dato. Altrimenti è automatico l'incremento dell'indice Rt, e si finisce a chiudere una intera regione magari per il dato di soli tre comuni. Ed è davvero singolare questa involuzione, che il sistema odierno, in teoria più sofisticato, sta producendo rispetto all'inizio della pandemia, quando si cominciò isolando piccoli comuni come Vo' Euganeo.
Qui arriviamo all'ultima nota dolente. La moraletta punitiva: ma cosa vi lamentate, se voi eravate zona bianca e avete abbassato la guardia? Il sistema cromatico, se fosse possibile, ha esaltato la tentazione pedagogico-repressiva delle autorità regolatrici. Con un sistema di promozione e repressione che ha sempre come sottotesto l'idea (idiota) che il contagio sia necessariamente frutto di una grave colpa, del venire meno di un senso di responsabilità collettiva. Non è così in Sardegna dove - per esempio - uno dei focolai (80 contagiati) è frutto del contagio un barista di Pozzo Maggiore (Sassari) che aveva fatto un test antigenico ed era risultato negativo (mentre al molecolare è poi risultato positivo!). E questo in una regione che per difendere la sua colorazione aveva sacrificato tutto, con una ordinanza regionale voluta da presidente Solinas con cui si impediva l'ingresso a chiunque, se non per motivi di salute o di lavoro (con gravi danni per il turismo, prima risorsa stagionale dell'isola). Così, da questo caso sardo, dobbiamo probabilmente imparare che se vogliamo sopravvivere al virus (soprattutto in estate, quando aumenterà la mobilità) dobbiamo provare ad essere non più lenti, ma più veloci di lui. Altrimenti continueremo a chiudere i recinti quando i buoni sono già scappati. E a riaprirli quando sarà troppo tardi per salvare la mandria.
«Come tante famiglie italiane Anche noi abbiamo avuto dei problemi di quarantena...».
Matteo Renzi racconta per la prima volta di sua moglie Agnese infettata dal Covid (malgrado il vaccino), notizia che circolava, da giorni, anche se non trovava conferma ufficiale (così come quella che anche il figlio Manuele fosse risultato positivo). Renzi conferma tutto ed aggiunge parlando della sua situazione a La7: «Ora Agnese è pronta a tornare a scuola». Subito dopo racconta la sua complicatissima Pasqua passata a danzare con il virus: isolamento in albergo (lui con il figlio), quarantene (moglie e figli) e saluti dalle finestre a Pasqua (alla moglie e al resto della famiglia, ancora in isolamento). «Ma mia moglie è già pronta a fare lezione da domani perché Covid o non Covid lei non perde un giorno...».
Ed è a questo punto che, con apparente nonchalanche, durante la puntata de L’Aria che tira in cui sta andando in onda questo particolarissimo outing pandemico, Myrta Merlino piazza la domanda più importante: «Ma... scusi: io avevo capito che si era vaccinato all’estero lei...». E l’ex premier: «No, io no. Ma mia moglie sì...». E Myrta, senza mollare la presa, per togliersi ogni dubbio: «Ma quindi possiamo dire ufficialmente che Renzi non è vaccinato?». La domanda ha un senso, segue la ridda dei dubbi che da mesi avevano fatto seguito ai viaggi di Renzi a Riad e Dubai, e soprattutto dopo la comparsata al Gran premio. L’ex sindaco di Firenze non aveva mai risposto direttamente, su quanto tema, e nemmeno si era posto la domanda nella (ormai) celebre autointervista dopo il viaggio in Arabia Saudita. Così, chiamato in causa dalla Merlino dà per la prima volta una risposta definitiva: «No, Renzi Matteo non si è vaccinato. Adesso vediamo mio figlio quanti anticorpi avrà....».
L’ex premier parla a lungo della sua Pasqua a tv L’Aria che tira. La moglie Agnese è risultata positiva al Covid dopo essere stata vaccinata (ne aveva diritto in quanto professoressa) con il vaccino Astrazeneca: «Questo perché la copertura non è totale: ma io e Agnese ci teniamo in ogni caso a dire “Vaccinatevi, vaccinatevi”, perché gli effetti sono comunque meno gravi. Il vaccino anche se non protegge definitivamente serve». Non solo: «Si è contagiato anche mio figlio di 18 anni». Ed ecco il racconto della catena di disavventure familiari dell’ex premier: «La mia Pasqua? È diventato positivo mio figlio Emanuele. Poi Agnese».
E poi ovviamente c’è la politica in una giornata importante in cui per la prima volta il leader di Italia viva ha incontrato il segretario del Pd Enrico Letta. Anche qui la Merlino pizzica: «Dulcis in fundo, perché è stato l’ultimo degli incontri di Letta». E Renzi dribbla l’allusione con una battuta: «Non so quanto dulcis... ma sicuramente in fundo». Però si sottrae alla polemica: «Sta facendo un buon lavoro, forse ne aveva altri». Non c’è dubbio però che il faccia a faccia fosse un piccolo evento, visto che i due non si parlavano dal 2014, quando il leader di Italia viva, allora numero uno del Pd, aveva sfrattato Letta da Palazzo Chigi.
Renzi parla subito di un caso spinoso per il centrosinistra, la guerra per la candidatura a sindaco di Roma. E dice: «È chiaro che fra Carlo Calenda e Virginia Raggi io ad occhi chiusi voterei Calenda». E aggiunge, sul Pd: «Letta sta facendo un buon lavoro, facciamo che Enrico possa lavorare». Non si sbilancia su Roberto Gualtieri, che aspira alla corsa. Molto diplomatico è anche il resoconto del colloquio: «Il Nazareno ha detto che è stato franco e cordiale. È stato molto franco e molto cordiale, sono d’accordo con la ricostruzione del Pd. Letta dice che la questione femminile è il vero problema. Penso», osserva Renzi, «che voglia fare una battaglia vera, non credo possa candidare esclusivamente uomini a Torino, Milano, Roma, Napoli, Siena, Bologna. Lo troverei contraddittorio. In alcune città penso che Italia viva possa dare una mano».
Ma dopo tanta ostentata cordialità emergono anche le spine, proprio sul tema delle alleanze. A deflagrare, in appena quaranta minuti di confronto, sono stati più i temi di disaccordo che di accordo. Il più delicato dei nodi, infatti è l’alleanza con il M5s di Giuseppe Conte. Su cui Renzi continua a porre il veto, mentre Letta la considera fondamentale per allargare il campo del centrosinistra. «Abbiamo un’opinione diversa», spiega Renzi, «questo era noto: credo che il posizionamento che immagino da qui al 2023 è che non voglio stare né con Salvini e Meloni a destra, né coi grillini e i populisti a sinistra. Letta cerca un’alleanza strategica con M5s e Conte, vedremo chi avrà ragione da qui ai prossimi due anni». Il M5s è cambiato? Chiede la Merlino. La risposta è secca: «No, penso solo che siano molto divisi, più di noi o del Pd. Facciano quello che credono, sono nati da un Vaffa day e ora dicono di fare i gentili». E poi l’affondo: «Volevano i due mandati e ora si scannano per il terzo, volevano uscire dall’euro e adesso sono europeisti, non volevano le olimpiadi e ora chiedono i grandi eventi. Letta dice che vuole fare un’alleanza strategica con loro. Noi no!». Così, dopo lo storico incontro la domanda è: in quale coalizione correrà Renzi? Non con il Pd a quanto pare. Cosa che forse a Letta - cortesia a parte - non dispiace affatto.





