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2018-05-09
Giustizialisti, riciclati ed euro ultrà: l’esercito «neutrale» di Mattarella
ANSA
Il titolo del film prodotto dal Quirinale? «Il ritorno dei monti viventi». Monti sta per Mario, ovviamente, patriarca di tutti i governi tecnici, neutrali, di garanzia e di servizio. Viventi, ma neanche tanto: il governo neutrale è destinato infatti, salvo clamorosi imprevisti, ad essere sfiduciato il giorno stesso della presentazione in Parlamento, al netto delle lungaggini di Sergio Mattarella.
Il presidente della Repubblica starebbe pensando di indicare una donna come premier. Una scelta di marketing politico: nessuna donna in Italia ha mai ricevuto un incarico vero e proprio da presidente del Consiglio. Una scelta che però esporrebbe la prescelta al concretissimo rischio di passare alla storia non solo come la prima donna ad arrivare a Palazzo Chigi, ma anche per la durata più breve dell'incarico. Tra i nomi che circolano, c'è quello di Elisabetta Belloni, segretario generale del Ministero degli Esteri. La Belloni è in ottimi rapporti con il M5s, ma è soprattutto vicinissima all'attuale premier, Paolo Gentiloni, e a Federica Mogherini, Alto rappresentante dell'Ue per gli affari esteri: Matteo Renzi, quando era a Palazzo Chigi, aveva pensato a lei per la guida dei servizi segreti. È legata anche a Emanuela D'Alessandro, consigliere diplomatico di Mattarella.
In corsa anche Marta Cartabia, vicepresidente della Corte costituzionale, della quale fa parte dal 2011, nominata dall'allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Allieva di Valerio Onida, ha collezionato una lunga serie di incarichi presso la Commissione europea. Vicina a Comunione e Liberazione, nel 2011, affermò (scatenando l'ira delle associazioni Lgbt) che «la Costituzione italiana protegge la famiglia, differenziandola da altre forme di convivenze e non permette il matrimonio omosessuale». La Cartabia, teorica della supremazia dei giudici sulla politica, faceva parte della rosa di nomi che Matteo Renzi aveva in mente per il Quirinale, quando c'era da decidere il successore di Napolitano.
La vera campionessa italiana di «neutralità», secondo i canoni di Mattarella, è però, senza alcun dubbio, Lucrezia Reichlin, figlia di Alfredo Reichlin, ex deputato di Pci e Pds, e di Luciana Castellina, fondatrice del Manifesto e a sua volta ex deputata. Economista, dal 2005 al 2008 è stata Direttore generale alla ricerca della Banca centrale europea. Fino ad aprile scorso ha fatto parte del cda di Unicredit, esperienza durante la quale si è distinta per la difesa a spada tratta dell'ex amministratore delegato Alessandro Profumo. Tendenza «liberal», la Reichlin è spesso in tv ed è ricordata per i suoi editoriali pro-Mario Monti sul Corriere della Sera. È stata sul punto di diventare ministro dell'Economia con Matteo Renzi premier.
Passiamo ai maschietti. Eternamente candidato a qualunque cosa, tra i papabili premier «neutrali» non poteva mancare Carlo Cottarelli. Economista, una brillante carriera all'interno del Fondo monetario internazionale (nominato nel board da Matteo Renzi), è stato Commissario straordinario per la revisione della spesa pubblica, nominato dall'allora premier Enrico Letta. Ha vissuto 25 anni a Washington, ed è una presenza fissa in tv: severo e distante, monita a tutto spiano. Cottarelli è considerato vicino a Pd, Forza Italia, M5s, centristi, partito dei pensionati (è pensionato del Fmi) e chi più ne ha più ne metta. Ha l'aria di chi dice «non sono disponibile a scendere in politica» sperando che qualcuno insista. Fino ad ora, non è successo. Tutt'altro che «neutrale» è anche Alessandro Pajno, palermitano, presidente del Consiglio di Stato, amico fraterno di Sergio Mattarella, di cui è stato capo di gabinetto quando l'attuale inquilino del Colle era ministro della Pubblica istruzione (anno 1989, premier Giulio Andreotti). Durante il primo governo guidato da Romano Prodi, Pajno è stato segretario generale della presidenza del Consiglio dei ministri; ha fatto parte del Prodi-bis come sottosegretario all'Interno. Altri nomi gettonati? C'è ad esempio quello di Guido Tabellini, economista, che fa parte del cda di Cir, la holding di Carlo De Benedetti. C'è Salvatore Rossi, direttore generale di Bankitalia, che ha fatto parte del comitato dei «saggi» di Giorgio Napolitano. C'è Dario Scannapieco, vicepresidente della Banca europea degli investimenti, molto stimato da Mario Draghi. Infine, Sabino Cassese, giudice emerito della Corte costituzionale, fanatico del rispetto totale delle indicazioni dell'Unione europea, è vicinissimo (tra gli altri) a Mattarella e Napolitano. Tutti nomi che, a dispetto della presunta equidistanza dalla politica, provengono dalle élite di area centrosinistra.
Al cospetto di cotanta «neutralità», Sergio Mattarella potrebbe decidere soltanto domani il nuovo premier. Tra venerdì e sabato ci sarebbe il giuramento del governo, che entro 10 giorni dovrà presentarsi in parlamento per chiedere (e non ottenere) la fiducia. A quel punto, Mattarella scioglierebbe le Camere e ci sarebbero i tempi tecnici per votare il 22 luglio. Cosa che però non vuole assolutamente avallare.
Carlo Tarallo
Renzi lascia il partito a Martina per non sparire dal Parlamento
Matteo Renzi da Giovanni Floris a Di Martedì scende in campo e ammonisce: «Il partito ora deve smetter di litigare, il voto si avvicina». Poi sulle elezioni manda giù il boccone più amaro, cercando di trasformare in una sua scelta l'orientamento del gruppo dirigente: «Gentiloni non lo voglio tiare per la giacca ma in linea di massima il candidato dovrà essere lui». Infine, sui suoi avversari la solita battutaccia studiata: «Nel voto conterà la coerenza. Salvini e Di Maio stanno girando 9 settimane e 1/2, resta da capire chi è Mickey Rourke, e chi Kim Basinger». Non è un caso, però, che in un'unica sera sia lui sia Maria Elena Boschi siano tornati in tv. Alla fine ieri il vertice del segretario reggente e dei capi corrente del Pd, il super caminetto Nazareno, ha deciso: il partito riunirà la sua Assemblea nazionale il 19 maggio. Sarà lì che si sceglierà la squadra con cui andare al voto, in caso di elezioni anticipate a luglio, partendo da questa ipotesi di ticket: Maurizio Martina segretario reggente, Paolo Gentiloni candidato premier. E soprattutto: in quella stessa sede si deciderà con quali candidati correre, vista l'attuale prevalenza dei fedelissimi dell'uomo di Rignano, alla Camera e soprattutto al Senato. Si tratta di un appuntamento in cui sarà difficile trovare l'accordo tra renziani e antirenziani, di un redde rationem, una sfida finale per decidere chi comanda davvero.
Malgrado le dichiarazioni concilianti, infatti, a soli dieci giorni dall'ultima direzione intorno a Renzi si è stretto un vero e proprio cordone sanitario, una manovra che punta ad esautorarlo dalla gestione operativa del partito, dal ruolo di leader ombra che pilota attraverso le sue pedine nei gruppi parlamentari le scelte cruciali. Il primo strappo di peso che ha mosso gli equilibri è stata la sortita pubblica di Walter Veltroni da Lilli Gruber a Otto e mezzo: «Ora al Pd servirebbe una gestione collegiale e la valorizzazione di grandi risorse come Paolo Gentiloni». E poi: «Il Pd è come il conte Ugolino, divora di volta in volta tutti i suoi leader in una bulimia che non porta a nulla». Il secondo strappo è stata la presa di posizione netta di Gentiloni stesso che (con prudenza) ha fatto capire di essere disponile a correre come capo coalizione: «Dobbiamo ricostruire un'alleanza dal Pd a Leu». Senza contare le parole caustiche sulle sconfitte di Renzi: «Il Pd ha preso due sberle: il 4 dicembre (2016, ovvero il referendum, ndr) e il 4 marzo.
La cosa più allarmante», diceva Gentiloni da Fabio Fazio, «è che non ci siamo chiesti perché le abbiamo prese». Nella scorsa direzione era tutto pronto per il muro contro muro, con gli oppositori stretti intorno a Martina e i renziani pronti per reazione ad esautorarlo (e in leggero vantaggio nella conta). Poi proprio all'ultimo momento era arrivata, attraverso i canali carsici del Quirinale, una raccomandazione informale che sconsigliava agli uni e agli altri di rischiare bagni di sangue nell'imminenza del nuovo incarico. Una raccomandazione di cui oggi - dopo la minaccia del voto a luglio - si capisce meglio il senso, visto che il Pd sulla carta potrebbe essere addirittura l'unico grande partito disposto a votare il «governo neutro» a cui pensa Mattarella. Solo domenica sera Michele Emiliano confidava: «Abbiamo fatto bene, noi della minoranza, ad opporci alla linea di Renzi e dare fiducia a Martina».
Detta così, senza spiegazioni, sembrava solo una boutade, soprattutto al termine di una direzione in cui un voto finale di sapore unanimistico aveva confermato il segretario reggente insieme a una relazione che appariva schiacciata sulle posizioni dell'ex premier. Invece la precipitazione della crisi rischia di ribaltare ancora una volta i rapporti di forza, come spiega il vertice tra i big che ieri si sono riuniti al Nazareno. Oltre a Martina, Lorenzo Guerini, i capigruppo Graziano Delrio e Andrea Marcucci, i ministri Andrea Orlando e Dario Franceschini, Gianni Cuperlo, Marco Minniti, Piero Fassino, Roberto Giachetti e il vicepresidente della Camera, Ettore Rosato. Martina infatti in direzione aveva trangugiato l'amaro calice accettando di chiudere la sua strategia di apertura verso il M5s, ma aveva scongiurato un voto di sfiducia e una detronizzazione traumatica.
Il tempo guadagnato la settimana scorsa, proprio con quel compromesso, oggi fa sì che, proprio mentre arriva la burrasca, l'ex ministro sia ancora al timone. L'assemblea del 19 si preannuncia come un possibile campo di battaglia: contro di Renzi e dei suoi fedelissimi del si è coalizzato un fronte molto variegato che tiene insieme le vecchie opposizioni di Orlando, Cuperlo ed Emiliano, un ex compagno di corsa alle primarie come Dario Franceschini (uno che non ha mai perso una guerra di posizione) e i nuovi acquisti degli ultimi giorni con in testa ex ministri, ex premier ex capigruppo ed ex segretari come Veltroni e Gentiloni, Zanda e la Finocchiaro. Ma da ieri per Martina c'è un alleato in più, impalpabile ma potentissimo: la paura. I primi calcoli sul voto dicono che con soli tre punti in meno il Pd potrebbe perdere tra i 30 e i 40 collegi (almeno 15 sull'uninominale e fino a 25 nei collegi uninominali): una piccola ecatombe per un gruppo che ha già perso due terzi degli eletti nelle ultime politiche. Molti dei non eletti che prima del 4 marzo erano stati fregati dalla nottata delle liste, gestita in maniera ferrea da Renzi, sognano già il voto anticipato come una rivincita: chi è entrato, anche tra i fedelissimi del segretario, teme invece di essere scalzato in una purga che riequilibri il peso delle componenti. Uno scenario in cui la figura di Martina (o di chi lo dovesse sostituire) è più che mai decisiva per capire chi va e chi resta. Renzi vorrebbe una clausola che garantisse tutti e avere la certezza che la difesa delle «sue» riforme sarà inserita in ogni trattativa sul programma. La Boschi avverte: «Se si va a votare a luglio le liste devono essere congelate». Congelare o distruggere, in fondo è il cuore di tutto: l'ultima sfida per decidere il futuro di quel che resta del centrosinistra in Italia.
Luca Telese
L'inspiegabile tigna del Quirinale nel non dare chance al centrodestra
Ci sono almeno quattro punti che non tornano nel ragionamento reso pubblico dal presidente Sergio Mattarella, e che alcuni commentatori, con zelo francamente degno di miglior causa, si sono affrettati a definire «cartesiano».
Primo. Siamo all'interno di un sistema istituzionale di tipo parlamentare (personalmente, da fautore del presidenzialismo, dico: purtroppo!), e per giunta proprio Mattarella, sia come giurista sia come politico, è da sempre notoriamente un parlamentarista, cioè un fautore della centralità delle Camere. Perché allora ritardare così tanto la parlamentarizzazione della crisi? Perché evitare così a lungo di conferire a qualcuno un incarico pieno e formale, e invece promuovere una gestione tecnicamente extraparlamentare del dopo 4 marzo? Non era meglio che i sì e i no all'una o all'altra soluzione fossero pronunciati apertamente, nell'emiciclo di Camera e Senato, anziché via Sms o in riunioni di partito?
Secondo. Perché non verificare in Parlamento la sussistenza di una chance per il centrodestra unito, incaricando Matteo Salvini o eventualmente un'altra personalità suggerita da Lega, Forza Italia e Fratelli d'Italia? Obiezione quirinalizia: mancano una cinquantina di voti. Ma se si è parlamentaristi, perché escludere a priori che dal discorso alle Camere del presidente incaricato potesse venire un fatto nuovo? Era del tutto impossibile che il primo ministro designato prendesse impegni e facesse dichiarazioni capaci di convincere i gruppi e i singoli deputati? Questo è parlamentarismo: non, a mio modo di vedere, chiedere - prima e a prescindere - i nomi dei 316 deputati disposti a votare una fiducia al buio, a scatola chiusa, indipendentemente dal dibattito parlamentare.
Terzo. Premesso che la nozione di «governo neutrale» non mi convince affatto (in natura, nemmeno l'aria e l'acqua sono neutrali…), se l'obiettivo finale del Quirinale era una soluzione del genere, non sarebbe stato meglio prima tentare comunque la carta di un governo di centrodestra, constatarne l'eventuale mancata riuscita, e poi - fatta questa verifica - proporre la soluzione semitecnica con maggiori argomenti? Nessuno avrebbe potuto obiettare granché, a quel punto.
Quarto. Perfino la cosa apparentemente di maggiore buon senso detta dal capo dello Stato, se letta tra le righe, solleva obiezioni profonde e gravi. Dice il presidente Mattarella: quelli che sceglierò per il «governo neutrale» dovranno rinunciare a candidarsi alle successive elezioni. Ora, a parte il fatto che appare un po' curioso intervenire sul diritto all'elettorato passivo di alcuni cittadini, quello che è più preoccupante è l'idea che questi «gestori» non debbano rispondere agli elettori, non debbano essere giudicati e neppure giudicabili, siano sottratti «per decreto» a una normale accountability.
Naturalmente - con rare eccezioni - queste obiezioni non vengono sollevate da editorialisti e commentatori dei giornaloni: si preferisce una letteratura tardo romantica del tipo «le inquietudini del Colle», «l'ansia di Mattarella», «la saggezza del Quirinale».
E intanto, ogni giorno, come Mitridate, ci autosomministriamo una goccia di veleno in più, per abituarci piano piano all'idea che democrazia, voto, decisione popolare, siano poco più o poco meno di un flatus vocis.
Daniele Capezzone
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Domani sarà svelato il nome del premier «di servizio». In lizza Lucrezia Reichlin, economista della sinistra chic, Marta Cartabia, pupilla di Giorgio Napolitano, il prezzemolino Carlo Cottarelli e una sfilata di burocrati proni al verbo dell'Ue. Accordo interno al Pd: l'ex premier Matteo Renzi mollerà la presa sulla segreteria se in cambio gli sarà data mano libera sulle liste elettorali. Così potrà preparare il terreno al suo nuovo movimento. Assemblea nazionale il 19.Se il presidente avesse concesso un incarico a Salvini e fosse andata male la sua strategia ora avrebbe più senso Lo speciale contiene tre articoli. Il titolo del film prodotto dal Quirinale? «Il ritorno dei monti viventi». Monti sta per Mario, ovviamente, patriarca di tutti i governi tecnici, neutrali, di garanzia e di servizio. Viventi, ma neanche tanto: il governo neutrale è destinato infatti, salvo clamorosi imprevisti, ad essere sfiduciato il giorno stesso della presentazione in Parlamento, al netto delle lungaggini di Sergio Mattarella. Il presidente della Repubblica starebbe pensando di indicare una donna come premier. Una scelta di marketing politico: nessuna donna in Italia ha mai ricevuto un incarico vero e proprio da presidente del Consiglio. Una scelta che però esporrebbe la prescelta al concretissimo rischio di passare alla storia non solo come la prima donna ad arrivare a Palazzo Chigi, ma anche per la durata più breve dell'incarico. Tra i nomi che circolano, c'è quello di Elisabetta Belloni, segretario generale del Ministero degli Esteri. La Belloni è in ottimi rapporti con il M5s, ma è soprattutto vicinissima all'attuale premier, Paolo Gentiloni, e a Federica Mogherini, Alto rappresentante dell'Ue per gli affari esteri: Matteo Renzi, quando era a Palazzo Chigi, aveva pensato a lei per la guida dei servizi segreti. È legata anche a Emanuela D'Alessandro, consigliere diplomatico di Mattarella. In corsa anche Marta Cartabia, vicepresidente della Corte costituzionale, della quale fa parte dal 2011, nominata dall'allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Allieva di Valerio Onida, ha collezionato una lunga serie di incarichi presso la Commissione europea. Vicina a Comunione e Liberazione, nel 2011, affermò (scatenando l'ira delle associazioni Lgbt) che «la Costituzione italiana protegge la famiglia, differenziandola da altre forme di convivenze e non permette il matrimonio omosessuale». La Cartabia, teorica della supremazia dei giudici sulla politica, faceva parte della rosa di nomi che Matteo Renzi aveva in mente per il Quirinale, quando c'era da decidere il successore di Napolitano. La vera campionessa italiana di «neutralità», secondo i canoni di Mattarella, è però, senza alcun dubbio, Lucrezia Reichlin, figlia di Alfredo Reichlin, ex deputato di Pci e Pds, e di Luciana Castellina, fondatrice del Manifesto e a sua volta ex deputata. Economista, dal 2005 al 2008 è stata Direttore generale alla ricerca della Banca centrale europea. Fino ad aprile scorso ha fatto parte del cda di Unicredit, esperienza durante la quale si è distinta per la difesa a spada tratta dell'ex amministratore delegato Alessandro Profumo. Tendenza «liberal», la Reichlin è spesso in tv ed è ricordata per i suoi editoriali pro-Mario Monti sul Corriere della Sera. È stata sul punto di diventare ministro dell'Economia con Matteo Renzi premier. Passiamo ai maschietti. Eternamente candidato a qualunque cosa, tra i papabili premier «neutrali» non poteva mancare Carlo Cottarelli. Economista, una brillante carriera all'interno del Fondo monetario internazionale (nominato nel board da Matteo Renzi), è stato Commissario straordinario per la revisione della spesa pubblica, nominato dall'allora premier Enrico Letta. Ha vissuto 25 anni a Washington, ed è una presenza fissa in tv: severo e distante, monita a tutto spiano. Cottarelli è considerato vicino a Pd, Forza Italia, M5s, centristi, partito dei pensionati (è pensionato del Fmi) e chi più ne ha più ne metta. Ha l'aria di chi dice «non sono disponibile a scendere in politica» sperando che qualcuno insista. Fino ad ora, non è successo. Tutt'altro che «neutrale» è anche Alessandro Pajno, palermitano, presidente del Consiglio di Stato, amico fraterno di Sergio Mattarella, di cui è stato capo di gabinetto quando l'attuale inquilino del Colle era ministro della Pubblica istruzione (anno 1989, premier Giulio Andreotti). Durante il primo governo guidato da Romano Prodi, Pajno è stato segretario generale della presidenza del Consiglio dei ministri; ha fatto parte del Prodi-bis come sottosegretario all'Interno. Altri nomi gettonati? C'è ad esempio quello di Guido Tabellini, economista, che fa parte del cda di Cir, la holding di Carlo De Benedetti. C'è Salvatore Rossi, direttore generale di Bankitalia, che ha fatto parte del comitato dei «saggi» di Giorgio Napolitano. C'è Dario Scannapieco, vicepresidente della Banca europea degli investimenti, molto stimato da Mario Draghi. Infine, Sabino Cassese, giudice emerito della Corte costituzionale, fanatico del rispetto totale delle indicazioni dell'Unione europea, è vicinissimo (tra gli altri) a Mattarella e Napolitano. Tutti nomi che, a dispetto della presunta equidistanza dalla politica, provengono dalle élite di area centrosinistra. Al cospetto di cotanta «neutralità», Sergio Mattarella potrebbe decidere soltanto domani il nuovo premier. Tra venerdì e sabato ci sarebbe il giuramento del governo, che entro 10 giorni dovrà presentarsi in parlamento per chiedere (e non ottenere) la fiducia. A quel punto, Mattarella scioglierebbe le Camere e ci sarebbero i tempi tecnici per votare il 22 luglio. Cosa che però non vuole assolutamente avallare. Carlo Tarallo <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/esercito-neutrale-di-mattarella-2567091333.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="renzi-lascia-il-partito-a-martina-per-non-sparire-dal-parlamento" data-post-id="2567091333" data-published-at="1765402800" data-use-pagination="False"> Renzi lascia il partito a Martina per non sparire dal Parlamento Matteo Renzi da Giovanni Floris a Di Martedì scende in campo e ammonisce: «Il partito ora deve smetter di litigare, il voto si avvicina». Poi sulle elezioni manda giù il boccone più amaro, cercando di trasformare in una sua scelta l'orientamento del gruppo dirigente: «Gentiloni non lo voglio tiare per la giacca ma in linea di massima il candidato dovrà essere lui». Infine, sui suoi avversari la solita battutaccia studiata: «Nel voto conterà la coerenza. Salvini e Di Maio stanno girando 9 settimane e 1/2, resta da capire chi è Mickey Rourke, e chi Kim Basinger». Non è un caso, però, che in un'unica sera sia lui sia Maria Elena Boschi siano tornati in tv. Alla fine ieri il vertice del segretario reggente e dei capi corrente del Pd, il super caminetto Nazareno, ha deciso: il partito riunirà la sua Assemblea nazionale il 19 maggio. Sarà lì che si sceglierà la squadra con cui andare al voto, in caso di elezioni anticipate a luglio, partendo da questa ipotesi di ticket: Maurizio Martina segretario reggente, Paolo Gentiloni candidato premier. E soprattutto: in quella stessa sede si deciderà con quali candidati correre, vista l'attuale prevalenza dei fedelissimi dell'uomo di Rignano, alla Camera e soprattutto al Senato. Si tratta di un appuntamento in cui sarà difficile trovare l'accordo tra renziani e antirenziani, di un redde rationem, una sfida finale per decidere chi comanda davvero. Malgrado le dichiarazioni concilianti, infatti, a soli dieci giorni dall'ultima direzione intorno a Renzi si è stretto un vero e proprio cordone sanitario, una manovra che punta ad esautorarlo dalla gestione operativa del partito, dal ruolo di leader ombra che pilota attraverso le sue pedine nei gruppi parlamentari le scelte cruciali. Il primo strappo di peso che ha mosso gli equilibri è stata la sortita pubblica di Walter Veltroni da Lilli Gruber a Otto e mezzo: «Ora al Pd servirebbe una gestione collegiale e la valorizzazione di grandi risorse come Paolo Gentiloni». E poi: «Il Pd è come il conte Ugolino, divora di volta in volta tutti i suoi leader in una bulimia che non porta a nulla». Il secondo strappo è stata la presa di posizione netta di Gentiloni stesso che (con prudenza) ha fatto capire di essere disponile a correre come capo coalizione: «Dobbiamo ricostruire un'alleanza dal Pd a Leu». Senza contare le parole caustiche sulle sconfitte di Renzi: «Il Pd ha preso due sberle: il 4 dicembre (2016, ovvero il referendum, ndr) e il 4 marzo. La cosa più allarmante», diceva Gentiloni da Fabio Fazio, «è che non ci siamo chiesti perché le abbiamo prese». Nella scorsa direzione era tutto pronto per il muro contro muro, con gli oppositori stretti intorno a Martina e i renziani pronti per reazione ad esautorarlo (e in leggero vantaggio nella conta). Poi proprio all'ultimo momento era arrivata, attraverso i canali carsici del Quirinale, una raccomandazione informale che sconsigliava agli uni e agli altri di rischiare bagni di sangue nell'imminenza del nuovo incarico. Una raccomandazione di cui oggi - dopo la minaccia del voto a luglio - si capisce meglio il senso, visto che il Pd sulla carta potrebbe essere addirittura l'unico grande partito disposto a votare il «governo neutro» a cui pensa Mattarella. Solo domenica sera Michele Emiliano confidava: «Abbiamo fatto bene, noi della minoranza, ad opporci alla linea di Renzi e dare fiducia a Martina». Detta così, senza spiegazioni, sembrava solo una boutade, soprattutto al termine di una direzione in cui un voto finale di sapore unanimistico aveva confermato il segretario reggente insieme a una relazione che appariva schiacciata sulle posizioni dell'ex premier. Invece la precipitazione della crisi rischia di ribaltare ancora una volta i rapporti di forza, come spiega il vertice tra i big che ieri si sono riuniti al Nazareno. Oltre a Martina, Lorenzo Guerini, i capigruppo Graziano Delrio e Andrea Marcucci, i ministri Andrea Orlando e Dario Franceschini, Gianni Cuperlo, Marco Minniti, Piero Fassino, Roberto Giachetti e il vicepresidente della Camera, Ettore Rosato. Martina infatti in direzione aveva trangugiato l'amaro calice accettando di chiudere la sua strategia di apertura verso il M5s, ma aveva scongiurato un voto di sfiducia e una detronizzazione traumatica. Il tempo guadagnato la settimana scorsa, proprio con quel compromesso, oggi fa sì che, proprio mentre arriva la burrasca, l'ex ministro sia ancora al timone. L'assemblea del 19 si preannuncia come un possibile campo di battaglia: contro di Renzi e dei suoi fedelissimi del si è coalizzato un fronte molto variegato che tiene insieme le vecchie opposizioni di Orlando, Cuperlo ed Emiliano, un ex compagno di corsa alle primarie come Dario Franceschini (uno che non ha mai perso una guerra di posizione) e i nuovi acquisti degli ultimi giorni con in testa ex ministri, ex premier ex capigruppo ed ex segretari come Veltroni e Gentiloni, Zanda e la Finocchiaro. Ma da ieri per Martina c'è un alleato in più, impalpabile ma potentissimo: la paura. I primi calcoli sul voto dicono che con soli tre punti in meno il Pd potrebbe perdere tra i 30 e i 40 collegi (almeno 15 sull'uninominale e fino a 25 nei collegi uninominali): una piccola ecatombe per un gruppo che ha già perso due terzi degli eletti nelle ultime politiche. Molti dei non eletti che prima del 4 marzo erano stati fregati dalla nottata delle liste, gestita in maniera ferrea da Renzi, sognano già il voto anticipato come una rivincita: chi è entrato, anche tra i fedelissimi del segretario, teme invece di essere scalzato in una purga che riequilibri il peso delle componenti. Uno scenario in cui la figura di Martina (o di chi lo dovesse sostituire) è più che mai decisiva per capire chi va e chi resta. Renzi vorrebbe una clausola che garantisse tutti e avere la certezza che la difesa delle «sue» riforme sarà inserita in ogni trattativa sul programma. La Boschi avverte: «Se si va a votare a luglio le liste devono essere congelate». Congelare o distruggere, in fondo è il cuore di tutto: l'ultima sfida per decidere il futuro di quel che resta del centrosinistra in Italia. Luca Telese <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/esercito-neutrale-di-mattarella-2567091333.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="linspiegabile-tigna-del-quirinale-nel-non-dare-chance-al-centrodestra" data-post-id="2567091333" data-published-at="1765402800" data-use-pagination="False"> L'inspiegabile tigna del Quirinale nel non dare chance al centrodestra Ci sono almeno quattro punti che non tornano nel ragionamento reso pubblico dal presidente Sergio Mattarella, e che alcuni commentatori, con zelo francamente degno di miglior causa, si sono affrettati a definire «cartesiano». Primo. Siamo all'interno di un sistema istituzionale di tipo parlamentare (personalmente, da fautore del presidenzialismo, dico: purtroppo!), e per giunta proprio Mattarella, sia come giurista sia come politico, è da sempre notoriamente un parlamentarista, cioè un fautore della centralità delle Camere. Perché allora ritardare così tanto la parlamentarizzazione della crisi? Perché evitare così a lungo di conferire a qualcuno un incarico pieno e formale, e invece promuovere una gestione tecnicamente extraparlamentare del dopo 4 marzo? Non era meglio che i sì e i no all'una o all'altra soluzione fossero pronunciati apertamente, nell'emiciclo di Camera e Senato, anziché via Sms o in riunioni di partito? Secondo. Perché non verificare in Parlamento la sussistenza di una chance per il centrodestra unito, incaricando Matteo Salvini o eventualmente un'altra personalità suggerita da Lega, Forza Italia e Fratelli d'Italia? Obiezione quirinalizia: mancano una cinquantina di voti. Ma se si è parlamentaristi, perché escludere a priori che dal discorso alle Camere del presidente incaricato potesse venire un fatto nuovo? Era del tutto impossibile che il primo ministro designato prendesse impegni e facesse dichiarazioni capaci di convincere i gruppi e i singoli deputati? Questo è parlamentarismo: non, a mio modo di vedere, chiedere - prima e a prescindere - i nomi dei 316 deputati disposti a votare una fiducia al buio, a scatola chiusa, indipendentemente dal dibattito parlamentare. Terzo. Premesso che la nozione di «governo neutrale» non mi convince affatto (in natura, nemmeno l'aria e l'acqua sono neutrali…), se l'obiettivo finale del Quirinale era una soluzione del genere, non sarebbe stato meglio prima tentare comunque la carta di un governo di centrodestra, constatarne l'eventuale mancata riuscita, e poi - fatta questa verifica - proporre la soluzione semitecnica con maggiori argomenti? Nessuno avrebbe potuto obiettare granché, a quel punto. Quarto. Perfino la cosa apparentemente di maggiore buon senso detta dal capo dello Stato, se letta tra le righe, solleva obiezioni profonde e gravi. Dice il presidente Mattarella: quelli che sceglierò per il «governo neutrale» dovranno rinunciare a candidarsi alle successive elezioni. Ora, a parte il fatto che appare un po' curioso intervenire sul diritto all'elettorato passivo di alcuni cittadini, quello che è più preoccupante è l'idea che questi «gestori» non debbano rispondere agli elettori, non debbano essere giudicati e neppure giudicabili, siano sottratti «per decreto» a una normale accountability. Naturalmente - con rare eccezioni - queste obiezioni non vengono sollevate da editorialisti e commentatori dei giornaloni: si preferisce una letteratura tardo romantica del tipo «le inquietudini del Colle», «l'ansia di Mattarella», «la saggezza del Quirinale». E intanto, ogni giorno, come Mitridate, ci autosomministriamo una goccia di veleno in più, per abituarci piano piano all'idea che democrazia, voto, decisione popolare, siano poco più o poco meno di un flatus vocis. Daniele Capezzone
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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