2022-05-07
Esaurito il Recovery l’Europa rilancia la trappola del Mes
Daniele Franco e Mario Draghi (Ansa)
Mentre la Bce dorme, l’Ue offre ciò che resta dei suoi prestiti di dubbia convenienza e prepara un nuovo «scudo anti debito».Con il passare dei giorni appaiono sempre più chiare le motivazioni della ritrosia del governo Draghi nell’accogliere le numerose richieste di adozione di uno scostamento di bilancio per l’anno in corso. Mario Draghi e il suo ministro Daniele Franco sono consapevoli che presentarsi ai mercati emettendo altro debito inasprirebbe le tensioni sui rendimenti già in corso, soprattutto in una situazione in cui la Bce è ormai latitante sui mercati, e cercano di tenere duro, sperando che la guerra in Ucraina termini presto e che ci pensi la Ue, entro giugno, a trovare la liquidità necessaria per finanziare aiuti a imprese e famiglie. E, su questo fronte, la «cucina» di Bruxelles ha molti ingredienti a disposizione per mettere in tavola una pietanza digeribile a tutti i partner europei, cosa che avverrà probabilmente in uno dei prossimi Eurosummit. Gli Stati membri - che da qualche settimana mostrano solo profonde divisioni quando si tratta di mettere a punto il sesto pacchetto di sanzioni alla Russia - sembrano tutti d’accordo quando si tratta di definire il sentiero che i Paesi più indebitati dovranno seguire per attuare una politica di bilancio espansiva: non si accede più al mercato finanziario ma ci si lascia intermediare dalla Commissione con cui ci si indebita a condizioni definite «favorevoli».In prima fila ci sono i fondi del Next Generation Eu ancora disponibili, che ieri sono stati pomposamente presentati da Federico Fubini sul Corriere della Sera come una «riserva da 200 miliardi». Ma non è esattamente così, per tre essenziali motivi. I circa 340 miliardi di sussidi (a prezzi correnti) sono stati già tutti impegnati, ma i prestiti sono stati praticamente snobbati durante i mesi in cui si poteva indebitare a tassi negativi senza i buoni uffici della Commissione. Quei 200 miliardi sono la parte residua dei 360 miliardi di prestiti resi disponibili dal Ngeu e utilizzati dagli Stati per solo 170 miliardi, con l’Italia che, con i suoi 123 miliardi, ha già attinto a tutta la quota a sua disposizione (6,8% del Pil), assorbendo la gran parte del totale erogato. Ciò significa che attingere a quei fondi richiede la presentazione di un nuovo Pnrr che segua tutta la trafila di approvazione già sperimentata tra gennaio e luglio 2021. Ci vuole tempo. Inoltre non è affatto detto che le nuove esigenze di spesa connesse con la crisi Ucraina siano compatibili con i requisiti stringenti previsti dal Ngeu per le spese ammissibili. In altre parole, se serve indebitarsi per dare sostegni al reddito di imprese e famiglie falcidiato dai costi energetici, il Ngeu (con le sue attuali norme) non appare lo strumento più idoneo. Così come non appare idoneo a sostenere la costruzione, ad esempio, di rigassificatori, poiché il gas resta un combustibile di fonte fossile. Tutto il contrario delle fonti rinnovabili finanziate dal Ngeu. Infine, c’è sempre il tema della convenienza: «In queste condizioni un prestito europeo sarebbe utile all’Italia, perché permetterebbe al governo di finanziare nuovi investimenti sull’energia a tassi vicini a quelli tedeschi», conclude Fubini. Ribadiamo l’obiezione già sollevata al momento del varo del Pnrr: nei calcoli di convenienza devono essere considerati anche altri fattori, non solo il probabile minor costo in termini di tasso di interesse. Il costo del mostro burocratico messo in piedi per gestire il Ngeu (cabine di regia, comitati vari, eccetera…), il condizionamento circa le destinazioni di spesa (un abito uguale per tutti), le tappe forzate imposte dalle scadenze semestrali che costringono ad approvare riforme in fretta e a colpi di voti di fiducia, gli eventuali aggiustamenti macroeconomici che il creditore unico europeo potrebbe pretendere. Sono tutti elementi che farebbero sorgere dei dubbi anche di fronte a differenziali di tasso non marginali. Invece niente: si procede a fari spenti nella notte come se l’Italia avesse ormai perso l’accesso ai mercati e si ha paura anche di uno scostamento di bilancio di qualche decina di miliardi.In questo gioca un ruolo anche la Bce, o meglio la sua assenza. Il grafico in pagina racconta di acquisti in diminuzione già prima del termine del programma Pepp a fine marzo. Il programma App continuerà fino a giugno, ma gli acquisti sono davvero modesti (1,3 miliardi i titoli italiani acquistati ad aprile). Gli acquisti del Pepp erano invece pari a circa 25/30 miliardi al bimestre. Gli acquisti dei titoli di tutti Paesi dell’Eurozona, i 200 miliardi al bimestre del 2021, sono ormai un pallido ricordo.Allora ecco che si ripropone il Mes, eterno convitato di pietra tirato in ballo in modo molto autorevole proprio giovedì dal quotidiano tedesco Handelsblatt che, con una sospetta sincronia, ha riferito di un documento di lavoro redatto dagli economisti del Mes, che pare goda già del sostegno del direttore generale Klaus Regling. Si propone uno «scudo contro il debito» a favore di Paesi piccoli (Grecia, Portogallo) ed anche grandi (Francia, Spagna e «soprattutto» l’Italia) per consentire loro di sostenere il peso del maggior debito accumulato per la pandemia, a cui si aggiungeranno le misure per fronteggiare la recessione ormai in atto a causa della guerra in Ucraina e la necessità di sostenere anche gli ingenti investimenti richiesti dalla transizione ecologica. Allora ecco che si renderebbe disponibile - «senza grandi condizioni» - un prestito fino al 4% del Pil di ciascun Paese, pari a un plafond di 250 miliardi destinato a sostenere Stati membri «non responsabili di una crisi».Lo chiamano Recovery fund, ma è il Mes che sta scaldando i motori.
John Elkann (Getty Images)
Francois Bayrou (Getty Images)