2025-11-19
Le Kessler diventano uno spot del suicidio
Alice ed Ellen Kessler (Ansa)
Sui giornali l’eutanasia delle gemelle viene definita «ipermoderna» e «ultracontemporanea», quasi una festa della morte. Perfino «Avvenire», che dovrebbe tutelare la vita, gongola: «Alice ed Ellen uniche». È «Canzonissima» in versione funeraria.Da-da-un-pa, ma che belle le bare gemelle. Il suicidio delle Kessler è diventato improvvisamente lo show della morte: ci potevano essere testimonial migliori per l’eutanasia? Belle, bionde, sane e defunte: il loro ballo era il simbolo dell’Italia che aspirava a vivere e gioire, il loro addio diventa il simbolo dell’Italia che aspira a morire. Normalmente, quando scompare un personaggio amato dal pubblico, tv e giornali trasudano di lacrime e sofferenza: si parla di «vuoto incolmabile», di «dolore inconsolabile», di «Paese in lutto» e c’è sempre qualcuno che dice «sentiremo la sua mancanza». Delle Kessler, invece, sembra che nessuno senta la mancanza. Altro che vuoto, altro che dolore: si sono suicidate, evviva, facciamo festa tutti insieme. «La loro modernità anche nel decidere l’uscita di scena», titola in prima pagina Il Messaggero. «Unite nell’addio. Hanno mantenuto la parola», scrive il Qn. Per La Stampa la notizia della morte è «un’armoniosa predestinazione». «La fine è pacifica, si sono semplicemente addormentate», sintetizza Il Corriere della Sera. Il quotidiano milanese dedica al fatto le prime nove pagine (leggasi bene: nove) e ben tre editoriali, nemmeno fosse la morte del Papa. In prima pagina Massimo Gramellini si compiace: «Ora sono una cosa sola». Una cosa sola un po’ defunta, si capisce, ma quello è un dettaglio. L’importante è che le Kessler «hanno preparato l’ultimo passo come un rito, come una doppia cerimonia». Una cerimonia, capito? Quasi un’esibizione. Più che un suicidio, l’ultimo varietà. Canzonissima versione funeraria. Ma che ci volete fare? L’euforia per la morte travolge tutto, e tutti. E fa dimenticare che le gemelle Kessler erano due signore che stavano ancora bene, non avevano malattie invalidanti, erano autonome, vivano da sole, andavano al ristorante tutte le settimane, forse una aveva una leggera depressione ma nulla più. Il loro suicidio dovrebbe come minimo porre qualche domanda. O, almeno, suscitare costernazione. Invece no: solo entusiasmo. Suonano le fanfare della morte: ma che forte oh, le Kessler si sono ammazzate. Hanno dimostrato di essere «ipermoderne e ultracontemporanee» (Il Messaggero), hanno messo in scena «lo spettacolo di una vita libera fino alla fine» (Domani), hanno tracciato «una linea vivace e definitiva» (Qn). Vivace, proprio così. «Riposeranno in un’unica urna, come si erano promesse» (Corriere della Sera). Vivacissime anche nell’urna. Sulle pagine dei giornali grondanti eutanasica soddisfazione, la cronaca della morte sembra trasformarsi nella cronaca di una vittoria ai mondiali d calcio. È tutto un celebrare l’«organizzazione perfetta», la «disciplina», la «rigorosa preparazione», il «fare da soli, nel pieno della consapevolezza», con tanto di dettagli precisi sull’«infusione endovenosa» che «provoca un arresto cardiaco e circolatorio in breve durata». Da-da-un-pa, non è meraviglioso? Le Kessler, poi, ci hanno messo del loro per piacere alla gente che piace: hanno lasciato l’eredità a Medici Senza Frontiere (da-da-unpa), hanno chiesto di essere seppellite con il cane (da-da-un-pa) e sono state così precise da annullare pure l’abbonamento al quotidiano della Baviera a far data dal 17 novembre (da-da-un-pa). Resta solo un ultimo «mistero», ci spiega Il Corriere, perché abbiano scelto proprio quella data, anziché il 18 o il 16. Questo è il mistero. Mica la morte, che quella ovviamente è una festa. Una festa da-da-un-pa. L’ebbrezza da bara gemella dilaga. Non c’è giornale o telegiornale che non sforni titoli come «unite nell’addio», «unite fino alla fine di scena». «destino ineluttabile», «perfetta simbiosi». L’usuale tristezza per la scomparsa di personaggi amati si trasforma in gioioso compiacimento. Persino il quotidiano cattolico Avvenire, che pure dovrebbe avere la difesa della vita fra le sue priorità, attacca il pezzo così: «Alice ed Ellen uniche e inseparabili anche nella morte. Hanno voluto affrontare insieme il loro canto del cigno». Il canto del cigno, per l’appunto. Potevano anche cantare La notte è piccola per noi. Ma hanno preferito suicidarsi. Evviva il canto del cigno. Ancora una volta ciò che fa paura non è tanto il gesto di chi si toglie la vita, per qualsiasi motivo lo faccia. Ciò che fa paura è proprio questa esaltazione della morte. Questa trasformazione della morte in ragione di vita. Per cui se uno muore d’infarto si piangono lacrime strazianti, se invece muore suicida si suonano le campane a festa. Magari cercando altri che, per un piccolo spazio di notorietà, si dichiarano pronti a fare altrettanto (Simona Izzo, sul Corriere: «Non potrei sopravvivere a mia sorella eterozigote»). E comunque celebrando l’atto del togliersi la vita come qualcosa di moderno, anzi «ipermoderno» e «ultracontemporaneo». Ma se la morte è così bella e moderna perché non ricorrervi un po’ più spesso? Perché non convincere qualcun altro a suicidarsi? Non sarebbe utilissimo anche per eliminare qualche malato? O qualche pensionato che grava sulle casse dell’Inps? Oppure qualche disabile? Perché, anziché curare gli anziani, con tutto quello che costa, non li si spinge dolcemente verso questa linea così «vivace e definitiva»? Perché non ripetere con loro l’entusiasmante «spettacolo» delle gemelle Kessler? Guardate il Belgio, guardate il Canada. Sta già succedendo. Da-da-un-pa, che felicità.
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