2024-01-11
L’Ecuador dichiara guerra ai suoi narcos
Intervento dei militari ecuadoregni nella prigione di Guayaquil (Ansa)
Il presidente Noboa decreta il «conflitto armato interno» dopo le sommosse innescate dalla fuga del boss Macìas Villamar. Le carceri sono fuori controllo e gli agenti vengono impiccati: 13 vittime, 70 arresti. Giallo sull’artiglieria: i terroristi usano armi peruviane.Polonia, dopo l'arresto di due membri dell'esecutivo dell'ex premier Andrzej Duda, Donald Tusk accusa: «La destra si rassegni al cambio di governo». La replica: «Rilasciateli».Lo speciale contiene due articoli.«L’Ecuador? È un Paese perso. Oggi si tratta solo di contenere la situazione, ma tutto è sfuggito di mano. Non c’è nessuna possibilità contro questi criminali che negli anni hanno corrotto polizia, esercito e ogni struttura dello Stato. E chi non è corrotto, per non morire non agisce». Lo dice alla Verità un ex agente della Drug enforcement administration (Dea) che ha scelto la Svizzera come «buen ritiro», dopo una vita passata a rincorrere i narcos in tutto il mondo. Che l’Ecuador sia «perso» oppure no, non lo sappiamo. Tuttavia, in queste ore nella nazione andina regna il terrore dopo l’ondata di violenza causata dalla fuga dal carcere di José Adolfo Macías Villamar, leader della temuta banda Los Choneros, meglio conosciuto con lo pseudonimo «Fito». Era detenuto nel carcere regionale della violenta città portuale di Guayaquil, dove non si muove nulla senza l’autorizzazione dei narcos. Ma come ha fatto Macías a scappare? Con il sistema più vecchio del mondo ovvero il denaro, come le autorità hanno confermato, affermando che «due funzionari della prigione sono accusati di presunto coinvolgimento nella fuga», mentre 3.000 agenti di polizia e soldati sono stati inviati per la caccia all’uomo, che è in corso. Il presidente, Daniel Noboa, insediatosi nel novembre scorso, ha decretato «il conflitto armato interno» e lo stato d’emergenza nazionale di 60 giorni, che comprende il coprifuoco notturno e l’autorizzazione ai militari di reprimere la violenza nelle carceri dopo che sono scoppiate rivolte in sei penitenziari e dopo che un numero imprecisato di guardie sono state prese in ostaggio (e impiccate). «Non negozieremo con i terroristi», promette Noboa, che annuncia alla stampa di voler costruire un grande carcere di massima sicurezza nella giungla amazzonica. Mercoledì, in un decreto aggiornato che dichiarava i Choneros e altre bande gruppi terroristi, Noboa ha affermato: «L’Ecuador stava vivendo un conflitto armato interno». In passato, l’Ecuador è stato un Paese relativamente pacifico, circondato da vicini più violenti. Tuttavia, negli ultimi anni, ha dovuto affrontare una crescente ondata di criminalità guidata da bande di narcos in competizione per il controllo di rotte di traffico lucrative e per stabilire collegamenti con cartelli in Messico, Albania e altri Paesi. Nel 2023 il tasso di omicidi pro capite del Paese è aumentato in modo significativo, raggiungendo quota 46,5 ogni 100.000 persone, otto volte di più rispetto al 2018, posizionandosi tra i più alti della regione. La situazione richiede un approccio complesso e coordinato, coinvolgendo la cooperazione internazionale, riforme legali, il potenziamento delle forze dell’ordine e l’implementazione di programmi sociali per affrontare le radici profonde della criminalità. Ma bisogna fare i conti con la corruzione endemica e le intimidazioni. Martedì sera una stazione tv a Guayaquil è stata oggetto di un attacco da parte di uomini armati e mascherati durante una diretta. Le immagini mostrano membri dello staff costretti a sedersi o a sdraiarsi mentre i loro aggressori, armati fino ai denti, li inseguono e gridano «nessuna polizia!», prima che il segnale si interrompa. Successivamente, la polizia ha dichiarato di aver arrestato tutti gli intrusi dopo l’intervento di una task force. Nelle 24 ore precedenti, almeno sette agenti di polizia in Ecuador sono stati rapiti in diverse parti del Paese, comprese le città di Machala e Quito. A Quito, un veicolo che trasportava gas di petrolio liquefatto è stato incendiato in un attacco a una stazione di rifornimento. A Cuenca, città turistica sulle colline, aggressori sconosciuti hanno lanciato esplosivo contro un camion militare. A Esmeraldas, provincia costiera colpita da violenze, la polizia ha segnalato tre attacchi con esplosivi. A Riobamba, nelle Ande centrali, si è verificata una fuga di 32 detenuti, tra i quali Fabricio Colón, uno dei leader della banda Los Lobos, come riportato da Primicias. Sebbene 20 fuggitivi siano stati catturati, Colón è in fuga. Per ora sale a 13 morti e 70 arresti il bilancio delle violenze. Un quadro che preoccupa profondamente il Dipartimento di Stato Usa.La nazione era stata precedentemente sconvolta dall’omicidio di Fernando Villavicencio avvenuto ad agosto, candidato presidenziale di centrodestra, ammazzato da uomini armati prima delle elezioni anticipate di novembre. Villavicencio aveva precedentemente ricevuto minacce dai Choneros, sebbene le autorità non abbiano collegato il gruppo al suo omicidio. La situazione è aggravata dalla violenza nelle carceri che da tempo sono sotto il controllo delle bande, che le usano come basi operative. Nel corso degli ultimi quattro anni, più di 400 detenuti sono morti e si sono verificati numerosi massacri all’interno dei complessi carcerari, compreso quello in cui era detenuto Adolfo Macías. Ma siamo sicuri che in questa crisi non ci sia «una manina esterna»? Lecito dubitare dopo che il presidente peruviano, Dina Boluarte, ha convocato un Consiglio dei ministri d’emergenza a causa della crisi in Ecuador. Ma perché? Il quotidiano peruviano La República scrive: «Le armi e le granate utilizzate dai terroristi in Ecuador appartengono alle Forze armate peruviane». Come sono arrivate ai narcos è ancora un mistero ma a queste latitudini (e non solo), tutto si compra e si vende. Armi statali comprese.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/ecuador-violenza-2666923902.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="polonia-spaccata-in-due-arrestati-ex-ministro-e-vice-nel-palazzo-di-duda" data-post-id="2666923902" data-published-at="1704927869" data-use-pagination="False"> Polonia spaccata in due: arrestati ex ministro e vice nel palazzo di Duda Prosegue lo scontro politico-istituzionale in Polonia tra il presidente, Andrzej Duda, e il premier, Donald Tusk. L’ultimo episodio di tensione risale all’altro ieri. L’ex ministro dell’Interno, Mariusz Kaminski, e l’ex viceministro, Maciej Wasik, si erano rifugiati nel palazzo presidenziale, dopo essere stati condannati al carcere dalla Corte di Varsavia-Srodmiescie per abuso di potere. Entrambi sono esponenti di Diritto e giustizia: lo schieramento conservatore a cui appartiene anche Duda e che è acerrimo avversario di Piattaforma civica, il partito centrista dell’attuale premier. Sebbene dopo alcune ore i due siano stati arrestati dalla polizia all’interno dello stesso palazzo presidenziale, la circostanza ha innescato dure critiche da parte di Tusk. «Il precedente esecutivo e anche il presidente, Andrzej Duda, non si rassegnano al cambio di governo», ha tuonato il premier polacco, parlando di situazione «senza precedenti» ed esortando il capo dello Stato a non proteggere più Wasik e Kaminski. «Non mi fermerò nella lotta per uno Stato polacco giusto per i suoi cittadini. Non avrò pace finché il ministro Kaminski e i suoi colleghi non saranno rilasciati dal carcere», ha dichiarato, dal canto suo, Duda. Come riportato dall’Associated Press, i due politici erano stati condannati per abuso di potere in riferimento a fatti risalente al 2007. L’attuale presidente polacco li aveva graziati nel 2015: un provvedimento il suo, che era tuttavia stato cassato a giugno dalla Corte suprema, facendo tornare entrambi sotto processo. La motivazione della sentenza fu, in particolare, che Duda aveva concesso la grazia mentre l’appello era ancora in corso. I due sono quindi stati condannati a dicembre a due anni di prigione e, lunedì scorso, il tribunale ha dato l’ok all’arresto. Entrambi continuano a professarsi innocenti, mentre Duda rivendica la validità della sua grazia. La crisi in corso sta quindi rinfocolando le tensioni tra il presidente e il premier: tensioni innescatesi subito dopo l’insediamento di quest’ultimo a metà dicembre. In particolare, il terreno di scontro principale riguarda i mass media. Il governo di Tusk sta infatti facendo di tutto per prendere il controllo di televisione e radio di Stato, silurando o silenziando dirigenti e canali considerati vicini a Diritto e giustizia. L’obiettivo ufficiale del premier è quello di rendere «imparziali» i mezzi di comunicazione. In realtà, le sue mosse somigliano più a una presa di potere. A fare scalpore a dicembre è stata soprattutto la chiusura del canale Tvp Info, che, guarda caso, si era mostrato piuttosto critico nei confronti di Tusk durante la campagna in vista delle ultime elezioni. Alcuni esponenti di Diritto e giustizia avevano occupato gli uffici della tv pubblica in forma di protesta scatenando l’intervento della polizia. Ricordiamo che alle elezioni di ottobre lo stesso Diritto e giustizia era arrivato al primo posto con il 35% dei voti. Tuttavia non aveva i numeri per formare un governo. Pur essendo arrivato secondo con il 31%, Tusk è invece riuscito nell’impresa, mettendo assieme le principali forze di opposizione (che avevano tuttavia corso separatamente durante la campagna elettorale). Questa situazione ha quindi portato alla difficile coabitazione tra il nuovo premier e Duda, il cui mandato scade nel 2025. La tensione politico-istituzionale tra i due leader, insomma, è destinata ad aumentare ulteriormente. Un quadro complesso, che potrebbe avere delle ripercussioni anche a livello internazionale. È infatti importante sottolineare che, mentre Diritto e giustizia risulta storicamente un partito atlantista e filoamericano, Tusk è molto più vicino all’asse franco-tedesco.