2025-11-15
Castagna da romanzo. Da pane dei poveri a «musa» di letterati
Proviene dal «maiale degli alberi»: dalle foglie alla corteccia, non si butta niente. E i suoi frutti finiscono nelle opere d’arte.Due sabati fa abbiamo lasciato la castagna in bocca a Plinio il Vecchio e al fior fiore dell’intellighenzia latina, Catone, Varrone, Virgilio, Ovidio, Apicio, Marziale, i quali hanno lodato e cantato il «pane dei poveri», titolo ampiamente meritato dal frutto che nel corso dei secoli ha sfamato intere popolazioni di contadini e montanari.La storia della castagna merita un altro capitolo ripartendo dallo stesso Plinio che nella Naturalis Historia, dopo aver raccomandato le castagne di Taranto e di Napoli per il sapore e suggerito di abbrustolirle o di stufarle sotto la cenere come metodo di cottura, pone l’attenzione sul riccio. Perché, si chiede lo scienziato, la natura ha deciso di donare a un frutto così modesto una cupola fitta di aculei come la testa di un giovinotto pettinato alla Mascagni, con i capelli ritti e con taglio a spazzola? La risposta è ovvia: il frutto è sì modesto, ma è talmente prezioso da essere chiuso in uno scrigno con un pungente antifurto.Per tutti i secoli della fame, dall’antichità fino alla seconda metà del Novecento, il mondo e la civiltà contadina italiani hanno considerato il castagno il maiale degli alberi. Come del porco non si buttava niente, così si faceva con l’albero del pane: si utilizzava ogni sua parte, il frutto per l’alimentazione, le foglie per la lettiera degli animali, il legno come combustibile e, grazie alla sua resistenza e solidità, come materiale per fabbricare mobili o, in edilizia, come travi e infissi. Nemmeno l’acqua con cui si cuocevano le castagne si buttava via. Le donne della montagna la usavano per lavarsi i capelli e renderli più lucidi e luminosi. Castagno, castagna, foglie e ricci venivano, e vengono ancora oggi, utilizzati nella zootecnia, nella farmacologia e in erboristeria. Le foglie e la corteccia, ricca di tannini dalle proprietà astringenti, sono utilizzate nella cosmesi per creme e unguenti, nei laboratori di erbe per decotti e tisane depurative.Giovanni Pascoli, democratico e vicino al popolo come la castagna (il poeta romagnolo scelse di abitare a Castelnuovo di Barga in mezzo ai castagneti della Garfagnana) riassume tutto questo in versi che celebrano la generosità dell’«italico albero del pane» nella poesia Il castagno: « ...Tu, pio castagno, solo tu, l’assai/ doni al villano che non ha che il sole;/ tu solo il chicco, il buon di più, tu dai/ alla sua prole; ha da te la sua bruna vaccherella/ tiepido il letto e non desìa la stoppia;/ ha da te l’avo tremulo la bella/ fiamma che scoppia».I Longobardi, che per 200 anni tra il VI e l’VIII secolo dettarono legge in Italia, consideravano la castagna una risorsa preziosa per la loro alimentazione. Incentivarono la coltura del castagno e riordinarono i castagneti già esistenti. Rotari, re longobardo, a metà del VII secolo emanò una legge che condannava alla multa di un soldo chi fosse stato sorpreso a tagliare un castagno. I monaci - i monasteri erano isole di cultura e colture - promossero il rimboschimento di castagneti nelle zone collinari e montane, migliorarono la loro produzione istruendo in tale pratica i contadini che seguivano il ciclo colturale dell’albero del pane. Nacquero, così, i contadini specializzati, i castagnatores.La coltivazione del castagno conobbe un periodo d’oro dopo il Mille grazie ai monaci benedettini e a feudatari illuminati come Matilde di Canossa (1046-1115). La Magna Comitissa, la grande contessa, ben consapevole dell’importanza che avevano le castagne nella domestica economia appenninica, non solo incentivò la diffusione del castagno, ma impose ai contadini delle regole da seguire. Tra le altre, far crescere i castagni distanti una decina di metri l’uno dall’altro perché non si disturbassero a vicenda e per raccogliere meglio frutti e foglie e permettere all’erba di crescere nelle aree libere ottimizzando l’uso del suolo. Tale metodo prese il nome della Canossa: «sesto d’impianto matildico», un metodo che esiste ancora, mille anni dopo, come riferimento storico per l’agricoltura.Fino alla Seconda guerra mondiale i castagneti sono stati rispettati e messi a profitto. Poi, con il boom, con l’esodo della popolazione dalla montagna alle città industriali, con il benessere economico, i boschi di castagne sono stati via via dimenticati. Attaccati da micidiali malattie - il mal dell’inchiostro (un fungo parassita, il Phitophthora cinnamomi), dalla vespa cinese e da un altro fungo che provoca il cancro corticale - il destino dei poveri castagni d’Italia sembrava segnato. Invece, grazie a nuove generazioni di intelligenti agricoltori, alla (parziale) ripopolazione montana, ai contributi di amministrazioni lungimiranti, l’interesse verso questa straordinaria pianta è ripreso.Marroni e castagne sono usciti dall’alimentazione di base per diventare un frutto autunnale goloso, sia arrostito sia bollito o glassato, come ingrediente nell’alta gastronomia e nella pasticceria che ci ha regalato il sontuoso Monte Bianco, venti o più centimetri di squisitezza fatta di cacao, rum e panna montata, e il raffinato marron glacé che tutti credono nato in Francia per il nome sdrucciolevole, ma che è nato in Piemonte grazie al cuoco dei Savoia.La castagna è importante nella simbologia. In Cina, dove i frutti del castagno sono essenziali per l’alimentazione invernale, rappresenta l’assennata previdenza. Nell’arte cristiana raffigura l’Immacolata Concezione: come la castagna nasce tra gli aculei del riccio senza esserne intaccata, la Vergine Maria nasce senza il peccato originale. Il nome latino, castanea, contiene la radice casta, pura. E che sia un albero amato dalla mamma di Gesù lo confermano le sue apparizioni sui rami del castagno. Tre santuari in Italia sono dedicati alla Madonna apparsa su castagni: a Ripalta in provincia di La Spezia (Nostra Signora della castagna), a Imbersago nel Lecchese (Madonna del riccio), a Bergamo (Beata Vergine della castagna). Molti artisti hanno raffigurato la castagna come simbolo di provvidenza. Un nome per tutti: Giotto nella Cappella degli Scrovegni, a Padova, raffigura la Carità con un canestro pieno di melagrane e castagne da distribuire ai poveri.Castagno, castagne e marroni spopolano in letteratura, da Boccaccio a Dante Alighieri, da Giovan Battista Marino a Giuseppe Parini, da Ippolito Nievo a Giosuè Carducci a Italo Calvino. Nel romanzo Lo Hobbit di John R.R. Tolkien, Bilbo Baggins, alla domanda di Thorin Scudodiquercia che gli chiede quale arma preferisca, risponde con candore: «Il tiracastagne». Triste e legata al Grande fratello, in 1984 di George Orwell, la canzone del castagno: «Sotto il castagno, chissà perché, / io ti ho venduto, e tu hai venduto me:/ sotto i suoi rami alti e forti,/ essi sono defunti e noi siam morti».La castagna è sempre stata legata alle capigliature. Emily Dickinson si descrive con autoironia: «Ho i capelli arditi come il riccio della castagna». Uguale e disordinata l’acconciatura della donna di Pablo Neruda: «Mia brutta, sei una castagna spettinata/ mia bella, sei bella come il vento».Nel corso della storia, la castagna è sempre stata considerata un frutto salutare per natura. Molte volte esagerandone le virtù. La medicina popolare aveva individuato molti e, alcuni, strani rimedi. Come quello di mettersi in tasca due castagne matte (ippocastano) per tenere lontana l’influenza. L’acqua bollita con scorze e foglie di castagna era considerata un toccasana contro la gotta e il mal di testa. Ci si illuse che le castagne, per analogia con la «chioma» del riccio o per la peluria della buccia, combattessero la calvizie favorendo la crescita dei capelli. Magari. Se fosse così, il qui presente cronista e personaggi famosi come Pier Luigi Bersani, Alessandro Sallusti, Luca Zingaretti, Claudio Bisio avrebbero arricchito i castagnatores di tutt’Italia. Ma ci consola una recentissima statistica che riferisce che il 40% delle donne preferisca l’uomo calvo perché più sexy.