2025-02-28
Difesa comune, il governo stoppa il blitz dell’opposizione in Senato
Scontro su un emendamento della sinistra. Claudio Borghi (Lega): «Volevano togliere al nostro Paese il diritto di veto». Viktor Orbán contesta il vertice Ue-Uk di domenica, dove sarà pure Volodymyr Zelensky: «Provano a far continuare il conflitto».Giusto in tempo per la Quaresima: il 6 marzo l’Europa, sostiene il presidente del Consiglio continentale Antonio Costa, si riunisce in via straordinaria per «decidere sul sostegno all’Ucraina e sul rafforzamento della difesa comune». Insomma i 27, a parole, sono pronti a cospargersi il capo di cenere per il flop in Ucraina, ma se la pigliano con Donald Trump. In queste ore c’è un traffico transatlantico che sarebbe stato bollato come un attentato alla salute del pianeta e ora serve invece – fortuna che se ne sono accorti – per salvare gli uomini. L’Europa continua ad andare in ordine sparso, le relazioni con Washington sono al minimo storico, ma anche Zelensky pare rassegnato alla sconfitta mentre torna sulla scena la Turchia di Tayyip Recep Erdogan che dialoga con Vladimir Putin e chiede un posto alle trattive di pace dicendosi pronto a inviare militari per l’operazione di pacekeeping. La Turchia è pur sempre il secondo esercito Nato. Tutto questo sotto l’interrogativo: chi paga? Se Ursula von der Leyen annuncia un piano da 500 miliardi, i Paesi vanno in ordine sparso e l’idea di mettersi sotto l’ombrello nucleare della Francia non piace a nessuno. Le dichiarazioni paiono la piova dantesca: irrefrenabili e urenti. Ci sarà domenica un vertice a Londra convocato dal premier britannico Keir Starmer che ieri ha incontrato a Washington Trump e che sembra aver riportato Londra nell’Ue. A casa sua ci saranno anche Antonio Costa, presidente del Consiglio europeo, e la Von der Leyen che continua a proclamare piani fantasmagorici per il riarmo dell’Ue senza tenere conto che il primo eventuale finanziatore, suo dante causa politico visto che è il leader dalla Cdu e cancelliere tedesco in pectore Friedrich Merz, è contrario a un fondo comune per il riarmo. La Von der Leyen però continua a proporre un piano da 500-700 miliardi da qui al 2030. A Downing Street ci sarà sicuramente Giorgia Meloni – ieri il nostro ministro degli Esteri Antonio Tajani ha insistito sulla necessità per l’Italia di portare al 2% del Pil la spesa militare – ma non Viktor Orbán. Il ministro degli esteri ungherese Péter Szijjártó, ha emesso una nota di fuoco: «A Londra si riuniranno coloro che vogliono che questa guerra continui, leader che non risparmiano né vite né miliardi. L’Ungheria non parteciperà. Siamo al fianco di coloro che lavorano per la pace e sosteniamo pienamente il successo dei negoziati diplomatici». Chi soldi annuncia di metterceli è lo stesso Starmer – porterà la spesa militare la 2,5% del Pil britannico – che ieri prima di partire per Washington ha telefonato a Emanuel Macron, l’ultimo che ha visto Trump tra gli europei, e a Giorgia Meloni queste iniziative individuali non vanno a genio. Insieme hanno concordato che il presidente americano «lavora a una pace duratura e la sua leadership è la benvenuta». A Trump Starmer ha detto che Londra sostiene senza se e senza ma l’Ucraina e che gli Usa non possono mollare l’Europa. Per la verità Trump annunciando dazi del 25% al vecchio continente non sembra troppo ben disposto: «L’Ue è nata per fregarci, per distruggerci». Ma in questo clima tutti vanno a baciare la pantofola a Washington compreso Volodymyr Zelensky – di passaggio ha incontrato il leader irlandese Michael Martin ripetendo il refrain «serve una pace garantita per l’Ucraina e l’Europa» – che oggi vede Donald Trump per discutere l’accordo sulle terre rare. Escluso il via libera a Kiev per entrare nella Nato, il presidente Usa è pronto a discutere di un fondo comune per la ricostruzione dell’Ucraina dove Kiev mette metà dei soldi e dà garanzie sulla sicurezza del Paese in cambio dello sfruttamento delle terre rare. Da tutto questo via vai a Washington – e si spiega l’ematoma sulla mano del tycoon: ne stringe troppe e troppo diverse per forza e dimensione – si ricava l’impressione che l’iniziativa europea non esista e che il solco con gli Usa si allarghi. Così ieri il presidente del Parlamento europeo, Roberta Metsola, popolare e conta molto adesso, alla Johns Hopkins University ha aggiustato il tiro: «Consideriamo gli Stati Uniti come i nostri alleati più stretti. Non solo perché condividiamo gran parte della stessa storia, ma anche molti degli stessi valori. Ecco perché insieme, gli Stati Uniti e l’Europa, hanno creato e implementato il Piano Marshall per supportare governi stabili e democratici in Europa. Ecco perché abbiamo fondato la Nato che ha celebrato i 75 anni qui a Washington. Ciò rende la nostra relazione transatlantica l'alleanza di maggior successo della storia». A fare da pompiere anche Mark Rutte – segretario generale della Nato – che sottolinea la centralità dei rapporti con Trump e la volontà comune degli europei di rafforzare le difese e tutelare l’Ucraina. Una volontà che oggi al Senato italiano è andata in ordine sparso. Si discutevano gli emendamenti alla relazione programmatica della partecipazione all’Ue e Italia dei Valori e altri del centrosinistra volevano un voto sull’impegno nella difesa comune. Sono stati bocciati dal governo che ha già espresso la sua linea con il ministro della difesa Guido Crosetto per il quale non esiste un esercito comune. E c’è stato un derby tra Borghi su questo tema. Enrico di Iv tuona: «La maggioranza ha detto no all’esercito europeo», Claudio della Lega: «Ottimo aver respinto quegli emendamenti che volevano anche togliere il diritto di veto». Insomma a Roma va come a Bruxelles: c’è una formidabile intesa sul disaccordo mentre Vladimir Putin continua a bombardare, a rafforzare i legami con la Nord Corea e l’Ucraina a sgretolarsi.
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)