
Questa volta bisogna assolutamente concordare con Lilli Gruber, al cento per cento. Il titolo della sua rubrica di risposte ai lettori su Sette, settimanale del Corriere della Sera, è chiaro e condivisibile: «L’informazione, se è buona, deve far nascere dubbi. Per le certezze basta l’algoritmo». La conduttrice di Otto e mezzo replica a tale Vittorio da Bologna spiegando che oggi nei giornali e in televisione ci sono troppi cronisti precari, cosa per altro vera data la condizione difficoltosa (per usare un eufemismo) del mercato dell’informazione. Lilli coglie l’occasione, tuttavia, per lanciare qualche frecciata delle sue.
Scrive ad esempio che «leader politici come Trump ormai deridono o insultano platealmente i reporter che osano fare domande o chiedere di rendere conto del loro operato e, in caso, delle loro contraddizioni. Altri, come la Meloni, evitano sistematicamente il confronto con la stampa, perfino vantandosene, rifugiandosi nella comunicazione via social che è diretta e senza intermediazione». Si potrebbe obiettare che la stampa ci ha messo del suo, attaccando ferocemente entrambi i leader in questione ben al di là del più che legittimo dovere di critica. Le destre, ormai da anni, sono dipinte dai giornali come congreghe di mostri, e questo modo di raccontarle non è giornalismo coraggioso: è ideologia pura e semplice. Basterebbe ricordare il caso della Bbc, con le manipolazioni plateali e deliberate dei discorsi trumpiani. Persino l’Economist, nel numero appena uscito, scrive che i toni apocalittici utilizzati dalla politica progressista e dai media finora non sono utili nemmeno al legittimo scontro tra parti.
La Gruber tuttavia prosegue nella sua intemerata, prendendo di mira soprattutto le destre. «Molti guardano addirittura con sospetto e fastidio gli operatori dell’informazione, che di mestiere sono quelli che devono far nascere dubbi, non limitarsi a confermare le certezze e convinzioni di ognuno», scrive Lilli. «Quello lo fa già l’algoritmo (il bias di conferma). Il cronista invece deve restare ancorato ai fatti, verificarli, attenersi ai dati di realtà, al rifiuto della propaganda, alla curiosità, allo scetticismo. Alle regole deontologiche. Avere meno giornalisti è il sogno (ormai neanche più inconfessabile, vedere alla voce “querele temerarie”) della politica. Di quella di destra, in modo quasi sguaiato ed esplicito, ma non solo: la tendenza è sempre stata piuttosto trasversale. Ma una democrazia senza un “quarto potere” forte e autonomo per chi è un vantaggio? Per chi gestisce il potere senza dover più rendere conto a nessuno di quello che fa o per i cittadini».
Ed eccoci al nodo della questione. Se la teoria della Gruber è giusta, la pratica lascia un po’ a desiderare e si evince proprio dalle righe che abbiamo appena citato. Se ci sono luoghi in cui il dubbio e la differenza di vedute non hanno cittadinanza, beh, sono esattamente le trasmissioni televisive di sinistra, a partire da Otto e mezzo. Chi non si adegua alla opinione della conduttrice o al comune sentire progressista, da quelle parti non ha per niente vita facile, fatica a esprimersi ed è sottoposto a un trattamento non esattamente democratico. Lo dimostra, giusto per non tirare in ballo i politici di destra, quanto accaduto a Marco Travaglio un paio di giorni fa. Quando il direttore del Fatto ha espresso le sue opinioni sulla questione ucraina, la conduttrice lo ha subito contraddetto, tanto che Travaglio si è innervosito: «Lilli, però ogni volta io ti dico quello che penso io e tu mi dici che non sei d’accordo, va benissimo ci mancherebbe». E la Gruber di rimando: «Non è che non sono d’accordo. Non è vero».
Qualche minuto dopo la scenetta si è ripetuta. Travaglio ha ribadito le sue ragioni e la conduttrice ha risposto fredda: «Queste sono naturalmente le tue opinioni».
Travaglio: «Io dico sempre le mie, non le tue».
Gruber: «Sì ma infatti le mie non sono opinioni».
Travaglio: «Ah, sono verità rivelate, certo».
In effetti, l’atteggiamento della grande informazione di sinistra è precisamente quello di chi è in possesso esclusivo di verità divine che non possono essere contraddette e nemmeno discusse. Il dubbio, negli ultimi anni, è diventato il nemico numero uno di questo tipo di informazione, della gran parte dei talk show ma pure del giornale per cui la Gruber scrive, cioè il Corriere della Sera. Giusto per restare in tema Ucraina, parliamo del quotidiano che pubblicò un allucinante elenco di putiniani che comprendeva commentatori e giornalisti non allineati alla vulgata bellicista, cosa per cui ovviamente non ha mai chiesto scusa.
E allora sì, ha ragione Lilli Gruber: l’informazione, se è buona, deve far nascere dubbi. Ne deduciamo che la gran parte dell’informazione italiana buona non è affatto, anzi.






