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2025-12-14
«La Stampa» riscrive la sua storia inventandosi un passato antifascista
John Elkann nella redazione della «Stampa» (Ansa)
«Diremo tutto su tutto». La frase compare nell’editoriale che presenta a Torino e al mondo la prima copia de La Gazzetta Piemontese (1867), mamma del quotidiano La Stampa che oggi soffre per il concreto rischio di essere ceduto a un armatore greco, a un manager aeroportuale veneto. E comunque a chi aggrada a John Elkann, in fuga dai media dopo essere scappato dall’Italia sulla Panda col doppiofondo. Quelle quattro parole sono «un’impronta genetica a cui è stata fedele nel suo secolo e mezzo di vita», ricordava ieri un lungo articolo rievocativo, un viaggio dentro la storia del giornale con accenti leggendari e con un sottofondo amaro, dovuto al grottesco parallelismo indotto con l’oggi e la destra al governo.
Titolo: «Quando il fascismo isolò Frassati». Era il direttore-proprietario che dovette andarsene nel luglio 1925, agli albori del regime, approccio che serve per evocare un fiero passato antifascista nel Dna del quotidiano. Poiché adesso sappiamo che bisogna «dire tutto su tutto» è importante aggiungere che dal giorno dopo La Stampa non diventò fascista, ma fascistissima. Questo nonostante il motto latino «Frangar non flectar» (mi spezzo ma non mi piego) a lungo impresso accanto alla testata. Era accaduto un fatto difficile da ricordare a cuor leggero: Giovanni Agnelli (il nonno dell’Avvocato basetta) aveva rilevato redazione e tipografia con la benedizione di Benito Mussolini. Alla scrivania di Alfredo Frassati sedette Andrea Torre e nel ventennio impronunciabile il giornale accompagnò la storia d’Italia dalla parte del potere.
Per evitare che lo smemorato piemontese più famoso, quello di Collegno, venga sostituito da un bianchetto redazionale come da celebre vignetta di Giorgio Forattini, meglio ricordare ciò che sarebbe più comodo dimenticare. È necessario aggiungere che dal 1929 al 1931 il direttore della Stampa fu Curzio Malaparte, grande scrittore e intellettuale in camicia nera prima di essere folgorato dall’Unione sovietica. Alcuni suoi editoriali, lirici nei confronti del paradiso comunista, gli valsero l’epurazione da parte del signor Fiat. Volendo sublimare quel passato e giocare maliziosamente con lunari parallelismi oggi di moda, allora il giornale riuscì nell’impresa di celebrare due dittature in una, quella rossobruna. Come scriverebbe Annalisa Cuzzocrea, fu il primo putiniano della storia.
Allora nella sede di via Roma con ingresso dalla galleria San Federico, la famiglia Agnelli dettava legge e i direttori cominciarono ad alternarsi con la velocità degli ultimi allenatori della Juventus: Augusto Turati, Alfredo Signoretti, Vittorio Varale, Filippo Burzio. Dopo l’8 settembre 1943 a firmare La Stampa furono Angelo Appiotti, Concetto Pettinato e Francesco Scardaoni. Di loro si è persa la memoria, sciolti nell’acido in effigie. Forse perché l’adesione del giornale alla Repubblica sociale fu così entusiastica che a fine conflitto il Cln ne fece sospendere per un breve periodo l’uscita per connivenza con il fascismo morente. Altro che Dna antifa.
La selettività neuronale è una debolezza umana e un quotidiano di 158 anni ha pure diritto a qualche vuoto di memoria. Che sarà mai. Un privilegio messo in atto già una volta, nel 2017, quando una pubblicazione celebrativa con eventi, articoli, grandi firme del passato e del presente (titolo «Il mondo che ci aspetta») aveva steso un velo di nebbia proprio su quei 20 anni, come se dal 1925 al 1945 la tipografia avesse smesso di funzionare per un misterioso sortilegio alieno. Niente di strano visto che a Torino, con la bonomia disincantata del popolo verso il suo giornale, La Stampa è soprannominata «la Busiarda». È curioso come la solerzia di ripulire la propria storia e di chiedere garanzie politiche agli editori di domani non si sia mai accompagnata alla necessità di fare l’esame del sangue agli editori di oggi e di ieri. Stessa famiglia, stesso passato, stesse camicie negli aviti armadi di cedro antitarme.
Quel vuoto mnemonico non ricapiterà. Poiché al termine del bell’articolo storico di Cesare Martinetti c’è la dicitura «1-continua» è scontato che tutto questo verrà riportato con completezza e trasparenza già oggi o domani. Nel frattempo lo abbiamo fatto noi, infingardi e petulanti innamorati del piccolo cabotaggio, anche per rendere giustizia proprio all’eroico Frassati. «Espressione della borghesia cavourriana liberale e illuminata» (che allora significava zero ma proprio zero socialista), quel direttore era davvero un grande, giustamente dipinto come «difensore di un giornalismo mai conformista». Quindi per proprietà transitiva lontano anni luce dal turbo progressismo woke di questa stagione della Stampa, vissuta al calduccio del pensiero unico mainstream. E nel triennio di Massimo Giannini sulla tolda, perfino imbarazzante scudiera dell’ala sinistra del Pd.
«Frangar non flectar», la storia non deve mai far paura. Sennò, partendo dal «Mi spezzo ma non mi piego», si finisce con i piedi e le rotative dentro un altro magico mondo, quello di Ennio Flaiano, e del suo altrettanto immortale «Mi spezzo ma non mi spiego».
Salvini: «Di danni ne hanno fatti»
«Elkann faccia quello che vuole. Quella famiglia di danni in Italia ne ha fatti tanti». Matteo Salvini non usa mezzi termini. Lo dice a margine di un’iniziativa della Lega alla bocciofila Martesana di Milano, mentre circolano voci su una possibile vendita della Juventus da parte di John Elkann. Indiscrezioni smentite in giornata da Exor, ma sufficienti a innescare una reazione politica trasversale. Il vicepremier non mette il becco sulla questione Juve. «Io sono milanista e non entro in casa altrui», premette. Poi affonda: quella famiglia ha fatto danni. Dall’auto ai giornali, fino al calcio.
Salvini poi rilancia con una proposta: «Come Lega, conto di riuscire a far approvare velocemente la legge, che prevede la partecipazione dei tifosi nell’azionariato e nella gestione della società. Sarebbe una rivoluzione positiva, sia per i grandi club che per le piccole squadre». Coinvolgere chi ama quelle maglie, chi riempie gli stadi. «Chi vuole può partecipare con risorse e scelte. Il calcio italiano sta perdendo colpi».
Le critiche senza sconti a Elkann uniscono Salvini e Carlo Calenda. Il leader di Azione attacca su X: «Elkann ha dimostrato di non avere valori e di non tenere in alcun conto la storia della sua famiglia e della sua patria, avendo venduto Marelli, Comau, Iveco, La Stampa e Repubblica e desertificato le fabbriche italiane. Le sue dichiarazioni valgono zero. Come ben sanno gli operai». Il copione è noto: smontare, vendere, spostare. John Elkann non costruisce, dismette. Non rilancia, liquida. Lo fa con la freddezza del manager globale che considera l’Italia una voce di bilancio, non una responsabilità storica. Le indiscrezioni sulla Juve sono l’ultimo tassello di una ritirata che dura da anni. Prima l’industria automobilistica, con Stellantis che produce Fiat all’estero mentre in Italia si fermano linee e modelli. Poi l’editoria, con lo smembramento del gruppo Gedi e la cessione dei giornali storici. Ora il calcio, ultimo simbolo popolare rimasto. Non sorprende che Salvini parli di «danni fatti all’Italia». Né che Calenda parli di assenza di valori. Qui non è in discussione il mercato, ma le scelte: sfilarsi, arretrare, alleggerire la presenza nel Paese.
Il Partito democratico, immobile e muto in tutti questi anni davanti allo scempio e alla dismissione soprattutto della storia dell’auto italiana, sembra un disco rotto. «Penso che il ricorso al Golden power per la vicenda Gedi sia un buon auspicio destinato a rimanere tale. Un buon auspicio perché la dimensione di un organo di informazione è sempre strategica. Eppure irrealizzabile. Per ovvi motivi. Spero di sbagliarmi ma credo che il governo non abbia interesse a impedire che un uomo collegato ai circuiti economici internazionali e amico della destra diventi l'azionista di riferimento», dichiara Andrea Orlando. «Se poi il Golden power non è stato applicato per Magneti Marelli, Iveco, Comau, asset proprietari di brevetti, fondamentali per il Paese, che sono finiti nelle mani di fondi speculativi o di case produttrici straniere. Oggi la deindustrializzazione va avanti, a gonfie vele, a favore del reshoring verso Stati Uniti». Strano perché è sempre stata l’opposizione a denunciare presunte ingerenze della maggioranza sull’informazione. Mentre, all’opposto, il centrosinistra si opponeva a protezioni su Unicredit. È evidente che la ferita aperta della cessione di quotidiani d’area mandi in tilt quelli del Nazareno, che mettono insieme in un grande calderone allarmi democratici, critiche al sovranismo e alle politiche migratorie. «La vendita di Repubblica», conclude infatti l’ex ministro, «è uno smacco al mondo progressista, di impostazione democratica, se pensiamo al giornale fondato da Eugenio Scalfari. Ma è anche un sintomo di cosa sia il nazionalismo italiano che vale solo per bloccare le frontiere».
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Il quotidiano torinese si incensa aprendo la serie degli articoli autobiografici. Per ora l’adesione convinta al Ventennio non si trova. Non sarebbe la prima volta che su 158 anni di esistenza emerge qualche amnesia.Il vicepremier ricorda tutti gli errori della famiglia Elkann. Carlo Calenda si accoda: «Evidente assenza di valori». Il dem Andrea Orlando invece è un disco rotto: «Serve il Golden power».Lo speciale contiene due articoli «Diremo tutto su tutto». La frase compare nell’editoriale che presenta a Torino e al mondo la prima copia de La Gazzetta Piemontese (1867), mamma del quotidiano La Stampa che oggi soffre per il concreto rischio di essere ceduto a un armatore greco, a un manager aeroportuale veneto. E comunque a chi aggrada a John Elkann, in fuga dai media dopo essere scappato dall’Italia sulla Panda col doppiofondo. Quelle quattro parole sono «un’impronta genetica a cui è stata fedele nel suo secolo e mezzo di vita», ricordava ieri un lungo articolo rievocativo, un viaggio dentro la storia del giornale con accenti leggendari e con un sottofondo amaro, dovuto al grottesco parallelismo indotto con l’oggi e la destra al governo. Titolo: «Quando il fascismo isolò Frassati». Era il direttore-proprietario che dovette andarsene nel luglio 1925, agli albori del regime, approccio che serve per evocare un fiero passato antifascista nel Dna del quotidiano. Poiché adesso sappiamo che bisogna «dire tutto su tutto» è importante aggiungere che dal giorno dopo La Stampa non diventò fascista, ma fascistissima. Questo nonostante il motto latino «Frangar non flectar» (mi spezzo ma non mi piego) a lungo impresso accanto alla testata. Era accaduto un fatto difficile da ricordare a cuor leggero: Giovanni Agnelli (il nonno dell’Avvocato basetta) aveva rilevato redazione e tipografia con la benedizione di Benito Mussolini. Alla scrivania di Alfredo Frassati sedette Andrea Torre e nel ventennio impronunciabile il giornale accompagnò la storia d’Italia dalla parte del potere.Per evitare che lo smemorato piemontese più famoso, quello di Collegno, venga sostituito da un bianchetto redazionale come da celebre vignetta di Giorgio Forattini, meglio ricordare ciò che sarebbe più comodo dimenticare. È necessario aggiungere che dal 1929 al 1931 il direttore della Stampa fu Curzio Malaparte, grande scrittore e intellettuale in camicia nera prima di essere folgorato dall’Unione sovietica. Alcuni suoi editoriali, lirici nei confronti del paradiso comunista, gli valsero l’epurazione da parte del signor Fiat. Volendo sublimare quel passato e giocare maliziosamente con lunari parallelismi oggi di moda, allora il giornale riuscì nell’impresa di celebrare due dittature in una, quella rossobruna. Come scriverebbe Annalisa Cuzzocrea, fu il primo putiniano della storia.Allora nella sede di via Roma con ingresso dalla galleria San Federico, la famiglia Agnelli dettava legge e i direttori cominciarono ad alternarsi con la velocità degli ultimi allenatori della Juventus: Augusto Turati, Alfredo Signoretti, Vittorio Varale, Filippo Burzio. Dopo l’8 settembre 1943 a firmare La Stampa furono Angelo Appiotti, Concetto Pettinato e Francesco Scardaoni. Di loro si è persa la memoria, sciolti nell’acido in effigie. Forse perché l’adesione del giornale alla Repubblica sociale fu così entusiastica che a fine conflitto il Cln ne fece sospendere per un breve periodo l’uscita per connivenza con il fascismo morente. Altro che Dna antifa.La selettività neuronale è una debolezza umana e un quotidiano di 158 anni ha pure diritto a qualche vuoto di memoria. Che sarà mai. Un privilegio messo in atto già una volta, nel 2017, quando una pubblicazione celebrativa con eventi, articoli, grandi firme del passato e del presente (titolo «Il mondo che ci aspetta») aveva steso un velo di nebbia proprio su quei 20 anni, come se dal 1925 al 1945 la tipografia avesse smesso di funzionare per un misterioso sortilegio alieno. Niente di strano visto che a Torino, con la bonomia disincantata del popolo verso il suo giornale, La Stampa è soprannominata «la Busiarda». È curioso come la solerzia di ripulire la propria storia e di chiedere garanzie politiche agli editori di domani non si sia mai accompagnata alla necessità di fare l’esame del sangue agli editori di oggi e di ieri. Stessa famiglia, stesso passato, stesse camicie negli aviti armadi di cedro antitarme.Quel vuoto mnemonico non ricapiterà. Poiché al termine del bell’articolo storico di Cesare Martinetti c’è la dicitura «1-continua» è scontato che tutto questo verrà riportato con completezza e trasparenza già oggi o domani. Nel frattempo lo abbiamo fatto noi, infingardi e petulanti innamorati del piccolo cabotaggio, anche per rendere giustizia proprio all’eroico Frassati. «Espressione della borghesia cavourriana liberale e illuminata» (che allora significava zero ma proprio zero socialista), quel direttore era davvero un grande, giustamente dipinto come «difensore di un giornalismo mai conformista». Quindi per proprietà transitiva lontano anni luce dal turbo progressismo woke di questa stagione della Stampa, vissuta al calduccio del pensiero unico mainstream. E nel triennio di Massimo Giannini sulla tolda, perfino imbarazzante scudiera dell’ala sinistra del Pd.«Frangar non flectar», la storia non deve mai far paura. Sennò, partendo dal «Mi spezzo ma non mi piego», si finisce con i piedi e le rotative dentro un altro magico mondo, quello di Ennio Flaiano, e del suo altrettanto immortale «Mi spezzo ma non mi spiego». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/la-stampa-riscrive-passato-antifascista-2674398060.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="salvini-di-danni-ne-hanno-fatti" data-post-id="2674398060" data-published-at="1765707751" data-use-pagination="False"> Salvini: «Di danni ne hanno fatti» «Elkann faccia quello che vuole. Quella famiglia di danni in Italia ne ha fatti tanti». Matteo Salvini non usa mezzi termini. Lo dice a margine di un’iniziativa della Lega alla bocciofila Martesana di Milano, mentre circolano voci su una possibile vendita della Juventus da parte di John Elkann. Indiscrezioni smentite in giornata da Exor, ma sufficienti a innescare una reazione politica trasversale. Il vicepremier non mette il becco sulla questione Juve. «Io sono milanista e non entro in casa altrui», premette. Poi affonda: quella famiglia ha fatto danni. Dall’auto ai giornali, fino al calcio.Salvini poi rilancia con una proposta: «Come Lega, conto di riuscire a far approvare velocemente la legge, che prevede la partecipazione dei tifosi nell’azionariato e nella gestione della società. Sarebbe una rivoluzione positiva, sia per i grandi club che per le piccole squadre». Coinvolgere chi ama quelle maglie, chi riempie gli stadi. «Chi vuole può partecipare con risorse e scelte. Il calcio italiano sta perdendo colpi».Le critiche senza sconti a Elkann uniscono Salvini e Carlo Calenda. Il leader di Azione attacca su X: «Elkann ha dimostrato di non avere valori e di non tenere in alcun conto la storia della sua famiglia e della sua patria, avendo venduto Marelli, Comau, Iveco, La Stampa e Repubblica e desertificato le fabbriche italiane. Le sue dichiarazioni valgono zero. Come ben sanno gli operai». Il copione è noto: smontare, vendere, spostare. John Elkann non costruisce, dismette. Non rilancia, liquida. Lo fa con la freddezza del manager globale che considera l’Italia una voce di bilancio, non una responsabilità storica. Le indiscrezioni sulla Juve sono l’ultimo tassello di una ritirata che dura da anni. Prima l’industria automobilistica, con Stellantis che produce Fiat all’estero mentre in Italia si fermano linee e modelli. Poi l’editoria, con lo smembramento del gruppo Gedi e la cessione dei giornali storici. Ora il calcio, ultimo simbolo popolare rimasto. Non sorprende che Salvini parli di «danni fatti all’Italia». Né che Calenda parli di assenza di valori. Qui non è in discussione il mercato, ma le scelte: sfilarsi, arretrare, alleggerire la presenza nel Paese. Il Partito democratico, immobile e muto in tutti questi anni davanti allo scempio e alla dismissione soprattutto della storia dell’auto italiana, sembra un disco rotto. «Penso che il ricorso al Golden power per la vicenda Gedi sia un buon auspicio destinato a rimanere tale. Un buon auspicio perché la dimensione di un organo di informazione è sempre strategica. Eppure irrealizzabile. Per ovvi motivi. Spero di sbagliarmi ma credo che il governo non abbia interesse a impedire che un uomo collegato ai circuiti economici internazionali e amico della destra diventi l'azionista di riferimento», dichiara Andrea Orlando. «Se poi il Golden power non è stato applicato per Magneti Marelli, Iveco, Comau, asset proprietari di brevetti, fondamentali per il Paese, che sono finiti nelle mani di fondi speculativi o di case produttrici straniere. Oggi la deindustrializzazione va avanti, a gonfie vele, a favore del reshoring verso Stati Uniti». Strano perché è sempre stata l’opposizione a denunciare presunte ingerenze della maggioranza sull’informazione. Mentre, all’opposto, il centrosinistra si opponeva a protezioni su Unicredit. È evidente che la ferita aperta della cessione di quotidiani d’area mandi in tilt quelli del Nazareno, che mettono insieme in un grande calderone allarmi democratici, critiche al sovranismo e alle politiche migratorie. «La vendita di Repubblica», conclude infatti l’ex ministro, «è uno smacco al mondo progressista, di impostazione democratica, se pensiamo al giornale fondato da Eugenio Scalfari. Ma è anche un sintomo di cosa sia il nazionalismo italiano che vale solo per bloccare le frontiere».
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Il Gourmet Bus è un progetto di Enit Spa dedicato alla cucina italiana e alle eccellenze del Made in Italy. La prima tappa del bus, che ha coinvolto circa 430 partecipanti tra istituzioni ed esperti del settore accolti dai miglior chef italiani, è stata Parigi, a seguire Bruxelles, Londra, Berlino, Stoccolma, Monaco e Vienna. L’altroieri è arrivato a Roma mettendo in vetrina la nostra cucina e le tipicità regionali attraverso degustazioni a bordo, seguendo un percorso panoramico e un’esperienza itinerante di enogastronomia e cultura.
«Roma è la tappa simbolica di un percorso che celebra la nostra tradizione. Ribadiamo così il valore universale delle nostre eccellenze, espressioni dell’identità nazionale. Iniziative come questa di Enit sono fondamentali per rafforzare il legame tra tradizione e innovazione», ha proseguito Santanchè. Secondo Ivana Jelinic, ad di Enit che ha lanciato l’iniziativa, «il turismo enogastronomico negli ultimi anni è diventato un vero traino. I viaggiatori internazionali sono disposti a investire per scoprire le tipicità italiane, creando valore, occupazione e crescita economica a beneficio delle comunità locali. Il Bus Gourmet Italia è nato proprio con la volontà di esportare le eccellenze Made in Italy nel mondo».
In effetti, nel 2024 il mercato globale della ristorazione italiana ha raggiunto un valore pari a 251 miliardi di euro, corrispondente al 19% del mercato mondiale della ristorazione. Nello stesso anno i soggiorni motivati dall’interesse per cibo e vino sono cresciuti del 176% rispetto agli anni precedenti. L’enogastronomia è dunque un fattore decisivo nella scelta dell’Italia come destinazione turistica internazionale: Enit ha rilevato circa 2,4 milioni di presenze riconducibili al turismo enogastronomico. Quanto all’impatto economico diretto, la spesa dei turisti stranieri per esperienze, prodotti e servizi legati al food & wine tourism è stimata in 363 milioni di euro e l’export agroalimentare ha raggiunto il record storico di 69,1 miliardi di euro, segnando una crescita dell’8% rispetto all’anno precedente. Con buona pace dei francesi? «Rispetto alla Francia che non ha tantissime destinazione turistiche, noi siamo l’Italia dagli ottomila campanili, abbiamo le aree interne, le isole più belle, i 5.600 borghi dove si produce il 95% delle nostre eccellenze enogastronomiche», ha spiegato Santanchè. «Sa qual è la differenza tra l’Italia e la Francia? I francesi. Perché i francesi si stringono sempre intorno alla loro bandiera, non parlano mai male della loro nazione: dovremmo farlo anche noi. Io un po’ li invidio».
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L’allarme sul nuovo capitolo - quello che riguarda le bottiglie da spumante o da vini da invecchiare e l’olio extravergine d’oliva (che teme come la peste la luce del sole) - è stato lanciato dal presidente del Coreve, il consorzio italiano per il riciclo del vetro che detiene il record europeo, con l’81% di vetro «circolare», pari a 2,1 milioni di tonnellate nel 2024 (ben sei punti sopra le quote massime richieste da Bruxelles). Che dice: vogliono cancellare le bottiglie scure per il Prosecco. Spiega il presidente Gianni Scotti che tutto nasce dall’idea di Germania e Danimarca d’imporre in Ue solo le bottiglie da birra. S’attaccano al fatto che i lettori ottici, quando devono selezionare una bottiglia scura, la scambiano per ceramica e non la mandano alla fusione, abbassando il tetto delle quantità riciclate. «Abbiamo dimostrato», spiega Scotti, che le nostre macchine arrivano a scartare meno dell’1% del vetro. Speriamo di convincere l’Europa che le indicazioni che vengono da loro sono obsolete». E anche Assovetro, il cui presidente è Marco Ravasi e che usa il rottame di vetro, si dice preoccupata per la piega che sta prendendo Bruxelless. La speranza è l’ultima dea, ma la concorrenza interna all’Ue può molto di più. Gli attacchi al vino da parte dei Paesi del Nord, che lamentano il fatto che sulla birra c’è una (minima) accisa e sul vino no, si ripetono a ondate. Prima l’Irlanda ha imposto le etichette con scritto «il vino fa male», violando i trattati, ma Ursula von der Leyen ha dato loro ragione; poi la Commissione ha approvato il Beca (documento anti cancro che deve passare dall’Eurocamera) per ipertassare il vino, restringerne la vendita e abolirne la promozione; ora si passa dal vetro. Tutto a danno dei Paesi mediterranei, ignorando che in premessa, nel regolamento sugli imballaggi, c’è scritto: «Imballaggi appropriati sono indispensabili per proteggere i prodotti».
Senza bottiglie scure non si può fare la rifermentazione in bottiglia. Solo Cristal in Champagne usa bottiglie bianche, ma tenute al buio. Lo stesso vale per il metodo classico italiano (sempre di rifermentazione in bottiglia si parla), ma anche per gli spumanti fatti in autoclave (il Prosecco appunto). Per avere un’idea, s’imbottigliano 300 milioni di Champagne, gli italiani tappano un miliardo di bottiglie, gli spagnoli 250 milioni. Va bene solo ai tedeschi che fanno tante bollicine ma così leggere che, comunque, non passerebbero l’anno e dunque non hanno bisogno di protezione dal sole, né di contenere le pressioni di rifermentazione. Il caso dei vetri confermerà invece agli inglesi che la Brexit è stata una mano santa. Sono i più forti consumatori di spumanti al mondo, ma sono anche coloro i quali li hanno resi possibile e ora ne producono di ottimi (ad esempio Bolney).
Il metodo di rifermentazione fu codificato da due marchigiani: Andrea Bacci (De naturalis vinorum historia del 1599) e Francesco Scacchi (1622, De Salubri potu dissertatio) mettono a punto la tecnica, tant’è che si potrebbe parale di un metodo Scacchi. Dom Pierre Pérignon arriva sessant’anni dopo. Ma i due italiani hanno un limite: le bottiglie di vetro soffiato scoppiano. In rifermentazione si arriva fino a 6 atmosfere di pressione. Però nel 1652 sir Kelem Digby cambiò tutto. Giorgio I aveva impedito di tagliare alberi per alimentare i forni vetrai, cosi Digby usò il carbone. Questo gli consentì di alzare le fusioni e mescolare carbonio alla pasta vitrea: nacque l’iper-resistente «English Bottle». Gli inglesi, primi clienti dei vini francesi, fecero con il vetro la fortuna dello Champagne. E questo spiega perché le bottiglie sono pesanti e scure (fino a 9 etti per il metodo classico, 700 grammi quelle da Prosecco, mezzo chilo quelle da vino, anche se l’italiana Verallia ha prodotto la Borgne Aire di soli tre etti). Ma l’Europa non lo sa o fa finta. Perché attraverso le bottiglie (produrre un chilo di vetro vergine vale 500 grammi di CO2, ma nel 2024 l’Italia col riciclo ha risparmiato quasi 1 milione di tonnellate di anidride carbonica, 358.000 tonnellate di petrolio e 3,8 milioni tonnellate di materiali) ha capito che può frenare la crescita di alcuni Paesi. Solo che ora dovranno spiegarlo ai vigneron francesi, che da mesi protestano e hanno già estirpato 12.000 ettari di vigna. Ci sta che a Bruxelles dalle cantine arrivi un messaggio in bottiglia: o lasciate perdere, o i trattori che il 18 stanno per circondare palazzo Berlaymont sono solo un aperitivo.
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Maurizio Gasparri (Ansa)
Sono le 20.30, Andrea finisce il suo turno e sale negli spogliatoi, al piano superiore, per cambiarsi. Scendendo dalle scale si trova davanti ad un uomo armato che, forse in preda al panico, apre il fuoco. La pallottola gli buca la testa, da parte a parte, ma invece di ucciderlo lo manda in coma per mesi, riducendolo a un vegetale. La sua vita e quella dei suoi genitori si ferma quel giorno.
Lo Stato si dimentica di loro. Le indagini si concludono con un nulla di fatto. Non solo non hanno mai trovato chi ha sparato ma neppure il proiettile e la pistola da dove è partito il colpo. Questo perché in quel supermercato le telecamere non erano in funzione. Nel 2018 archiviano il caso. E rinvio dopo rinvio non è ancora stato riconosciuto alla famiglia alcun risarcimento in sede civile. Oggi Andrea ha 35 anni e forse neppure lo sa, ha bisogno di tutto, è immobile, si nutre con un sondino, passa le sue giornate tra il letto e la carrozzina. Per assisterlo, al mattino, la famiglia paga due persone. Hanno dovuto installare un ascensore in casa. E ricevono solo un indennizzo Inail che appena gli consente di provvedere alle cure.
Il senatore di Forza Italia, Maurizio Gasparri, membro della commissione Giustizia del Senato, è sconcertato: «Sono profondamente indignato per quanto accaduto a questa famiglia, Andrea e i suoi genitori meritano la giustizia che fino ad oggi gli è stata negata da lungaggini e burocrazia. Non si capisce il motivo di così tanti rinvii. Almeno si giunga a una sentenza e che Andrea abbia il risarcimento che merita dall’assicurazione. Anche il datore di lavoro ha le sue responsabilità e non possono non essere riconosciute dai giudici».
Il collega senatore di Forza Italia, nonché avvocato, Pierantonio Zanettin, anche lui membro della stessa commissione, propone «che lo Stato si faccia carico di un provvedimento ad hoc di solidarietà se la causa venisse persa. È patologico che ci siano tutti questi rinvii. Bisognerebbe capire cosa c’è sotto. Ci devono spiegare le ragioni. Comunque io mi metto a disposizione della famiglia e del legale. La giustizia ha l’obbligo di rispondere».
Ogni volta l’inizio del processo si sposta di sei mesi in sei mesi, quando va bene. L’ultima beffa qualche giorno fa quando la Corte d’Appello calendarizza un altro rinvio. L’avvocato della famiglia, Matteo Mion, non sa darsi una ragione: «Il motivo formale di tutti questi rinvii è il carico di lavoro che hanno nei tribunali, ma io credo più nell’inefficienza che nei complotti. In primo grado era il tribunale di Padova, adesso siamo in Corte di Appello a Venezia. Senza spiegazioni arriva una pec che ci informa dell’ennesimo rinvio. Ormai non li conto più. L’ultima volta il 4 dicembre, rinviati all’11 giugno 2026. La situazione è ingessata, non puoi che prenderne atto e masticare amaro».
In primo grado, il giudice Roberto Beghini, prova addirittura a negare che Andrea avesse diritto a un indennizzo Inail, sostenendo che quello non fosse un infortunio sul lavoro. Poi sentenzia che non c’è alcuna connessione, nemmeno indiretta, tra quanto successo ad Andrea e l’attività lavorativa che stava svolgendo, in quanto aveva già timbrato il cartellino, era quindi fuori dall’orario di lavoro, non era stata sottratta merce dal supermercato, né il ragazzo era stato rapinato personalmente. Per lui non è stata una rapina finita male. Nessuna merce sottratta, nessuna rapina. Il giudice Beghini insinua addirittura che potrebbe essere stato un regolamento di conti. Solo congetture, nessuna prova, nulla che possa far sospettare che qualcuno volesse fare del male al ragazzo. Giusto giovedì sera, alle 19.30, in un altro Prix market, stavolta a Bagnoli di Sopra (Padova), due banditi hanno messo a segno una rapina armati di pistola. Anche stavolta non c’erano le telecamere. Ed è il quarto colpo in nove giorni.
Ciò che è certo in questa storia è che il crimine è avvenuto all’interno del posto di lavoro dove Andrea era assunto, le telecamere erano spente e chi ha sparato è entrato dal retro dell’edificio attraverso un ingresso lasciato aperto. In un Paese normale i titolari del Prix, se non delle colpe dirette, avrebbero senz’altro delle responsabilità. «L’aspetto principale è l’assenza di misure di sicurezza del supermercato», conclude Mion, «che avrebbero tutelato il personale e che avrebbero consentito con buona probabilità di sapere chi ha sparato. C’è una responsabilità della sentenza primo grado, a mio avviso molto modesta».
Per il deputato di Forza Italia, Enrico Costa, ex viceministro della Giustizia e oggi membro della commissione Giustizia della Camera, «ancora una volta giustizia non è fatta. Il responsabile di quell’atto non è stato trovato, abbiamo un ragazzo con una lesione permanente e una famiglia disperata alla quale è cambiata la vita da un momento all’altro. È loro diritto avere un risarcimento e ottenere giustizia».
L’assicurazione della Prix Quality Spa, tace e si rifiuta di pagare. Sapete quanto hanno offerto ad Andrea? Cinquantamila euro. Ecco quanto vale la vita di un ragazzo.
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Beppe Sala (Ansa)
«Il Comune di Milano ha premiato la Cgil con l’Ambrogino, la più importante benemerenza civica. Quello che vorremmo capire è perché lo stesso riconoscimento non sia stato assegnato anche alla Cisl. O alla Uil. Insomma, a tutto il movimento sindacale confederale», afferma Abimelech. Il segretario della Cisl richiama il peso organizzativo del sindacato sul territorio e il ruolo svolto nei luoghi di lavoro e nei servizi ai cittadini: «È una risposta che dobbiamo ai nostri 185.000 iscritti, ai delegati e alle delegate che si impegnano quotidianamente nelle aziende e negli uffici pubblici, alle tantissime persone che si rivolgono ai nostri sportelli diffusi in tutta l’area metropolitana per chiedere di essere tutelate e assistite».
Nel merito delle motivazioni che hanno accompagnato il riconoscimento alla Cgil, Abimelech solleva una serie di interrogativi sul mancato coinvolgimento delle altre sigle confederali. «Abbiamo letto le motivazioni del premio alla Cgil e allora ci chiediamo: la Cisl non è un presidio democratico e di sostegno a lavoratori e lavoratrici? Non è interlocutrice cruciale per istituzioni e imprese, impegnata nel tutelare qualità del lavoro, salute pubblica e futuro del territorio?», dichiara.
Il segretario generale elenca le attività svolte dal sindacato sul piano dei servizi e della rappresentanza: «Non offre servizi essenziali, dai Caf al Patronato, agli sportelli legali? Non promuove modelli di sviluppo equi, sostenibili e inclusivi? Non è vitale il suo ruolo nel dibattito sulle dinamiche della politica economica e industriale?».
Nella dichiarazione trova spazio anche il recente trasferimento della sede della sigla milanese. «In queste settimane la Cisl ha lasciato la sua “casa” storica di via Tadino 23, inaugurata nel 1961 dall’arcivescovo Giovanni Battisti Montini, il futuro Papa Paolo VI, per trasferirsi in una più grande e funzionale in via Valassina 22», ricorda Abimelech, sottolineando le ragioni dell’operazione: «Lo ha fatto proprio per migliorare il suo ruolo di servizio e tutela per i cittadini e gli iscritti».
La presa di posizione si chiude con un interrogativo rivolto direttamente all’amministrazione comunale: «Dobbiamo pensare che per il Comune di Milano ci siano sindacati di serie A e di serie B? Dobbiamo pensare che per il Comune di Milano ci siano sindacati amici e nemici?». Al sindaco Sala non resta che conferire con Abimelech e metterlo a parte delle risposte ai suoi interrogativi.
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