2025-05-12
Dalla rete sunnita all’Iran. Il nuovo impero di Erdogan si espande senza dogmi
Oltre a supportare i suoi alleati tradizionali, il leader intrattiene rapporti più discreti con Hezbollah e il suo sponsor sciita, Teheran. Con cui c’è sintonia pure sugli Huthi.Le limitazioni Usa all’invio di armi hanno favorito la nascita di un’industria nazionale.L’analista Giovanni Giacalone: «L’offensiva con cui Al Jolani ha conquistato Damasco è partita dalla Turchia. Ora il sultano vuol trasformare il Paese in un protettorato per condizionare l’intera regione, compresi Libano e Iraq. Israele sarebbe a rischio, per questo sostiene i drusi».Lo speciale contiene tre articoli.Dal 2002 in poi, con l’ascesa al potere di un esecutivo legato all’islam politico della Fratellanza musulmana, guidato da Recep Tayyip Erdogan, la Turchia ha ricercato sempre di più la proiezione internazionale del Paese. Oggi Ankara esercita influenza geopolitica in diverse regioni grazie alla sua posizione strategica tra Europa, Asia e Medio Oriente, alla sua forza militare e all’attivismo diplomatico. Nel Caucaso e in Asia Centrale, Ankara ha stretti rapporti con l’Azerbaijan, basati su legami etnici, culturali e linguistici (panturchismo) e fornisce supporto militare nella guerra del Nagorno-Karabakh contro l’Armenia. In Kazakistan, Kirghizistan, Turkmenistan e Uzbekistan, la Turchia ha avviato programmi di cooperazione economica e culturale nell’ambito dell’Organizzazione degli Stati turchici, con cui promuove un’identità comune turca. Nei Balcani – vedi Bosnia-Erzegovina, Kosovo, Albania, Macedonia del Nord – esercita la propria influenza tramite investimenti economici, scambi culturali e legami religiosi (islam sunnita). Mentre con Serbia e Montenegro i rapporti sono più limitati, ma in espansione, anche per contrastare l’influenza russa e quella cinese, sempre più importante. Per Erdogan il Medio Oriente è fondamentale, e da qui derivano le numerose operazioni di influenza, ad esempio in Siria, dove è intervenuto militarmente nel Nord del Paese con l’obiettivo di contenere le milizie curde e controllare aree di confine, senza dimenticare il ruolo avuto nella cacciata di Bashar Assad. Ankara è attiva anche in Iraq, dove mantiene una forte presenza militare nel Nord per contrastare il Pkk, oltre a promuovere la cooperazione economica con il governo centrale e con la regione autonoma del Kurdistan. Fortissimo il rapporto con il Qatar, che ha salvato più volte la lira turca e il Paese dal default grazie a ingentissime iniezioni di valuta, che sono servite a mitigare le scellerate scelte economiche dello stesso Erdogan. Con il Qatar è molto forte anche la cooperazione militare: in tal senso, la Turchia ha una base militare in Qatar, situata a Doha, con un contingente di circa 5.000 persone. La Fratellanza musulmana è il collante del sostegno politico ed economico ad Hamas, con le banche turche che custodiscono i fondi del gruppo jihadista e quelli dei loro leader, che in Turchia hanno investito miliardi anche nel mercato immobiliare. La proiezione geopolitica della Turchia si estende anche in Africa, ad esempio in Libia, dove sostiene militarmente il governo di Tripoli (Gna) ed è focalizzata su obiettivi strategici nel settore dell’energia e nel rafforzamento della propria posizione nel Mediterraneo. In Somalia, la Turchia è focalizzata sulle risorse energetiche del Paese. Il sottosuolo somalo, e in particolare i fondali marini, nascondono riserve potenzialmente ricche di petrolio e gas naturale, rimaste a lungo inesplorate a causa di decenni di conflitti e instabilità. La Turchia non si ferma certo alla Somalia e continua la sua operazione di espansione in Sudan, Etiopia e Niger tramite investimenti, aiuti e soft power (istruzione, religione, cultura). Anche l’Europa è oggetto dell’influenza turca, ad esempio in Germania, Francia, Paesi Bassi e Austria, tramite le diaspore turche e il controllo retorico su tematiche religiose e nazionaliste. Lo stesso avviene a Cipro del Nord, dove è forte la presenza militare e il sostegno politico alla Repubblica turca di Cipro del Nord, riconosciuta solo da Ankara. Fin qui le operazioni di influenza alla luce del sole (o quasi) della Turchia. Tuttavia, Erdogan gioca anche su tavoli segreti, dove tutto è lecito, compreso il finanziamento al terrorismo. La Turchia, come emerso in una recente inchiesta di Nordic Monitor, sarebbe diventata una nuova fonte di sostegno economico per Hezbollah, il gruppo armato filo-iraniano attivo in Libano e sottoposto a crescenti pressioni internazionali a seguito delle operazioni militari israeliane e delle sanzioni imposte dagli Stati Uniti. In una comunicazione ufficiale indirizzata al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, Israele ha denunciato il coinvolgimento di Ankara in operazioni di finanziamento destinate al movimento libanese, citando voli specifici partiti dal territorio turco e contenenti ingenti somme in contanti. La denuncia è contenuta in una lettera inviata il 20 febbraio 2025 dall’ambasciatore israeliano all’Onu, Danny Danon, al segretario senerale António Guterres e ai membri del Consiglio di Sicurezza. Il documento illustra quelle che Israele definisce «gravi e ripetute violazioni» della risoluzione 1701, nonché dell’accordo di cessate il fuoco siglato con il Libano nel novembre 2024. Secondo quanto riportato nella missiva, Hezbollah starebbe ricostruendo le proprie capacità militari e sarebbe impegnato in operazioni transfrontaliere, in palese violazione degli impegni presi con la tregua. Un allegato particolarmente delicato riguarda la Turchia. L’intelligence israeliana e il Meccanismo internazionale di monitoraggio e attuazione» (Hlpf) guidato dagli Stati Uniti, evidenziano un sistema di trasferimenti finanziari verso Hezbollah attraverso intermediari turchi. I fondi, ritenuti destinati a sostenere le attività militari del gruppo, sarebbero stati incanalati tramite rotte commerciali che collegano Iran e Libano, con il coinvolgimento di entità turche nella gestione delle transazioni. Israele ha presentato prove di due voli provenienti dalla Turchia e atterrati all’aeroporto internazionale di Beirut il 7 e il 9 febbraio 2025, a bordo dei quali sarebbe stato trasportato denaro contante diretto a Hezbollah. Benché la lettera non indichi direttamente il coinvolgimento di funzionari o enti ufficiali turchi, l’accusa non sorprende alla luce dell’orientamento sempre più ostile nei confronti di Israele da parte del governo guidato da Erdogan. Ankara ha rafforzato la propria convergenza strategica con Teheran su vari dossier regionali, dal sostegno ad Hamas alla netta opposizione all’offensiva militare promossa dagli Stati Uniti contro le milizie Huthi filoiraniane attive in Yemen. Gli agenti della Forza Quds, il ramo operativo dei Pasdaran iraniani per le operazioni estere, sarebbero attivi in Turchia da anni senza ostacoli, soprattutto dopo il collasso dell’inchiesta giudiziaria nota come «Tevhid Selam», avviata nel febbraio 2014 e considerata la più ampia indagine mai condotta nel Paese contro le reti operative iraniane. L’inchiesta aveva messo nel mirino anche figure chiave del governo turco: tra i coinvolti figuravano Seyfi Turan, consigliere speciale di Erdogan per il Medio Oriente, e Hakan Fidan, all’epoca a capo del Mit, i servizi segreti turchi. Tra gli indagati vi era anche Sitki Ayan, cittadino turco legato alla Forza Quds, accusato di aver collaborato con il generale iraniano Behnam Shahriyari, operativo in territorio turco sotto l’identità fittizia di Sayed Ali Akber Mir Vakili. Nonostante le gravi accuse, i sospettati godettero della protezione delle autorità turche, che insabbiarono il caso. Tuttavia, nel febbraio 2024, sia Ayan che Shahriyari sono stati formalmente incriminati dalla procura federale di Manhattan, con capi d’imputazione che spaziano dal finanziamento del terrorismo all’evasione delle sanzioni, fino alla frode e al riciclaggio di denaro, tutti connessi alle attività economiche illecite della Forza Quds. Ayan avrebbe svolto frequenti missioni in Libano per conto di agenti iraniani e risulterebbe legato direttamente al presidente turco. Secondo l’accusa, avrebbe elargito a quest’ultimo ingenti somme in contanti – derivanti da traffici illegali di petrolio e gas con l’Iran – sotto forma di tangenti per garantirsi copertura e impunità.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/dalla-rete-sunnita-alliran-2671932725.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="la-diplomazia-dei-droni-rafforza-linfluenza-di-ankara-in-africa" data-post-id="2671932725" data-published-at="1746997381" data-use-pagination="False"> La «diplomazia dei droni» rafforza l’influenza di Ankara in Africa Da anni la Turchia investe nello sviluppo di capacità belliche autonome, in particolare nel settore dei droni, nel tentativo di affermarsi come potenza regionale in ascesa, capace di incidere sugli equilibri geopolitici internazionali. Ankara ha compreso l’importanza strategica dei droni nel supporto tattico alle operazioni terrestri, impiegandoli per la sorveglianza aerea e la raccolta di dati contro il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), il che ha rafforzato la determinazione del governo a produrre internamente tali sistemi. La mancanza di restrizioni nell’acquisizione di tecnologie da Paesi occidentali, spesso in disaccordo con Ankara su temi quali i migranti e i conflitti in Siria e Libia, ha spinto la Turchia a investire significativamente nello sviluppo di veicoli aerei senza pilota (Uav). Tali sistemi sono stati pensati per compensare la mancanza di aerei da combattimento di nuova generazione, come l’F-22 o l’F-35, di cui Ankara non dispone. Con l’arrivo al potere del Partito per la Giustizia e lo sviluppo (Akp) nel 2001, la politica nazionale turca ha puntato fortemente sull’industria dei droni, vista come un’opportunità per acquisire know-how e aprire la strada alla produzione di aerei da guerra più sofisticati. L’approccio si è rivelato vincente: oggi la Turchia è impegnata nella progettazione del proprio caccia stealth di quinta generazione, chiamato Kaan, entrando così nel ristretto gruppo di nazioni capaci di produrre tale tecnologia, insieme a Stati Uniti, Russia e Cina.Secondo Ahmed Abouyoussef, ricercatore presso l’Al Hatboor Research Centre, sono tre i fattori principali che hanno alimentato l’ambizione turca di ottenere autonomia militare, in particolare nel campo dei droni. Primo, l’invasione di Cipro del 1974 da parte della Turchia ha causato pesanti ripercussioni, tra cui un embargo sulle armi imposto dagli Stati Uniti. Questo evento ha suscitato in Turchia un sentimento diffuso di dover svincolarsi militarmente da Washington. Secondo, le restrizioni americane sulle forniture militari sono state percepite come una minaccia diretta alla sovranità nazionale. Terzo, tali limitazioni hanno messo in luce le fragilità strutturali della difesa turca, rafforzando la convinzione di dover sviluppare un’industria militare autonoma. Il ruolo sempre più centrale della Turchia nel mercato globale dei droni ha contribuito a rafforzare la sua presenza strategica, facilitando la nascita di nuove intese militari, in particolare con Stati africani caratterizzati da instabilità, come la Libia, oppure attraversati da crisi politiche, come l’Etiopia, o ancora impegnati nella lotta contro gruppi estremisti, come la Somalia, teatro di un conflitto violento contro al-Shabaab. La commercializzazione dei droni turchi ha anche un impatto positivo sull’economia nazionale: ogni accordo di fornitura comporta infatti il coinvolgimento di personale tecnico altamente specializzato, indispensabile per garantire il rispetto delle clausole contrattuali. L’efficace utilizzo e la crescente esportazione di droni hanno non solo potenziato le capacità belliche turche, ma anche rafforzato il peso geopolitico del Paese, in particolare nelle aree segnate da instabilità e conflitti. Tuttavia, questa politica comporta nuove criticità, tra cui la necessità di gestire rapporti diplomatici complessi con Stati attraversati da crisi politiche. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/dalla-rete-sunnita-alliran-2671932725.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="con-la-siria-controllera-il-medio-oriente" data-post-id="2671932725" data-published-at="1746997381" data-use-pagination="False"> «Con la Siria controllerà il Medio Oriente» Giovanni Giacalone è un analista e docente nel settore sicurezza e terrorismo.Negli ultimi anni la Turchia si è stretta sempre di più al Qatar e alla Fratellanza musulmana. Quali sono state le conseguenze? «La Turchia sotto Erdogan è progressivamente diventata un cosiddetto “terror-supporting State” al pari di Iran, Qatar o Pakistan. Si è oramai ben lontani dalla Turchia laica dell’era pre-Akp, con un ruolo affidabile all’interno della Nato ed alleato chiave di Israele. Sotto gli islamisti il Paese si è trasformato in un rifugio per qaedisti, per terroristi daghestani, per la leadership dei Fratelli musulmani siriani, egiziani, e per Hamas che è il ramo palestinese della Fratellanza. In più occasioni, dopo il pogrom del 7 ottobre 2023, Erdogan ha definito i terroristi di Hamas come dei “liberatori”, confermandone il sostegno incondizionato. Del resto, non dimentichiamo che durante la guerra civile siriana, la Turchia islamista aveva sostenuto l’ex Jabhat al-Nusra, poi diventata Hayyat Tahrir al-Sham, branca siriana di al-Qaeda e il cui leader, Mohammad al-Jolani, è oggi sdoganato come nuovo presidente della “nuova Siria” col nome Ahmad al-Sharaa. Inoltre, ai jihadisti venne anche fornita assistenza medica all’interno di strutture ospedaliere in territorio turco».Ci furono anche degli arresti per coprire lo scandalo.«Sì, nel 2015, il caporedattore di Cumhuriyet, Can Dundar, e il capo dell’ufficio di Ankara, Erdem Gül, furono arrestati con l’accusa di “terrorismo”, a seguito di un articolo su alcuni camion di proprietà dell’Agenzia nazionale di intelligence (Mit), fermati e perquisiti nella Turchia meridionale all’inizio del 2014 mentre trasportavano armi destinate ai jihadisti in Siria. Curiosa la concezione di “terrorismo” che ha Erdogan, vero? Dundar fu poi ferito in un attentato e fu costretto a fuggire dal Paese. A livello nazionale, la Turchia è diventata una delle più grandi prigioni per giornalisti al mondo.La stampa critica nei confronti di Erdogan è costantemente presa di mira attraverso l’uso della magistratura e, alla fine del 2022, il Comitato per la protezione dei giornalisti (Cpj) ha indicato la Turchia come quarto Paese al mondo per numero di giornalisti incarcerati, dopo Iran, Cina e Myanmar». I rapporti spericolati con l’Isis all’epoca del «califfato», l’appoggio incondizionato ad Hamas, il sostegno ai jihadisti siriani di Mohammed al Jolani alias Ahmad al Sharaa ed ora il finanziamento agli Hezbollah. Tutto questo non espone la Turchia al rischio di ritorsioni da parte di altri gruppi terroristici? «Alcuni sostengono che l’Isis potrebbe avere interesse a colpire in Turchia, ma personalmente non credo. Al contrario, potrebbe forse essere più conveniente per Erdogan far vedere che la Turchia è un potenziale obiettivo dell’Isis, cosa alla quale io però non ho mai creduto. Anzi, penso che l’Isis abbia fatto comodo a Erdogan in chiave anti Assad esattamente come tutte le altre fazioni islamiste coinvolte in Siria e Iraq. Vale la pena ricordare la vicenda del consolato dello Stato Islamico aperto a Istanbul nel 2014, come affermato all’epoca dall’ex responsabile delle relazioni estere dell’Isis, Abu Omar al Tunisi, che definì la Turchia un “Paese amico”».Alcuni esperti ritengono che Erdogan spera che la Siria diventi un trampolino di lancio per proiettare la potenza turca a livello regionale. Ritiene che sia così? «Certamente. L’offensiva di Hayyat Tahrir al Sham per spodestare Assad è di fatto partita dalla Turchia. Al-Jolani è una creatura di Ankara ed Erdogan ha tutte le intenzioni di trasformare la Siria in un protettorato neo ottomano per condizionare l’intera regione, tra cui il Libano e l’Iraq. Non solo, perché Erdogan punta anche ad utilizzare la Siria in chiave anti israeliana, come ha già del resto fatto capire. Non è certo un caso che il nuovo regime siriano abbia preso di mira i drusi, alleati di Israele. A Gerusalemme questo lo sanno molto bene e non è certo un caso che l’Idf si sia mosso da subito in territorio siriano per posizionarsi in zone chiave e per proteggere i drusi. Credo che Erdogan voglia presentarsi come leader “neo ottomano” strumentalizzando la causa palestinese a proprio vantaggio e utilizzando al Sharaa (anche se preferisco continuare a chiamarlo al Jolani) come proprio cavallo di battaglia. Che poi ci riesca, è un altro discorso». Secondo fonti diplomatiche, Siria e Israele starebbero intrattenendo colloqui riservati con il sostegno degli Emirati Arabi Uniti nel tentativo di contenere le tensioni regionali e favorire una stabilizzazione. Tuttavia, lo scenario si complica con il coinvolgimento della Turchia: il presidente Recep Tayyip Erdogan mantiene rapporti tesi con Israele. Cosa può accadere? I colloqui tra Siria, Israele ed Emirati sono una pessima notizia per Erdogan? «Una Siria sotto il controllo turco diventerebbe una roccaforte di vari gruppi terroristi, in primis Hamas e Hezbollah ma non soltanto, e il Paese si trasformerebbe in una rampa di lancio per attacchi contro lo Stato ebraico. Israele ha già fatto ampiamente capire che ciò non avverrà. È possibile che la Siria venga spartita in zone sotto differenti influenze, con i sunniti a Nord sostenuti dalla Turchia, i drusi a Sud sostenuti da Israele e gli alawiti verso Ovest. È solo un’ipotesi però, perché come abbiamo visto in Medio Oriente è diventato tutto molto imprevedibile. Pensiamo soltanto alla velocità con la quale è improvvisamente caduto Bashar al Assad, oppure come Hezbollah è stato ridotto in frantumi in pochi giorni».
Chuck Schumer (Getty Images)
Matteo Bassetti (Imagoeconomica)