2022-12-27
Crisi nel Nord del Kosovo. Ora Belgrado valuta di inviare truppe al confine
Risale la tensione dopo una sparatoria vicino a una pattuglia Nato. Militari serbi in pressing per dispiegare uomini alla frontiera.Esattamente un anno fa, un argomento dominava la cronaca globale: il dispiegamento di truppe russe nell’Ucraina orientale (occupata dal 2014) e in Bielorussia. All’epoca si parlava di una grave minaccia, ma anche che la probabilità di una guerra non era molto alta. Pure il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, aveva ipotizzato che Vladimir Putin stesse bluffando, un errore fatale, come sarebbe diventato evidente il 24 febbraio 2022. Mentre oggi si fa sempre più tesa la situazione ai confini tra la Serbia e il Kosovo, ormai a un passo dal conflitto armato. Alla luce delle crescenti tensioni nel nord del Kosovo, il primo ministro serbo Ana Brnabić ha parlato dell’escalation in corso accusando il Kosovo: «Siamo davvero sull’orlo di un conflitto armato». La sera di Natale, il presidente serbo Aleksandar Vucic ha inviato il Capo di stato maggiore dell’esercito, il generale Milan Mojsilovic, al confine con il Kosovo. Dopo l’incontro avuto con Vucic a Belgrado, l’alto graduato ha dichiarato che «i compiti assegnati all’esercito serbo sono precisi, chiari e saranno completamente attuati. La situazione al confine è complicata e complessa e richiede la presenza dell’esercito serbo nel prossimo periodo». La Kfor, la forza Nato in Kosovo presente con circa 3.760 soldati, ha confermato nella mattina di ieri la sparatoria avvenuta nella notte tra il 25 e il 26 dicembre a Zubin Potok, uno dei quattro maggiori comuni del nord a maggioranza serba, al centro delle proteste della popolazione locale serba che ha eretto dallo scorso 10 dicembre barricate e blocchi stradali. Secondo quanto riferito dalla Kfor, gli spari sono avvenuti non lontano da una pattuglia della forza Nato, ma non si sono registrati feriti né danni materiali. Per la stampa di Pristina la sparatoria è avvenuta quando la polizia kosovara ha cercato di smontare una delle barricate erette due settimane fa dai serbi locali per protestare contro l’arresto di alcuni ex agenti serbi dimissionari della polizia kosovara, oltre che contro l’invio nel nord a maggioranza serba di numerose unità della polizia speciale del Kosovo. Non appena si è diffusa la notizia della sparatoria è di nuovo salita la tensione interetnica nel nord del Kosovo, dove i blocchi stradali e le barricate stanno creando grosse difficoltà nei trasporti e al sistema di comunicazione. Il premier kosovaro Albin Kurti ha parlato di una situazione non più tollerabile, accusando non troppo velatamente la Kfor, il cui mandato ricevuto dall’Onu «consiste nel garantire la sicurezza e la libertà di movimento su tutto il territorio del Kosovo». Kurti ha aggiunto che subito dopo Natale incontrerà il comandante della Kfor, il generale italiano Angelo Michele Ristuccia. Bene ricordare che le truppe internazionali non sono lì solo per tenere lontani i soldati di Vucic, ma anche per proteggere la minoranza serba. Ad esempio, vicino alla piccola città di Decan, nel Kosovo occidentale, dove i paramilitari albanesi e le forze serbe hanno combattuto durante la guerra. Il Kosovo, con la sua popolazione prevalentemente albanese, ha dichiarato la propria indipendenza dalla Serbia nel 2008, ma è ancora considerato un territorio separatista da Belgrado. Solo pochi anni fa entrambi i Paesi hanno combattuto una sanguinosa guerra. Nonostante i tentativi di dialogo dell’Unione europea, sono stati ripetutamente in disaccordo per anni, e Belgrado sta incoraggiando la minoranza serba nel Kosovo settentrionale nei suoi tentativi di sfidare l’autorità di Pristina. I serbi accusano da sempre il governo di Pristina di voler costruire una «Grande Albania» con l’obiettivo di confiscare le proprietà della chiesa ortodossa e cacciare dal Paese i cittadini non albanesi. Dal 2008 il Kosovo del Nord è finito in una specie di limbo e i circa 120.000 serbi presenti nell’area abitano in alcune enclave protette dai 3.700 soldati della missione Kfor e vivono con l’assistenza fornita dall’Onu. Il governo di Belgrado considera Mitrovica, Gracanica, Leposavić e le zone limitrofe come la culla dell’identità nazionale serba e non ha mai fatto mancare il proprio sostegno ai cittadini di etnia serba. Nella zona si usa il dinaro serbo come moneta corrente e il premier del Kosovo più volte ha accusato i serbi dell’area di non pagare le tasse, incolpando l’enclave serba di essere «una minaccia per l’unità nazionale del Kosovo». Nella crisi si è inserito da tempo Vladimir Putin che negli ultimi mesi ha più volte citato il Kosovo paragonando le persecuzioni subite dai serbi in Kosovo a quelle dei russi nelle regioni orientali dell’Ucraina. Secondo Putin, la colpa è come sempre dell’Occidente che avrebbe usato due pesi e due misure nelle crisi, riconoscendo l’autonomia del Kosovo (dichiarata unilateralmente nel 2008) e negando invece quella di Donetsk e Lugansk da Kiev. Tutte parole che sono musica per il governo nazionalista serbo, che tanto vorrebbe entrare nell’Unione europea.
La sede della Corta penale internazionale dell’Aia (Ansa)
Volodymyr Zelensky (Getty Images)