Ansa
Risale la tensione dopo una sparatoria vicino a una pattuglia Nato. Militari serbi in pressing per dispiegare uomini alla frontiera.
Il messaggio è arrivato forte e chiaro lunedì, durante la riunione informale svoltasi a Bruxelles fra i ministri degli Esteri dell’Unione europea e sei ministri degli Stati balcanici. L’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica estera, Josep Borrell, non si è nemmeno peritato di utilizzare toni felpati. «Tenere legami stretti con Vladimir Putin non è compatibile con i valori dell’Ue, oggi non è possibile rimanere neutrali sull’aggressione russa dell’Ucraina», ha detto. E ha precisato che non contano «legami, vincoli e pressioni dell’opinione pubblica». Più cristallino di così non avrebbe potuto essere: non importa se il popolo non è d’accordo, sul conflitto bisogna schierarsi, e dalla parte giusta.
In concreto, schierarsi significa partecipare al boicottaggio della Russia. «Chi non l’ha fatto, come la Serbia, dovrà adeguarsi il prima possibile alle sanzioni», ha detto Borrell. Agli Stati balcanici come Albania, Macedonia del Nord e Montenegro, che si sono allineati all’Ue, Borrell ha promesso che saranno integrati nei piani comuni sulle questioni energetiche e tenuti per quanto possibile al riparo dall’aumento dei prezzi del gas.
Il problema sta nel fatto che la stessa promessa è stata fatta anche al Kosovo, il quale ovviamente si è schierato a favore delle sanzioni, ma ha il difetto di non essere uno Stato riconosciuto da parecchie altre nazioni tra cui, ovviamente, la Serbia. Ed è abbastanza evidente che le parole pronunciate da Borrell lunedì fossero un avvertimento rivolto a Belgrado e al presidente serbo Aleksandar Vucic, riconfermato nell’incarico all’inizio di aprile con un’ampia maggioranza.
Vucic ha ribadito più volte che il destino della Serbia è quello di entrare nell’Unione europea, ma ha anche ribadito di essere intenzionato a tutelare gli interessi dei suoi compatrioti. E non di avere intenzione di approvare sanzioni contro Mosca. Non ha fatto retromarcia neppure dopo che Vladimir Putin, in aprile, ha pronunciato frasi che hanno ferito molti serbi. Confrontandosi con il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, Putin ha notato che «la decisione della Corte internazionale di giustizia delle Nazioni Unite sul Kosovo, secondo cui nell’esercizio del diritto all’autodeterminazione il territorio di uno Stato non è obbligato a chiedere il permesso per dichiarare la propria sovranità alle autorità centrali, può valere anche per gli oblast ucraini». Certo, l’uomo del Cremlino intendeva mettere in luce la contraddizione fra il modo in cui la comunità internazionale ha operato nei confronti del Kosovo e la situazione del Donbass. Ma per Vucic è stato un brutto colpo. Nonostante ciò, la sua linea sulle sanzioni non è cambiata. E la scelta gli sta costando abbastanza cara.
«Il prezzo che paghiamo è enorme. In sostanza non abbiamo accesso al mercato dei capitali. […] Alla fine, tutto questo si riflette su stipendi e pensioni», ha detto il presidente. La sua è una posizione di principio abbastanza comprensibile. La Serbia, negli anni passati, è stata sfibrata da sanzioni feroci, e non potrebbe tollerare di riservare ad altri lo stesso trattamento. «Non chiedo gratitudine a nessuno, lo facciamo per rispetto di noi stessi, del nostro Paese e del diritto internazionale. Sappiamo quali sono le sanzioni, quanto siano disoneste e non necessarie», ha detto Vucic.
Le conseguenze di questa linea, tuttavia, non sono semplicissime da affrontare. Belgrado sta subendo pressioni di vario genere ormai da tempo. All’inizio di maggio, durante il viaggio a Berlino, Vucic ha incontrato il ministro degli Esteri Annalena Baerbock e il cancelliere Olaf Scholz, e il confronto si è rivelato piuttosto ruvido. Non soltanto a proposito dei negoziati in corso con il Kosovo, ma anche riguardo alle sanzioni.
«Dall’inizio della guerra stiamo subendo molte pressioni», dice alla Verità Jovan Palalic, segretario generale del Partito popolare serbo e presidente del gruppo di amicizia parlamentare Serbia-Italia. «Bisogna capire che la nostra posizione è unica. Abbiamo votato per tutte le risoluzioni che condannano la guerra, ma non possiamo approvare le sanzioni. Le abbiamo subite in passato, il nostro popolo non può accettare che vengano imposte a una nazione che non è mai stata contro di noi, per altro dagli stessi che le hanno imposte a noi».
Ci sono state le insistenze tedesche, sono seguiti i messaggi vagamente intimidatori di Borrell. Poi, negli ultimi giorni, sono curiosamente arrivati anche gli attacchi informatici. Da giorni arrivano alle istituzioni pubbliche serbe email che segnalano la presenza di bombe. Solo a Belgrado messaggi simili sono giunti in una novantina di scuole fra primarie e superiori, e la città di fatto è rimasta bloccata. Sembra che sia arrivata anche una rivendicazione da parte di un sedicente membro del gruppo Anonymous, ma non ci sono conferme ufficiali.
Ciò che si sa per certo è che la tensione, ormai da settimane, sta salendo a livelli altissimi. Che sono aumentate quando il Kosovo ha deciso di presentare richiesta di adesione al Consiglio d’Europa, con l’aperto sostegno dei tedeschi. Ormai da tempo il Kosovo (come di recente ricordato dal primo ministro Albin Kurti) partecipa alle esercitazioni militari della Nato. La presidente, Vjosa Osmani, si è spinta anche oltre: «Alla luce della situazione in Ucraina, è arrivato il momento che il Kosovo entri nella Nato», ha detto alla fine di marzo. Al confine con la Serbia gli incidenti si susseguono da parecchio, e i serbi hanno più volte denunciato l’acquisto di armi da parte dei kosovari, per lo più provenienti dalla Turchia.
Per tutta risposta, qualche settimana fa Belgrado ha ricevuto un sistema missilistico terra-aria Hq-22 dalla Cina, e non ha atteso a mostrarne il funzionamento. Dalla Francia sono invece arrivati aerei, il che non contribuisce a spargere vibrazioni positive.
È difficile, se non impossibile, che la Serbia accetti la linea Ue sulle sanzioni alla Russia e rompa il legame con Mosca, da cui ottiene supporto anche in sede Onu sul Kosovo. Tanto più che, alla fine di maggio, scadrà il contratto tra Srbijagase e Gazprom per la fornitura di gas: Belgrado dipende quasi interamente dalla Russia dal punto di vista energetico, e ha intenzione di rinnovare gli accordi per i prossimi dieci anni. È immaginabile che scelga di indispettire i suoi migliori alleati nonché fornitori di energia?
Visto il contesto, appare abbastanza inevitabile che la temperatura nei Balcani sia destinata ad aumentare fino a farsi soffocante. Anche in quell’area ci sono in gioco enormi interessi. E mentre noi ci preoccupiamo delle scelte di Finlandia e Svezia, una nuova e più pericolosa polveriera rischia di accendersi a pochi passi da casa nostra.