2018-03-25
La Merkel ha sfruttato la crisi e si è fregata i nostri salari
I dati di uno studio pubblicato da parte dell'European trade union institute (Etui) : prima della crisi la Germania ha abbassato gli stipendi. Dal 2010 ad oggi li ha alzati mentre il Sud del continente li ha dovuti comprimere. Colpa dei vincoli di Bruxelles, che fanno pagare il conto degli choc al lavoro.Vent'anni fa un profetico Alberto Alesina scriveva sul Corriere della Sera che «se un Paese dell'Unione subisce uno choc di domanda negativo, qualcosa deve essere mobile e flessibile: o i salari monetari, o la forza lavoro o i tassi di cambio». Dal momento che «i salari monetari sono rigidi al ribasso, la mobilità del lavoro in Europa è bassissima, l'Unione monetaria che fissa i tassi di cambio rende l'aggiustamento agli choc molto difficile». Già prima dell'introduzione della moneta unica era dunque chiaro agli economisti che, nell'impossibilità di svalutare la moneta per recuperare competitività, in certi Paesi il peso della crisi si sarebbe riversato sul lavoro, causando una compressione dei salari e disoccupazione strutturale.Uno studio appena pubblicato da parte dell'European trade union institute (Etui) fa luce sulla dinamica dei salari nel nostro continente dal 2000 a oggi. Si scopre così che nel primo decennio del nuovo millennio quasi tutti i Paesi hanno visto crescere gli stipendi. Tutti tranne uno, la Germania, nella quale i salari sono diminuiti dal 2000 al 2009 del 5,6%. Nello stesso periodo in Italia la crescita è stata del 7,4%, in Spagna dell'11,7%, in Francia dell'8,9% e in Grecia addirittura del 23,8%. Arrivata la crisi, la musica è cambiata radicalmente. Tutti i Paesi che nella prima decade avevano vissuto un incremento, nel periodo 2010-2017 sono cresciuti in misura minore oppure hanno visto crollare i salari. È il caso dei Paesi del Sud Europa: Italia (-4,3%), Spagna (-4,4%), Portogallo (-8,3%) e Grecia (-23,8%). Sono quelli che più di tutti hanno scontato la «trappola» che descriveva Alesina nel 1997. Solo un Paese è andato controcorrente. Indovinate quale? Proprio lei, la Germania, che dall'inizio del decennio a oggi ha visto aumentare i salari dell'8,3%. Negli ultimi dieci anni Berlino si è scrollata di dosso una volta per tutte l'appellativo di «malato d'Europa» e ha preso a crescere a pieno ritmo.Nel libro The Germany illusion, uno dei più influenti economisti tedeschi, Marcel Fratzscher, spiega che il miracolo del mercato del lavoro è stato il risultato di un'attenta pianificazione partita nei primi anni Duemila con il pacchetto di riforme voluto dall'allora cancelliere Gerhard Schröder. Secondo i ricercatori dell'Etui, la causa della depressione dei salari dal 2010 al 2017 va ricercata nelle riforme del mercato del lavoro introdotte durante la crisi. «Per molti Paesi un obiettivo chiave delle politiche di riforma è stato quello di spingere la flessibilità dei salari verso il basso attraverso l'indebolimento della figura del lavoratore e dei sindacati, e decentralizzare le trattative contrattuali a livello aziendale. Il risultato è stato il sistematico indebolimento o addirittura lo smantellamento di tutte le strutture negoziali che oggi avrebbero potuto supportare una maggiore crescita dei salari».Una ricetta sbagliata, come dimostra uno studio pubblicato nel 2015 dai ricercatori dell'International labour office (Ilo). «La deregolamentazione del mercato del lavoro», concludono infatti gli autori, «causa l'aumento della disoccupazione». Complice la crisi, in questi Paesi il ricorso al part time involontario aumenta vertiginosamente. Nel nostro Paese, ad esempio, questa categoria rappresenta oltre un terzo dei lavoratori, più del doppio rispetto al 2007 e più del triplo rispetto al 2004. Seppur in proporzioni diverse, il fenomeno ha interessato Grecia, Spagna, Portogallo e Francia. La Germania invece ha più che dimezzato la propria quota di part time involontari, passando dal 7,3% del 2006 al 2,8% del 2016 (dati Eurostat). «La percentuale di part time involontario è aumentato sia durante la crisi che durante la fase di ripresa», si legge nel bollettino della Bce diramato giovedì, che all'argomento ha dedicato un apposito focus. «Nonostante il fenomeno abbia subìto di recente un calo, rimane sopra i livelli precrisi sia in Italia che in Spagna, mentre è ben al di sotto in Germania».Dopo il jobs act italiano, i cui eventuali effetti positivi devono ancora vedersi, e il caso della Spagna, che nel 2012 ha allentato le restrizioni sui licenziamenti e permesso di concludere molti negoziati a livello aziendale, negli ultimi mesi è stata la volta della Francia. Anche in questo caso, licenziamenti più facili con indennizzi più contenuti, ruolo dei sindacati fortemente ridimensionato e contrattazione spostata in azienda.Dopo il varo della riforma, grandi aziende del calibro di Psa (il gruppo automobilistico a cui appartengono i marchi Peugeot, Citroen e Opel), Carrefour e Pimkie hanno annunciato un'ondata di licenziamenti. Il disagio sociale è uno dei motivi che ha causato il crollo del tasso di gradimento del presidente Emmanuel Macron, sceso negli ultimi sondaggi di marzo al 40%, in calo di dodici punti rispetto alla fine del 2017. Ma nemmeno in Germania è tutto oro quello che luccica. «L'economia va bene, ma la più grande preoccupazione adesso è rivolta alle persone che sono rimaste indietro», ha spiegato Fratzscher al Financial Times.Secondo le ultime rilevazioni, quasi un tedesco su cinque (19,7%) è a rischio di povertà o esclusione sociale. La scorsa settimana il giovane ministro del Welfare, Jens Spahn, ha dichiarato che i cittadini destinatari del sussidio «Hartz IV» in realtà non sono veri e propri poveri, ma possiedono tutto ciò che serve per vivere dignitosamente. Parole che hanno infiammato il dibattito in corso in Germania sulle crescenti disuguaglianze, tanto da spingere l'ex ministro del Lavoro, Norbert Blüm, ad accusare Spahn di essere «senza cuore».