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2019-06-21
Il governo bussa a soldi per negoziare con la Ue
Ansa
Le sei pagine di risposta a Bruxelles nel tentativo di evitare la procedura d'infrazione sui conti sono arrivate a destinazione. La Commissione si prenderà un po' di tempo. Intanto vanno avanti le manovre per la gestione delle prossime nomine europee e le mosse romane per riempire di contenuti lo scheletro della lettera che di per sé raccoglie pochissimi numeri. Nel testo il premier Giuseppe Conte ribadisce la volontà di cambiare le regole dall'interno e di perseguire un miglioramento dei parametri, pur sempre all'interno delle decisioni politiche.
«È possibile prevedere per l'anno in corso un saldo di bilancio sensibilmente migliore rispetto alle previsioni della Commissione e dello stesso governo italiano nel Programma di stabilità. Mi limito qui ad anticipare che la ragione fondamentale dell'andamento positivo dei saldi di bilancio risiede nella prudenza alla quale sono state ispirate le nostre previsioni per le entrate e le uscite di bilancio», si legge nel testo della lettera. «Constatiamo con soddisfazione che, anche grazie alle misure adottate per accrescere la fedeltà fiscale, le entrate sono migliori del previsto. Parimenti registriamo, per le spese, una dinamica più moderata di quella originariamente previste», conferma il premier. In pratica il saldo strutturale si ridurrà di 0,2 punti percentuali per via delle minori spesi legate al reddito di cittadinanza e all'intervento sul sistema pensionistico di quota 100. Al tempo stesso Conte anticipa la volontà di trovare altre risorse «adottando una politica di bilancio finalizzata a coniugare il sostegno alla crescita con la riduzione del costo del debito, che oggi assorbe quasi il 3,6% del Pil», sentenzia il premier, aggiungendo che «l'equilibrio dei conti è certamente un punto cardine della complessiva architettura economica e finanziaria europea. Vero è che non può essere il fine di questa nostra architettura e, soprattutto, non può costituire l'unico parametro di riferimento di qualsiasi misura di politica economica e sociale».
In sostanza la lettera è un grande esercizio retorico che si addice perfettamente alla figura dell'avvocato e a quella della controparte europea. Le strutture Ue adorano le promesse camuffate e i testi che vogliono dire un po' tutto e un po' niente. Basta andare a ritroso nel tempo e osservare i carteggi tra Bruxelles e Parigi. Le minacce di infrazione sono sempre state sopite spostando in là i termini di rientro nei parametri. Ieri Pierre Moscovici che rappresenta la Commissione (fronte economico) e pure la Francia ha tenuto a fare il duro e ribadire che le regole si rispettano fino in fondo: «Valutiamo tutti i nuovi elementi che il governo italiano vorrà portare ma al momento la procedura è giustificata». In realtà, l'uscita rientra nella solita commedia. Ciò che invece manca per terminare il canovaccio della trattativa Stato-Ue e salvare capra e cavoli (vale per Conte e pure per Bruxelles) è forse un paio di miliardi di euro. Sempre che Lega o 5 stelle nei prossimi giorni alzino ancora più la posta con flat tax e salario minimo.
Di sicuro, a oggi, la minore spesa relativa al reddito di cittadinanza e a quota 100 non basta per far quadrare i conti. Si tratta di un miliardo. Nella lettera il premier ribadisce che senza interventi l'Iva salirà, al tempo stesso menziona il Parlamento e la volontà di non far scattare le clausole di salvaguardia. Per cui il Tesoro sembra aver avviato un recupero forzoso di risorse tramite le quali Conte possa negoziare meglio. Innanzitutto, come La Verità ha già potuto calcolare gli interventi relativi al mondo delle partite Iva dovrebbero garantire per l'anno in corso un extragettito di almeno 1,5 miliardi. Infatti dall'introduzione della fatturazione elettronica la legge Finanziaria (applicando i parametri ereditati dal governo Gentiloni) aveva previsto due miliardi di ritorni. Se sommiamo anche i nuovi adempimenti sul medesimo regime fiscale, compreso l'esterometro, a fine anno si dovrebbe arrivare a 3,5 miliardi in più. La differenza rispetto ai due miliardi calcolati a bilancio potrebbe essere utilizzata ad abbattere un'altra fetta di deficit. Ma la ricerca sembra essere ancora più affannosa.
Ieri il Tesoro ha preso carta e penna e ha scritto alla controllata Cdp per chiedere un extra versamento da un miliardo. Lo scorso 23 maggio si è tenuta l'assemblea. In totale accordo con l'azionista di riferimento 1,5 miliardi sono stati destinati per i dividendi, mentre 963 milioni di euro, sempre provenienti dalla voce «utile», sono stati portati a nuovo per il prossimo bilancio. Ieri 959 dei 963 sono stati ridistribuiti agli azionisti. Che significa 800 milioni al Tesoro e il rimanente alle Fondazioni, titolari di una quota di minoranza. Contante fresco che finisce diritto nella trattativa Ue. Perché è chiaro che tra il 23 maggio e ieri l'evento esterno che ha fatto cambiare idea al Tesoro (dunque al governo) è solo il braccio di ferro con l'Ue. Resta da capire a quali altre porte il governo voglia bussare per reperire risorse. Solo che con le partecipate quotate non si può fare lo stesso giochino destinato alla Cdp. E la cessione degli immobili non è un partita veloce da gestire. Sicuramente i due miliardi destinati nel 2018 ai ministeri resteranno congelati ancora a lungo, ma sul tavolo di Giovanni Tria c'è sempre la proposta di banca Intesa di avviare fondi immobiliari territoriali. Sarebbe un'operazione win-win. Vincerebbe il Tesoro e sicuramente anche Intesa.
Al suk delle poltrone Macron intralcia i piani della Merkel. Weber è in bilico
Doveva essere una partita a 28 (tanti sono gli Stati membri dell'Ue), e invece la partita relativa alle nomine per i «top jobs», le più alte cariche delle istituzioni europee, si è trasformata in un derby tra Francia e Germania. L'iniziale ottimismo per la riunione del Consiglio dell'Unione europea in programma ieri e oggi a Bruxelles è andato via via scemando nel corso della giornata. Nel primo pomeriggio, la cancelliera tedesca Angela Merkel aveva messo le mani avanti: «Può essere che oggi non troveremo una soluzione». Pur definendo «non pericolosa» l'eventualità di uscire dal vertice senza un accordo, la leader tedesca definiva «non accettabile» portare avanti una proposta «che sia poi respinta dagli eurodeputati». Poco dopo, su Twitter il presidente del Consiglio Donald Tusk pubblicava una foto con Emmanuel Macron e Angela Merkel, lasciandosi andare a un commento poco speranzoso: «Ultimo giro di consultazioni prima dell'inizio del Consiglio dell'Unione europea. Ieri ero cautamente ottimista. Oggi sono più cauto che ottimista».
Tutta colpa del presidente francese, seriamente intenzionato a bloccare la candidatura del tedesco Manfred Weber a capo della Commissione europea, ma anche di una ormai debolissima Angela Merkel. Weber, appena rieletto alla presidenza del Ppe, può vantare l'investitura a Spitzenkandidat (letteralmente «candidato di punta»), ossia l'esponente destinato a ricoprire l'incarico di presidente della Commissione in caso di vittoria del proprio partito. «La discussione intorno allo Spitzenkandidat non è un capriccio», ha precisato ieri pomeriggio in conferenza stampa il presidente uscente dell'assemblea Antonio Tajani, «ma è al cuore del Parlamento europeo, si tratta di una questione di democrazia e trasparenza». Della stessa idea anche il premier portoghese Antonio Costa. Peccato però che questo meccanismo, pur essendo stato ufficializzato, in realtà non comporti alcuni vincolo per i deputati né per gli Stati membri.
Questo con buona pace della risoluzione approvata a febbraio del 2018 nella quale si annunciava che il Parlamento europeo avrebbe respinto «qualsiasi candidato a presidente della Commissione che non sia stato nominato “candidato principale" dai partiti europei prima delle elezioni del 2019». E infatti proprio ieri i due gruppi più importanti a livello numeri dietro al Ppe (179 seggi), ovvero socialisti (153) e liberali (106), hanno dichiarato apertamente che non sosterranno la candidatura di Manfred Weber al vertice di Bruxelles. Un'analoga decisione è attesa anche da parte del gruppo dei Verdi. Senza il supporto di queste tre formazioni, Weber è matematicamente fuori dai giochi per la presidenza della Commissione. Nemmeno sommando i voti di popolari, Identità e democrazia (il nuovo gruppo sovranista che ha raccolto l'eredità dell'Enf), Conservatori e riformisti ed Europa della libertà e della democrazia diretta, infatti, il politico tedesco può aspirare a raggiungere l'obiettivo. Una situazione che finisce anche per bocciare senza possibilità la procedura dello Spitzenkandidat, a questo punto destinata con tutta probabilità a tramontare definitivamente già dalla prossima legislatura.
Macron ripete ai suoi da settimane che alla guida della Commissione serve un candidato forte. Concetto intorno al quale è riuscito a convogliare i tre gruppi alternativi ai popolari, grazie anche all'asse con il presidente spagnolo Pedro Sanchez con il quale ha avuto un incontro ieri in mattinata. Non bisogna dimenticare che gli iberici contribuiscono al gruppo dei socialisti con 20 seggi, rappresentando così la pattuglia interna al gruppo più nutrita. Tacita poi l'intesa con il Pd (19 seggi), come dimostrano le liste a «porte girevoli» con i francesi di En marche. Un altro storico oppositore di Weber è il premier ungherese Viktor Orban, il quale seppure lontano politicamente da Macron è intenzionato a vendicarsi nei confronti del Ppe che negli ultimi lo ha messo ai margini.
Ma qual è la vera ragione che ha spinto il presidente francese a indebolire un sistema che sembrava ormai collaudato? Il massimo per Macron sarebbe piazzare un connazionale alla presidenza della Commissione. Si fa da tempo il nome di Michel Barnier, tre mandati come commissario europeo alle spalle prima di essere nominato capo dei negoziati per la Brexit. Una nomina simbolica, quasi a rappresentare la nuova pagina che si apre per l'Ue una volta che il Regno Unito andrà incontro al proprio destino. L'inquilino dell'Eliseo si potrebbe accontentare anche della liberale Margrethe Vestager, la cui elezione farebbe contento chi auspica un'alternanza di genere. Nel suk dei «top jobs» europei si potrebbe infine ipotizzare anche uno scambio: un tedesco alla presidenza della Commissione (non Weber, però) per un francese al vertice della Bce (Francois Villeroy de Galhau, oggi a capo della Banca di Francia).
Insomma trattative serratissime, che sono andate avanti durante la cena blindatissima (a cellulari rigorosamente spenti). Oggi vedremo se la notte avrà portato una rosa di nomi. Altrimenti, il rischio è un rinvio a un'altra riunione all'inizio di luglio.
Rivoluzione delle nomine Bankitalia. Piano gialloblù sul modello tedesco
L'idea è quella di avere vertici di Bankitalia dalle nomine più equilibrate, con metà dei membri di nomina governativa e l'altra metà eletta dal Parlamento.
Questo è il concetto alla base del progetto di legge presentato in Senato da Lega e Movimento 5 stelle che vuole cambiare le regole con cui vengono scelti i responsabili nella stanza dei bottoni di Via Nazionale.
Ad oggi il governatore viene scelto su proposta del premier che sente «il parere del consiglio superiore di Bankitalia», mentre i dg e i loro vice vengono scelti direttamente dal Consiglio dei ministri.
Con il ddl 1332, invece, il governatore, il direttore generale e uno dei vice direttori generali verrebbero scelti su proposta del presidente del Consiglio dei ministri e previa deliberazione del Consiglio dei ministri, mentre altri due vice dg sarebbero eletti a scrutinio segreto uno dalla Camera e uno dal Senato.
Come spiega l'agenzia di stampa Reuters, «il testo della proposta di legge sulla riforma di Bankitalia è firmato dai capigruppo di maggioranza, Massimiliano Romeo (Lega) e Stefano Patuanelli (M5s), ma il vero ispiratore dell'iniziativa è il senatore e presidente leghista della commissione Finanze Alberto Bagnai, secondo quanto spiegano fonti parlamentari».
Del resto Bagnai non ha mai fatto mistero di desiderare una rivoluzione ai piani alti della Banca d'Italia. In un'intervista rilasciata di recente al vicedirettore della Verità Martino Cervo, Bagnai aveva già ribadito la necessità di portare avanti «il disegno di legge Patuanelli-Romeo sulla riforma della governance della Banca d'Italia, una vera riforma strutturale, fra le tante necessarie per adeguare il Paese agli standard europei».
Bagnai in più occasione ha fatto sapere che c'era la necessità di avere un sistema di nomine «meno autoreferenziale» e più allineato agli «standard europei».
L'economista aveva fatto notare come il «nostro sistema somiglia solo a quello della Grecia, dove la selezione del direttorio viene fatta solo affidandosi a organismi interni». E invece «nel ddl depositato in commissione si prevede una riforma sul modello della Bundesbank», la banca centrale tedesca.
Nella relazione che accompagna il ddl 1332, c'è scritto che l'obiettivo «è evitare che attraverso l'indipendenza [della banca centrale] si possa esulare dal sistema di bilanciamento e controllo dei poteri tipico delle democrazie liberali».
Per questo, come spiega l'articolo 1 del disegno di legge, è previsto che le «modifiche dello statuto della Banca d'Italia siano approvate con legge del Parlamento, nel rispetto dell'indipendenza richiesta dalla normativa comunitaria. La legge attuale prevede invece che le modifiche siano deliberate dall'assemblea straordinaria dei partecipanti al capitale di Bankitalia».
Secondo quanto propone il testo Romeo-Patuanelli, inoltre, «i membri del direttorio, aventi cittadinanza italiana e comprovate qualifiche, sono individuati tra dipendenti di Banca d'Italia, professori universitari ordinari di materie economiche o giuridiche o personalità dotate di alta e riconosciuta esperienza in settori economici o organi costituzionali».
Insomma, l'idea di Bagnai e, più in generale di Lega e Movimento 5 stelle, è che la prima linea dei vertici della Banca d'Italia sia costituita dall'esecutivo e non per scelta di un consiglio interno a Via Nazionale.
Ora non resta che attendere che il ddl faccia il suo corso. Se tutto andrà come deve, il nuovo statuto della Banca d'Italia dovrebbe entrare in vigore il giorno successivo a quello di pubblicazione della legge in Gazzetta ufficiale.
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Chiesto 1 miliardo a Cdp. Giuseppe Conte: «I nostri conti meglio del previsto». Pierre Moscovici: «Dovete rispettare le regole».Tutto aperto per il dopo Juncker. Pse, liberali e verdi isolano il Ppe. Saltano gli «spitzenkandidat». Verso un nuovo summit.Nomine Bankitalia: ddl di Lega e 5 stelle. Via Nazionale esclusa dalla scelta dei vertici, come la Bundesbank.Lo speciale contiene tre articoli.Le sei pagine di risposta a Bruxelles nel tentativo di evitare la procedura d'infrazione sui conti sono arrivate a destinazione. La Commissione si prenderà un po' di tempo. Intanto vanno avanti le manovre per la gestione delle prossime nomine europee e le mosse romane per riempire di contenuti lo scheletro della lettera che di per sé raccoglie pochissimi numeri. Nel testo il premier Giuseppe Conte ribadisce la volontà di cambiare le regole dall'interno e di perseguire un miglioramento dei parametri, pur sempre all'interno delle decisioni politiche. «È possibile prevedere per l'anno in corso un saldo di bilancio sensibilmente migliore rispetto alle previsioni della Commissione e dello stesso governo italiano nel Programma di stabilità. Mi limito qui ad anticipare che la ragione fondamentale dell'andamento positivo dei saldi di bilancio risiede nella prudenza alla quale sono state ispirate le nostre previsioni per le entrate e le uscite di bilancio», si legge nel testo della lettera. «Constatiamo con soddisfazione che, anche grazie alle misure adottate per accrescere la fedeltà fiscale, le entrate sono migliori del previsto. Parimenti registriamo, per le spese, una dinamica più moderata di quella originariamente previste», conferma il premier. In pratica il saldo strutturale si ridurrà di 0,2 punti percentuali per via delle minori spesi legate al reddito di cittadinanza e all'intervento sul sistema pensionistico di quota 100. Al tempo stesso Conte anticipa la volontà di trovare altre risorse «adottando una politica di bilancio finalizzata a coniugare il sostegno alla crescita con la riduzione del costo del debito, che oggi assorbe quasi il 3,6% del Pil», sentenzia il premier, aggiungendo che «l'equilibrio dei conti è certamente un punto cardine della complessiva architettura economica e finanziaria europea. Vero è che non può essere il fine di questa nostra architettura e, soprattutto, non può costituire l'unico parametro di riferimento di qualsiasi misura di politica economica e sociale». In sostanza la lettera è un grande esercizio retorico che si addice perfettamente alla figura dell'avvocato e a quella della controparte europea. Le strutture Ue adorano le promesse camuffate e i testi che vogliono dire un po' tutto e un po' niente. Basta andare a ritroso nel tempo e osservare i carteggi tra Bruxelles e Parigi. Le minacce di infrazione sono sempre state sopite spostando in là i termini di rientro nei parametri. Ieri Pierre Moscovici che rappresenta la Commissione (fronte economico) e pure la Francia ha tenuto a fare il duro e ribadire che le regole si rispettano fino in fondo: «Valutiamo tutti i nuovi elementi che il governo italiano vorrà portare ma al momento la procedura è giustificata». In realtà, l'uscita rientra nella solita commedia. Ciò che invece manca per terminare il canovaccio della trattativa Stato-Ue e salvare capra e cavoli (vale per Conte e pure per Bruxelles) è forse un paio di miliardi di euro. Sempre che Lega o 5 stelle nei prossimi giorni alzino ancora più la posta con flat tax e salario minimo.Di sicuro, a oggi, la minore spesa relativa al reddito di cittadinanza e a quota 100 non basta per far quadrare i conti. Si tratta di un miliardo. Nella lettera il premier ribadisce che senza interventi l'Iva salirà, al tempo stesso menziona il Parlamento e la volontà di non far scattare le clausole di salvaguardia. Per cui il Tesoro sembra aver avviato un recupero forzoso di risorse tramite le quali Conte possa negoziare meglio. Innanzitutto, come La Verità ha già potuto calcolare gli interventi relativi al mondo delle partite Iva dovrebbero garantire per l'anno in corso un extragettito di almeno 1,5 miliardi. Infatti dall'introduzione della fatturazione elettronica la legge Finanziaria (applicando i parametri ereditati dal governo Gentiloni) aveva previsto due miliardi di ritorni. Se sommiamo anche i nuovi adempimenti sul medesimo regime fiscale, compreso l'esterometro, a fine anno si dovrebbe arrivare a 3,5 miliardi in più. La differenza rispetto ai due miliardi calcolati a bilancio potrebbe essere utilizzata ad abbattere un'altra fetta di deficit. Ma la ricerca sembra essere ancora più affannosa. Ieri il Tesoro ha preso carta e penna e ha scritto alla controllata Cdp per chiedere un extra versamento da un miliardo. Lo scorso 23 maggio si è tenuta l'assemblea. In totale accordo con l'azionista di riferimento 1,5 miliardi sono stati destinati per i dividendi, mentre 963 milioni di euro, sempre provenienti dalla voce «utile», sono stati portati a nuovo per il prossimo bilancio. Ieri 959 dei 963 sono stati ridistribuiti agli azionisti. Che significa 800 milioni al Tesoro e il rimanente alle Fondazioni, titolari di una quota di minoranza. Contante fresco che finisce diritto nella trattativa Ue. Perché è chiaro che tra il 23 maggio e ieri l'evento esterno che ha fatto cambiare idea al Tesoro (dunque al governo) è solo il braccio di ferro con l'Ue. Resta da capire a quali altre porte il governo voglia bussare per reperire risorse. Solo che con le partecipate quotate non si può fare lo stesso giochino destinato alla Cdp. E la cessione degli immobili non è un partita veloce da gestire. Sicuramente i due miliardi destinati nel 2018 ai ministeri resteranno congelati ancora a lungo, ma sul tavolo di Giovanni Tria c'è sempre la proposta di banca Intesa di avviare fondi immobiliari territoriali. Sarebbe un'operazione win-win. Vincerebbe il Tesoro e sicuramente anche Intesa. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/conte-negozia-a-suon-di-contanti-e-tria-chiede-1-miliardo-extra-a-cdp-2638936449.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="al-suk-delle-poltrone-macron-intralcia-i-piani-della-merkel-weber-e-in-bilico" data-post-id="2638936449" data-published-at="1765493298" data-use-pagination="False"> Al suk delle poltrone Macron intralcia i piani della Merkel. Weber è in bilico Doveva essere una partita a 28 (tanti sono gli Stati membri dell'Ue), e invece la partita relativa alle nomine per i «top jobs», le più alte cariche delle istituzioni europee, si è trasformata in un derby tra Francia e Germania. L'iniziale ottimismo per la riunione del Consiglio dell'Unione europea in programma ieri e oggi a Bruxelles è andato via via scemando nel corso della giornata. Nel primo pomeriggio, la cancelliera tedesca Angela Merkel aveva messo le mani avanti: «Può essere che oggi non troveremo una soluzione». Pur definendo «non pericolosa» l'eventualità di uscire dal vertice senza un accordo, la leader tedesca definiva «non accettabile» portare avanti una proposta «che sia poi respinta dagli eurodeputati». Poco dopo, su Twitter il presidente del Consiglio Donald Tusk pubblicava una foto con Emmanuel Macron e Angela Merkel, lasciandosi andare a un commento poco speranzoso: «Ultimo giro di consultazioni prima dell'inizio del Consiglio dell'Unione europea. Ieri ero cautamente ottimista. Oggi sono più cauto che ottimista». Tutta colpa del presidente francese, seriamente intenzionato a bloccare la candidatura del tedesco Manfred Weber a capo della Commissione europea, ma anche di una ormai debolissima Angela Merkel. Weber, appena rieletto alla presidenza del Ppe, può vantare l'investitura a Spitzenkandidat (letteralmente «candidato di punta»), ossia l'esponente destinato a ricoprire l'incarico di presidente della Commissione in caso di vittoria del proprio partito. «La discussione intorno allo Spitzenkandidat non è un capriccio», ha precisato ieri pomeriggio in conferenza stampa il presidente uscente dell'assemblea Antonio Tajani, «ma è al cuore del Parlamento europeo, si tratta di una questione di democrazia e trasparenza». Della stessa idea anche il premier portoghese Antonio Costa. Peccato però che questo meccanismo, pur essendo stato ufficializzato, in realtà non comporti alcuni vincolo per i deputati né per gli Stati membri. Questo con buona pace della risoluzione approvata a febbraio del 2018 nella quale si annunciava che il Parlamento europeo avrebbe respinto «qualsiasi candidato a presidente della Commissione che non sia stato nominato “candidato principale" dai partiti europei prima delle elezioni del 2019». E infatti proprio ieri i due gruppi più importanti a livello numeri dietro al Ppe (179 seggi), ovvero socialisti (153) e liberali (106), hanno dichiarato apertamente che non sosterranno la candidatura di Manfred Weber al vertice di Bruxelles. Un'analoga decisione è attesa anche da parte del gruppo dei Verdi. Senza il supporto di queste tre formazioni, Weber è matematicamente fuori dai giochi per la presidenza della Commissione. Nemmeno sommando i voti di popolari, Identità e democrazia (il nuovo gruppo sovranista che ha raccolto l'eredità dell'Enf), Conservatori e riformisti ed Europa della libertà e della democrazia diretta, infatti, il politico tedesco può aspirare a raggiungere l'obiettivo. Una situazione che finisce anche per bocciare senza possibilità la procedura dello Spitzenkandidat, a questo punto destinata con tutta probabilità a tramontare definitivamente già dalla prossima legislatura. Macron ripete ai suoi da settimane che alla guida della Commissione serve un candidato forte. Concetto intorno al quale è riuscito a convogliare i tre gruppi alternativi ai popolari, grazie anche all'asse con il presidente spagnolo Pedro Sanchez con il quale ha avuto un incontro ieri in mattinata. Non bisogna dimenticare che gli iberici contribuiscono al gruppo dei socialisti con 20 seggi, rappresentando così la pattuglia interna al gruppo più nutrita. Tacita poi l'intesa con il Pd (19 seggi), come dimostrano le liste a «porte girevoli» con i francesi di En marche. Un altro storico oppositore di Weber è il premier ungherese Viktor Orban, il quale seppure lontano politicamente da Macron è intenzionato a vendicarsi nei confronti del Ppe che negli ultimi lo ha messo ai margini. Ma qual è la vera ragione che ha spinto il presidente francese a indebolire un sistema che sembrava ormai collaudato? Il massimo per Macron sarebbe piazzare un connazionale alla presidenza della Commissione. Si fa da tempo il nome di Michel Barnier, tre mandati come commissario europeo alle spalle prima di essere nominato capo dei negoziati per la Brexit. Una nomina simbolica, quasi a rappresentare la nuova pagina che si apre per l'Ue una volta che il Regno Unito andrà incontro al proprio destino. L'inquilino dell'Eliseo si potrebbe accontentare anche della liberale Margrethe Vestager, la cui elezione farebbe contento chi auspica un'alternanza di genere. Nel suk dei «top jobs» europei si potrebbe infine ipotizzare anche uno scambio: un tedesco alla presidenza della Commissione (non Weber, però) per un francese al vertice della Bce (Francois Villeroy de Galhau, oggi a capo della Banca di Francia). Insomma trattative serratissime, che sono andate avanti durante la cena blindatissima (a cellulari rigorosamente spenti). Oggi vedremo se la notte avrà portato una rosa di nomi. Altrimenti, il rischio è un rinvio a un'altra riunione all'inizio di luglio. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/conte-negozia-a-suon-di-contanti-e-tria-chiede-1-miliardo-extra-a-cdp-2638936449.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="rivoluzione-delle-nomine-bankitalia-piano-gialloblu-sul-modello-tedesco" data-post-id="2638936449" data-published-at="1765493298" data-use-pagination="False"> Rivoluzione delle nomine Bankitalia. Piano gialloblù sul modello tedesco L'idea è quella di avere vertici di Bankitalia dalle nomine più equilibrate, con metà dei membri di nomina governativa e l'altra metà eletta dal Parlamento. Questo è il concetto alla base del progetto di legge presentato in Senato da Lega e Movimento 5 stelle che vuole cambiare le regole con cui vengono scelti i responsabili nella stanza dei bottoni di Via Nazionale. Ad oggi il governatore viene scelto su proposta del premier che sente «il parere del consiglio superiore di Bankitalia», mentre i dg e i loro vice vengono scelti direttamente dal Consiglio dei ministri. Con il ddl 1332, invece, il governatore, il direttore generale e uno dei vice direttori generali verrebbero scelti su proposta del presidente del Consiglio dei ministri e previa deliberazione del Consiglio dei ministri, mentre altri due vice dg sarebbero eletti a scrutinio segreto uno dalla Camera e uno dal Senato. Come spiega l'agenzia di stampa Reuters, «il testo della proposta di legge sulla riforma di Bankitalia è firmato dai capigruppo di maggioranza, Massimiliano Romeo (Lega) e Stefano Patuanelli (M5s), ma il vero ispiratore dell'iniziativa è il senatore e presidente leghista della commissione Finanze Alberto Bagnai, secondo quanto spiegano fonti parlamentari». Del resto Bagnai non ha mai fatto mistero di desiderare una rivoluzione ai piani alti della Banca d'Italia. In un'intervista rilasciata di recente al vicedirettore della Verità Martino Cervo, Bagnai aveva già ribadito la necessità di portare avanti «il disegno di legge Patuanelli-Romeo sulla riforma della governance della Banca d'Italia, una vera riforma strutturale, fra le tante necessarie per adeguare il Paese agli standard europei». Bagnai in più occasione ha fatto sapere che c'era la necessità di avere un sistema di nomine «meno autoreferenziale» e più allineato agli «standard europei». L'economista aveva fatto notare come il «nostro sistema somiglia solo a quello della Grecia, dove la selezione del direttorio viene fatta solo affidandosi a organismi interni». E invece «nel ddl depositato in commissione si prevede una riforma sul modello della Bundesbank», la banca centrale tedesca. Nella relazione che accompagna il ddl 1332, c'è scritto che l'obiettivo «è evitare che attraverso l'indipendenza [della banca centrale] si possa esulare dal sistema di bilanciamento e controllo dei poteri tipico delle democrazie liberali». Per questo, come spiega l'articolo 1 del disegno di legge, è previsto che le «modifiche dello statuto della Banca d'Italia siano approvate con legge del Parlamento, nel rispetto dell'indipendenza richiesta dalla normativa comunitaria. La legge attuale prevede invece che le modifiche siano deliberate dall'assemblea straordinaria dei partecipanti al capitale di Bankitalia». Secondo quanto propone il testo Romeo-Patuanelli, inoltre, «i membri del direttorio, aventi cittadinanza italiana e comprovate qualifiche, sono individuati tra dipendenti di Banca d'Italia, professori universitari ordinari di materie economiche o giuridiche o personalità dotate di alta e riconosciuta esperienza in settori economici o organi costituzionali». Insomma, l'idea di Bagnai e, più in generale di Lega e Movimento 5 stelle, è che la prima linea dei vertici della Banca d'Italia sia costituita dall'esecutivo e non per scelta di un consiglio interno a Via Nazionale. Ora non resta che attendere che il ddl faccia il suo corso. Se tutto andrà come deve, il nuovo statuto della Banca d'Italia dovrebbe entrare in vigore il giorno successivo a quello di pubblicazione della legge in Gazzetta ufficiale.
Il motore è un modello di ricavi sempre più orientato ai servizi: «La crescita facile basata sulla forbice degli interessi sta inevitabilmente assottigliandosi, con il margine di interesse aggregato in calo del 5,6% nei primi nove mesi del 2025», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «Il settore ha saputo, però, compensare questa dinamica spingendo sul secondo pilastro dei ricavi, le commissioni nette, che sono cresciute del 5,9% nello stesso periodo, grazie soprattutto alla focalizzazione su gestione patrimoniale e bancassurance».
La crescita delle commissioni riflette un’evoluzione strutturale: le banche agiscono sempre più come collocatori di prodotti finanziari e assicurativi. «Questo modello, se da un lato genera profitti elevati e stabili per gli istituti con minori vincoli di capitale e minor rischio di credito rispetto ai prestiti, dall’altro espone una criticità strutturale per i risparmiatori», dice Gaziano. «L’Italia è, infatti, il mercato in Europa in cui il risparmio gestito è il più caro», ricorda. Ne deriva una redditività meno dipendente dal credito, ma con un tema di costo per i clienti. La «corsa turbo» agli utili ha riacceso il dibattito sugli extra-profitti. In Italia, la legge di bilancio chiede un contributo al settore con formule che evitano una nuova tassa esplicita.
«È un dato di fatto che il governo italiano stia cercando una soluzione morbida per incassare liquidità da un settore in forte attivo, mentre in altri Paesi europei si discute apertamente di tassare questi extra-profitti in modo più deciso», dice l’esperto. «Ad esempio, in Polonia il governo ha recentemente aumentato le tasse sulle banche per finanziare le spese per la Difesa. È curioso notare come, alla fine, i governi preferiscano accontentarsi di un contributo una tantum da parte delle banche, piuttosto che intervenire sulle dinamiche che generano questi profitti che ricadono direttamente sui risparmiatori».
Come spiega David Benamou, responsabile investimenti di Axiom alternative investments, «le banche italiane rimangono interessanti grazie ai solidi coefficienti patrimoniali (Cet1 medio superiore al 15%), alle generose distribuzioni agli azionisti (riacquisti di azioni proprie e dividendi che offrono rendimenti del 9-10%) e al consolidamento in corso che rafforza i gruppi leader, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il settore in Italia potrebbe sovraperformare il mercato azionario in generale se le valutazioni rimarranno basse. Non mancano, tuttavia, rischi come un moderato aumento dei crediti in sofferenza o gli choc geopolitici, che smorzano l’ottimismo».
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Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
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Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
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