Botte e insulti (con condanne in Tribunale) tra sindacalisti. Succede anche a questo a Genova, in un periodo in cui la città fibrilla per il rischio chiusura dell’acciaieria ex Ilva di Cornigliano. Il segretario generale della Uilm Luigi Pinasco e tre colleghi, ieri, sono stati presi a calci e pugni da una ventina di persone con la felpa rosso-nera della Fiom. È successo a Genova, di mattina presto. Una scena che ricorda una delle tante cronache di giornata sui maranza o sugli ultrà. Non quelle che riguardano chi dovrebbe tutelare i diritti dei lavoratori. Due persone sono finite in ospedale. Perché? Per la mancata adesione della Uilm allo sciopero generale dei metalmeccanici genovesi sulla vertenza ex Ilva. I colpevoli sono i «militanti di Lotta comunista che vogliono avere l’egemonia all’interno della Fiom», accusa il segretario generale della Uil Liguria, Riccardo Serri, in una conferenza stampa nel pomeriggio.
«Sono stati circondati dopo che il segretario della Fiom ha incitato i nostri segretari e delegati ad andare via», continua Serri, «una violenza gravissima che dev’essere condannata, ma ad ora non abbiamo ricevuto nemmeno un segno di solidarietà da parte della Cgil, anzi abbiamo visto le dichiarazioni di Maurizio Landini e Michele De Palma che non condannano ma sostengono che i nostri iscritti non dovevano presentarsi all’ingresso dell’ex Ilva». Una cosa grave. «C’è una responsabilità morale di chi continua a non condannare l’aggressione» ha aggiunto il leader della Uilm ligure. «Se non c’è una condanna vuol dire che c’è una strategia dietro come noi pensiamo, una strategia di essere i primi, di predominare, di fare solo confusione, una strategia della violenza».
La mancata solidarietà tuttavia deriverebbe proprio dal problema denunciato da Serri, ovvero che Lotta comunista sta prendendo piede all’interno delle tute blu della Cgil e che Landini non possa condannare per evitare che si scopra l’indicibile: il segretario generale del sindacato principale italiano non controlla i metalmeccanici di Genova. Non proprio una bella figura per un leader che viene proprio dalla Fiom.
Lotta comunista nasce nel 1965 a Genova, messa in piedi da Arrigo Cervetto e Lorenzo Parodi, ex militanti dell’area anarchica e libertaria, poi approdati al leninismo. Il riferimento è esplicito: Marx, Engels e Lenin come cassetta degli attrezzi teorica, il partito bolscevico come modello organizzativo. Ma senza avventure armate: a differenza di altri gruppi extraparlamentari, Lotta comunista non ha mai appoggiato l’uso della P38, sostenendo che «la rivoluzione non può effettuarsi senza la crisi del capitalismo a livello globale». La linea è costruire un partito leninista nelle aree industriali chiave (Genova e il triangolo del Nord) e farlo con una macchina militante e un giornale omonimo, pubblicato ininterrottamente dal 1965 e autofinanziato. Dalle cronache recenti si evince, però, che ad alcuni suoi militanti prudono le mani: il 23 maggio 2024 un gruppo di militanti ha aggredito alcuni studenti accampati alla Sapienza di Roma, in protesta contro la rettrice e gli accordi con le università israeliane. Una contraddizione vistosa per chi, per decenni, ha rivendicato rigore teorico e disciplina politica.
Per Landini tuttavia non c’è solo la grana «tute blu». Il 15 aprile scorso, a Sestri Ponente, il sindacalista della Fillea, Fabiano Mura, denunciò un’aggressione fascista, scatenando cortei, solidarietà politica e titoli indignati. Le indagini della Digos, però, hanno smontato pezzo per pezzo il suo racconto: orari incompatibili, auto ferma in garage, nessuna fuga, niente pestaggio. Mura ha ammesso in Procura di aver inventato tutto ed è finito indagato per simulazione di reato. Un mese fa il giudice lo ha ammesso alla prova e il sindacalista ha evitato il processo. Resta la figuraccia, che il sindacato finge di non vedere. Imbarazzo anche alla Filcams, la sigla che raduna i lavoratori del commercio, del turismo e dei servizi, dove non tira una bella aria. Per circa quattro mesi l’ex segretario organizzativo della Filcams locale è stato preso di mira su una chat di gruppo da alcuni colleghi. Un crescendo di insulti e attacchi personali, un vero e proprio body shaming, che il poveretto ha provato a interrompere rappresentando la questione ai piani alti della Cgil a Roma e scrivendo direttamente a Landini. Senza ottenere soddisfazione.
La vittima ha raccontato al Secolo XIX: «Confidavo nel fatto di poter lavare i panni sporchi in casa, ma non è stato possibile. Una realtà come la nostra, che giustamente condanna certi comportamenti nelle aziende, dovrebbe risolvere questo genere di comportamenti al proprio interno. Eppure ho dovuto cercare giustizia altrove». Assistito dall’avvocato Antonio Rubino ha sporto denuncia contro quattro colleghi. È partito così un procedimento per diffamazione semplice che si è chiuso con il pagamento di 2.400 euro da parte dei quattro imputati. Una cifra che Mascia non ha ritenuto soddisfacente, ma il giudice di pace Rita Taglialatela sì e per questo ha dichiarato l’estinzione del reato «per intervenuta riparazione del danno», una soluzione prevista dalla Riforma Cartabia. «La questione economica per me non è importante» ha spiegato Mascia, in pensione dopo quarant’anni di impegno sindacale. «Avevo già chiesto loro le scuse su quella chat e non sono arrivate. A questo punto continuerò a portare avanti la mia battaglia con una causa civile».
Mascia aveva denunciato presunte problematiche interne alla Filcams genovese e dall’agosto del 2021 era stato distaccato alla Cgil confederale genovese. Una decisione che gli aveva fatto guadagnare l’ostilità di alcuni colleghi. E così, in quel periodo di allontanamento, anche per un presunto equivoco (non aveva partecipato al funerale di un famigliare di un collega), era stato coperto di insulti nella chat a cui partecipavano una ventina di dipendenti della Filcams, ma non più lui, che così non aveva potuto replicare. Ma era stato informato di quanto stava accadendo da alcuni amici. Aveva così potuto leggere, negli screenshot ricevuti, amenità come quelle riportate nella sentenza del giudice: «Pezzo di m. puzzolente, vieni quando ci sono io»; «ti ho scorrazzato uomo di m.»; «senza palle di m.»; «sei piccolo piccolo e tinto»; «la spazzatura si accoppia con la rumenta»; «metti due cacche così ti inguai stasera dai»; «va’, dai le metto», seguito da sette emoticon raffiguranti delle feci. Un tiro al bersaglio che ha portato alla sbarra Giovanni Bucchioni, Marco Carmassi, Fabio Piccini e Patrizia Geminiani. «Il primo aprile del 2022 sono stato convocato a Roma dalla segreteria nazionale Filcams e ho esposto le problematiche che avevo sollevato e ho mostrato gli screenshot dei messaggi, spiegando che non essendo nella chat non potevo nemmeno difendermi» ha detto sempre al Secolo XIX Mascia. «Lo stesso materiale l’ho inviato anche alla segreteria nazionale della Cgil all’attenzione del segretario nazionale». L’ex sindacalista si è anche rivolto alla Commissione di garanzia Nord Ovest chiedendo un’ispezione. Inutilmente. Al punto che a maggio del 2022 sono arrivati altri insulti, questa volta da parte della Geminiani. Mascia, a questo punto, ha fatto denuncia e ha ottenuto una vittoria che ritiene parziale.
Ma la sua vicenda è servita ad aprire un altro squarcio su un ambiente, quello della Cgil genovese, che non è esagerato definire tossico.
Per il Viminale è un pericoloso estremista. Per la sinistra e la Chiesa un simbolo da difendere. Dalla Cgil al Pd, da Avs al Movimento 5 stelle, dal vescovo di Pinerolo ai rappresentanti della Chiesa valdese, un’alleanza trasversale e influente è scesa in campo a sostegno di un imam che è in attesa di essere espulso per «ragioni di sicurezza dello Stato e prevenzione del terrorismo». Un personaggio a cui, già l’8 novembre 2023, le autorità negarono la cittadinanza italiana per «ragioni di sicurezza dello Stato». Addirittura un nutrito gruppo di antagonisti, anche in suo nome, ha dato l’assalto alla redazione della Stampa. Una saldatura tra mondi diversi che non promette niente di buono.
Tutti questi signori chiedono la liberazione del quarantasettenne di origini egiziane Mohamed Shahin, nonostante sia ritenuto dai nostri investigatori un soggetto pericoloso, guida della moschea Omar Ibn Khattab di via Saluzzo, nel quartiere San Salvario di Torino, in questo momento trattenuto nel Cpr di Caltanissetta in attesa del rimpatrio nel suo Paese. Una «personalità carismatica […] guida spirituale e politica», con un uditorio ampio, in un momento «di estrema conflittualità internazionale» si legge nelle carte giudiziarie che lo riguardano.
Un clima assurdo che ieri ha avuto un inquietante epilogo: come detto, durante la manifestazione indetta dall’organizzazione sindacale Usb, un’ottantina di facinorosi legati al centro sociale antagonista Askatasuna e alle sue ramificazioni universitarie, ha sfondato l’ingresso di un bar adiacente, ha fatto irruzione nella redazione del quotidiano di Torino e ha imbrattato i muri con scritte contro il giornale, i Cpr e a sostegno di Shahin.
Quest’ultimo è arrivato nel nostro Paese nel 2004 e conosciuto nel capoluogo piemontese come figura di raccordo tra comunità musulmana e territorio, da anni è vivace animatore delle manifestazioni e dei cortei a sostegno dei diritti dei palestinesi ed è considerato un critico dichiarato del regime del presidente egiziano Abdel Fattah Al Sisi. E nonostante sia stato messo all’indice dalle nostre forze di polizia, il vescovo di Pinerolo, Derio Olivero, si è speso personalmente per difenderlo. In un video su Internet parla di «enorme ingiustizia»: «Mohamed è da 20 anni in Italia, è stato lavoratore, incensurato, ha sempre lavorato per il dialogo». Poi l’affondo: «Mi sembra strano e assurdo che ora rischi di essere espulso per delle opinioni espresse». Olivero è un fervido sostenitore del free speech (islamista): «Non possiamo condannare una persona semplicemente per le opinioni espresse». Chiede di far circolare l’appello, perché «un uomo ha diritto a difendersi e ha diritto a un regolare processo». E avverte: «L’espulsione sarebbe in un Paese in cui lui si oppone a quel regime e dunque finirebbe sicuramente in carcere e penso non solo in carcere». A Torino, intanto, la protesta è già scesa in piazza scandendo «Free Shahin». Le opposizioni urlano allo stop immediato del rimpatrio. Luigi Daniele, professore associato di diritto internazionale all’Università del Molise, paragona la vicenda a quella dell’attivista filo-palestinese arrestato a New York nel marzo scorso: «Da oggi anche l’Italia ha il suo Mahmoud Khalil». Il movimento Torino per Gaza parla di mossa politica «per fermare chi in questi anni si è mobilitato contro il genocidio». E la Cgil sostiene che sia «stato allontanato per essere collocato in quello che» il sindacato ha «più volte denunciato essere un gorgo in cui i diritti si perdono e le vite si annientano». Tutto è cominciato con le parole pronunciate dall’imam il 9 ottobre scorso. Frasi rimbalzate ovunque e riportate nel decreto di espulsione, parole che sembrano giustificare il pogrom di Hamas del 7 ottobre 2023: «Ho detto chiaro e questo lo ribadisco e vorrei dirlo ad alta voce, che noi siamo, io personalmente, sono d’accordo con quello che è successo il 7 ottobre. Noi non siamo qui per essere con la violenza, ma quello che è successo nel 7 ottobre 2023 non è una violazione, non è una violenza». E ancora: «Io sono qui a farci ricordare a tutte le persone che sono ancora con la parola che la resistenza dicono i terroristi di Hamas, i terroristi di Hamas che lo hanno detto molte volte fino a oggi». Dichiarazioni incendiarie che avrebbero prodotto un fascicolo iscritto in Procura a modello 45 su segnalazione della Sezione antiterrorismo della Digos. Che si somma a un procedimento per un blocco stradale di maggio al quale l’imam avrebbe partecipato insieme a un gruppo pro Pal. Il decreto racconta che nello stesso intervento del 9 ottobre avrebbe «legittimato lo sterminio di inermi cittadini israeliani, contestualizzandolo nella sequela di conflitti che dal 1948 a oggi ha segnato i rapporti tra Israele e i paesi arabi confinanti». Il virgolettato successivo è quello in cui Shahin invita i giornalisti a riportare il suo intervento in modo integrale: «Non prendete un pezzo di quello che ho detto per andare a dire ai musulmani (che, ndr) l’imam della moschea di via Saluzzo sostiene Hamas». Poi, però, si sarebbe lasciato di nuovo andare, invitando a «non dimenticare queste 12 guerre che hanno ucciso migliaia, migliaia e migliaia di palestinesi». Poi arriva la notte tra il 23 e il 24 novembre. L’imam viene portato via. Destinazione il Cpr di Caltanissetta. Il decreto di espulsione è firmato dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. Motivazione: «Ragioni di sicurezza dello Stato e prevenzione del terrorismo». Nel provvedimento Shahin è descritto come un uomo «radicalizzato», «portatore di ideologia fondamentalista e antisemita», in contatto con «soggetti noti per la visione violenta dell’Islam». Ma, soprattutto, come vicino alla Fratellanza musulmana, movimento politico-religioso sunnita nato in Egitto nel 1928, che punta a costruire uno Stato ispirato alla legge islamica. Ha governato per circa un anno con Mohamed Morsi dopo le rivolte del 2011. Dal colpo di Stato del 2013 è stato dichiarato organizzazione terroristica dal governo di Al Sisi. Proprio nella sera incriminata, parlando sul palco, ha elogiato l’ex presidente Morsi «eletto dal popolo palestinese e ucciso dai sionisti in carcere», contrapponendolo all’attuale presidente, «sionista, dittatore, criminale». Sono questi giudizi, dicono i suoi avvocati, Gianluca Vitale e Fairus Ahmed Jama, a rendere pericoloso un suo eventuale rientro in Egitto. Nel frattempo, però, un decreto di 16 pagine della Terza sezione penale della Corte d’appello ricostruisce il percorso giudiziario: dalla revoca del permesso di soggiorno alla richiesta d’asilo respinta, fino alla frase che ha acceso la miccia.
A carico di Shahin pendono il decreto di espulsione del 19 novembre e il decreto di trattenimento nel Cpr del 24 novembre, convalidato dal giudice di pace. Proprio in quest’ultima udienza Shahin ha formalizzato una domanda di protezione internazionale. Una mossa che, per la Corte, non cambia il punto centrale: la domanda d’asilo, dal punto di vista giuridico, non annulla il provvedimento di espulsione del Viminale, dove è indicato che Shahin avrebbe «intrapreso percorso di radicalizzazione religiosa connotata da spiccata ideologia antisemita» e avrebbe avuto «contatti con soggetti noti per la loro visione fondamentalista e violenta dell’Islam». La Corte segnala alcune relazioni pericolose dell’uomo: «Nel marzo 2012 veniva fermato a Imperia insieme a Giuliano Ibrahim Del Nievo (genovese, ndr), trasferitosi quello stesso anno in Siria per unirsi alle formazioni jihadiste e morto in combattimento nel 2013». Non è finita. Nel 2018, in un’indagine su Elmahdi Halili (condannato nel 2019, con sentenza divenuta irrevocabile nel 2022, per aver partecipato all'organizzazione terroristica dello Stato islamico), «veniva registrata una conversazione in cui questi consigliava ad altro soggetto di rivolgersi a Shanin presso la moschea di Torino». Il cuore del decreto, però, è tutto in una frase: le parole pronunciate da Shahin il 9 ottobre alla manifestazione pro Palestina «hanno veicolato un messaggio adesivo a quanto accaduto il 7 ottobre 2023». Non basta appellarsi all’articolo 21 della Costituzione (la libertà di manifestare il pensiero), che «ha sempre un limite non derogabile nel mantenimento dell’ordine pubblico». Shahin in udienza nega tutto: contatti, simpatie, legami con ambienti radicali. Dice di aver solo parlato di «impegno sociale e religioso», di aver «ripudiato ogni forma di violenza». La sinistra tutta e la Chiesa cattolica sembrano credere più a lui che al nostro Antiterrorismo.
Grazie alla rogatoria dei pm di Torino in Lussemburgo è stato scoperto un misterioso trust celato sia al Fisco elvetico sia, pare, a parte della famiglia stessa. Scoppierà una nuova faida tra parenti?
Sembra che la specialità di casa Agnelli fosse quella di nascondersi al Fisco. Però non solo a quello italiano, bensì anche a quello della Confederazione elvetica. Infatti la Procura di Torino, che indaga sull’eredità di Marella Agnelli (per cui il presidente di Stellantis, John Elkann, è tuttora indagato per dichiarazione infedele - inizialmente era sotto inchiesta per frode fiscale - e truffa ai danni dello Stato) ha ricevuto le risposte dalle autorità giudiziarie di Lussemburgo e Svizzera alle proprie rogatorie su patrimonio e sulle dichiarazioni fiscali ed ereditarie della famiglia Agnelli. Nella documentazione inviata dal Granducato è emersa l’esistenza di un tesoro nascosto del valore di circa 250 milioni di euro nella pancia di un misterioso trust, riconducibile alla famiglia.
Il nome del veicolo è Piz Nair, come la montagna che domina Sankt Moritz. Ma la cosa che è subito balzata agli occhi degli inquirenti è che anche il Fisco svizzero era all’oscuro della sua esistenza. Nelle dichiarazioni presentate nella Confederazione Piz Nair non sarebbe mai citato.
Quindi se qualcuno pensava che gli Agnelli celassero le proprie ricchezze solo all’Erario italiano, adesso deve registrare che anche in Svizzera, dove Marella Agnelli aveva trasferito la residenza, occultando il proprio effettivo domicilio in Italia, le dichiarazioni non erano trasparenti.
Inizialmente il patrimonio era stato stimato in 700 milioni di euro, ma poi è arrivata la scoperta della nuova miniera d’oro tenuta ben nascosta in Lussemburgo.
Neanche Margherita Agnelli, che è in causa con i figli per la suddivisione dell’eredità, ne conosceva l’esistenza. Ma anche altri soggetti interessati alla spartizione potrebbero essere stati esclusi dalla conoscenza di quello schermo.
La Procura guidata da Giovanni Bombardieri ha indagato sugli eredi di Marella, John, Lapo e Ginevra a partire dal 2024 e, alla fine, ha espresso parere favorevole alla richiesta di messa alla prova del primo (gli altri due sono stati archiviati, come il notaio svizzero Urs von Grunigen). Concessione che è arrivata dopo il pagamento, avvenuto ad agosto, dell’ultima tranche del debito con il Fisco. Gli F24 ammontavano complessivamente a 183 milioni di euro tra tasse, interessi e sanzioni: gli Agnelli, dopo le indagini capillari del Nucleo di polizia economico-finanziaria della Guardia di finanza di Torino, per mettersi in regola hanno dovuto saldare sia le imposte dirette (Irpef) sui redditi non dichiarati da Marella (circa 250 milioni di euro a partire dal 2015) che la tassa di successione del 4 per cento sull’accertata massa ereditaria da circa 1 miliardo di euro.
Adesso il presidente di Stellantis, per chiudere i suoi conti con la giustizia a livello penale, dovrebbe svolgere il ruolo di tutor in una scuola salesiana, circa 30 ore al mese per dieci mesi. Alla fine di questa esperienza, se saranno rispettate tutte le disposizioni, i reati contestati saranno considerati estinti.
Come ha riportato il Fatto quotidiano, John Elkann sarà impegnato nelle aule della scuola salesiana che sorge accanto al Santuario di Maria Ausiliatrice di Torino, dove parteciperà «alla formazione di insegnanti e di operatori sociali», svolgerà «attività di formazione e di tutoring con gruppi di studenti» e manterrà una «collaborazione trasversale» con altri «uffici ispettoriali ed enti salesiani», tra cui l’«Università di Torino Rebaudengo». Il programma è stato concordato con l’Ufficio esecuzione penale esterna (Uepe) di Torino e adesso attende il via libera definitivo del gip.
Siamo certi che la prospettiva di godersi in pace un’eredità miliardaria aiuterà Elkann a sopportare il peso di queste sette ore settimanali di lavoro extra.





