L’ex procuratore aggiunto di Pavia Mario Venditti, indagato dalla Procura di Brescia che ipotizza che l’ex toga abbia preso dei soldi per scagionare Andrea Sempio, nell’ambito del caso Garlasco, rassegnerà le dimissioni da presidente e membro del Consiglio d’amministrazione del Casinò di Campione d’Italia. Lo rende noto la stessa casa da gioco, «informalmente informata» delle intenzioni del magistrato oggi in pensione, che evidenzia «la totale estraneità della Casa da gioco» dalle accuse mosse a Venditti, il cui mandato fino ad oggi «è stato assolto con grande professionalità e competenza». Ma sullo sfondo delle dimissioni c’è la vicenda, ricostruita maggio dal Giornale che aveva riportato la notizia di «un assegno da 100.000 euro uscito dalle casse di Asm», la municipalizzata pavese che si occupa della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti, sarebbe approdato «al Casinò di Campione passando dalle Bahamas. Il sindaco di campione d’Italia Mario Canesi, dopo una verifica con il Casinò, aveva definito la notizia «del tutto destituita di fondamento». Posizione simile a quella messa nero su bianco dal Casinò nella risposta ad un’interrogazione dei consiglieri di opposizione Simone Verda e Gianluca Marchesini: «relativamente al presunto incasso di un assegno, la cui provenienza vedrebbe ipoteticamente coinvolta la società Asm Spa di Pavia, si rappresenta nella maniera più netta che la Casa da gioco non intrattiene, né ha mai intrattenuto, dalla sua riapertura, relazioni contrattuali, o in generale commerciali di alcun tipo, con la società Asm […], né ha mai ricevuto alcun pagamento o prestazione di servizi da parte della citata società». Una risposta che non ha soddisfatto i due consiglieri, che ieri sono tornati alla carica. «È pacifico anche per noi che la casa da gioco non ha intrattenuto rapporti economici con la Asm Sp a di Pavia, dato che la notizia di stampa alla quale abbiamo fatto riferimento non lo afferma. L’articolo […] richiamato nella nostra istanza, infatti, dice una cosa ben diversa e, cioè, che una somma di denaro di euro 100.000,00 sarebbe uscita dalle casse di Asm Spa e, dopo esser transitata su conti esteri off shore (Bahamas) sarebbe stata incassata dal Casinò di Campione». I due consiglieri chiedono quindi di sapere «se e quali operazioni finanziarie abbia compiuto la Casinò di Campione Spa dal momento della riapertura del casinò ad oggi, aventi ad oggetto l’accredito alla casa da gioco dell’importo di euro 100.000,00 […] con provenienza da soggetti o istituti finanziari esteri e se e quali operazioni finanziarie abbia compiuto la Casinò di Campione Spa, dal momento della riapertura del casinò ad oggi, aventi ad oggetto l’accredito alla casa da gioco dell’importo di euro 100.000,00 (o importi consimili per eccesso o per difetto) con provenienza da soggetti o istituti finanziari esteri extra Ue e, in particolare, da Bahamas; xtra Ue, in particolare, da Bahamas». Verda e Marchesini chiedono anche «se e quali operazioni finanziarie aventi ad oggetto l’accredito alla casa da gioco dell’importo di euro 100.000,00 […] con provenienza da soggetti o istituti finanziari esteri extra Ue e, in particolare, da Bahamas siano state oggetto di segnalazione alla Uif della Banca d’Italia.» Sul fronte delle indagini della Procura di Pavia sull’omicidio di Chiara Poggi, le novità arrivano da due provette: una siglata con «Unghie mano sx», con quattro frammenti di una certa dimensione indicati negli atti come «significativi»; l’altra, con cinque frammenti più grandi «e qualche frammento più piccolo» della mano destra indicata con «Mdx» e a seguire i numeri da 1 a 5. Non tutti i campioni «sottoposti ad asportazione» sono stati analizzati. Quello con sigla «Mdx5», per esempio, è stato «conservato e non analizzato». Degli altri è stata «preservata quota parte dell’estratto finale della soluzione di Dna». Si procederà quindi al confronto con il Dna di Andrea Sempio, due archiviazioni alle spalle e ora indagato per la terza volta per l’omicidio, in concorso, di Chiara Poggi. A Brescia, invece, dove Venditti è indagato per corruzione in atti giudiziari l’avvocato Domenico Aiello annuncia ricorso al Riesame.
Con due sentenze, il Tar del Lazio ha dichiarato inammissibili i ricorsi amministrativi presentati dalle organizzazioni Differenza donna onlus, Associazione studi giuridici sull’immigrazione e Spazi circolari, che contestavano la legittimità del finanziamento da 2 milioni di euro autorizzato dal ministero degli Esteri italiano nel maggio 2019 per il Fondo Africa. Ovvero quello che sostiene il progetto della Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) finalizzato a fronteggiare la crisi migratoria in Libia. L’oggetto della disputa legale ruotava attorno al sospetto che il finanziamento fosse stato concesso senza un’adeguata istruttoria e senza considerare appieno la situazione drammatica in cui si trovano i migranti nel Paese nordafricano. Le associazioni ricorrenti sostenevano che il provvedimento ministeriale non tenesse conto della situazione in Libia, descritta come caratterizzata da gravi violazioni dei diritti umani, dove i migranti, già vittime di traffici illeciti e abusi, correvano il rischio di subire nuove persecuzioni e sofferenze. Ma il Tar, che ha dichiarato inammissibili per la mancata notifica all’Oim, è entrato nel merito, riconoscendo la legittimità della misura. I giudici hanno anche ritenuto che le accuse di violazione dei diritti umani fossero infondate. Secondo i magistrati non corrisponde al vero «che il ministero degli Esteri abbia finanziato il progetto senza chiedere garanzie sul rispetto dei diritti umani». Piuttosto, la decisione del ministero è stata giudicata conforme alle linee guida internazionali in materia di diritti dei migranti e di rimpatrio. Un altro aspetto decisivo riguarda le accuse mosse contro l’Oim, la quale, secondo le ricorrenti, non sarebbe in grado di garantire un’adeguata selezione dei migranti da rimpatriare, a causa della situazione di grave conflitto in Libia. Il Tar ha ritenuto che tali affermazioni fossero «manifestamente tendenziose», sottolineando che non vi erano elementi concreti a suffragio della preoccupazione. «Le circostanze in cui opera l’Oim in Libia», secondo le associazioni, avrebbero fatto «temere che» l’organizzazione non fosse «in grado di effettuare uno screening adeguato dei rischi derivanti caso per caso dal ritorno nel Paese di origine». Ma in particolare, è stato respinto l’argomento secondo cui la situazione dei migranti, e in particolare delle donne nigeriane destinatarie del rimpatrio, potesse far dubitare della «genuinità» del consenso prestato dai migranti per il rimpatrio, o della capacità dell’Oim di eseguire una valutazione adeguata sui rischi connessi al ritorno nei Paesi d’origine. Secondo le associazioni, «sono stati documentati dalla stampa internazionale casi di rimpatrio forzato di persone rifugiate che, a causa del rientro, sono state esposte a persecuzioni e a rischi più che fondati di gravi violazione dei loro diritti fondamentali». In sostanza, le circostanze in cui opera l’Oim, pur nella complessità del contesto, non sono state ritenute dai giudici un ostacolo per l’efficacia del progetto. La sentenza del Tar, quindi, non solo ha confermato la legittimità dell’operato del ministero degli Esteri, ma ha anche ribadito che l’Italia continua a perseguire politiche migratorie conformi agli obblighi internazionali e al rispetto dei diritti umani.
- Aveva bloccato la porta con un tavolo e staccato il campanello d’allarme, però è stato dichiarato incapace di intendere. A Modena egiziano di 17 anni violenta una donna.
- Lista Paesi sicuri: proposta Ue che ricomprende fra gli altri Bangladesh, Egitto e Tunisia. Soddisfazione di Palazzo Chigi. In Albania i clandestini trasferiti nel Cpr provocano alcuni disordini.
Lo speciale contiene due articoli.
Dal lettino nel corridoio del reparto dell’ospedale Molinette di Torino, dove si curano disturbi alimentari e dove la maggior parte delle pazienti sono donne, un fotografo iracheno di 36 anni ricoverato con un generico disturbo d’ansia legato a crisi di panico, in piena notte si alza, entra in una stanza, blocca la porta con un tavolo, mette fuori uso il campanello d’allarme e dopo aver strappato il catetere vescicale di una trentaseienne la violenta selvaggiamente. La poveretta urla, nessun infermiere accorre, l’uomo scappa nella stanza accanto e cerca di aggredire un’altra paziente anoressica ma per fortuna lì il campanello funziona e scatta l’allarme.
A distanza di un anno, il fotografo iracheno arrivato nel 2017 a Torino come richiedente asilo politico è stato assolto perché secondo il giudice era «totalmente incapace di intendere e di volere al momento delle condotte». Adesso è in libertà vigilata. Dobbiamo restare con il fiato sospeso, aspettando un nuovo raptus psicotico ai danni di qualche altra donna?
La vicenda e la crudezza dei particolari lasciano pochi dubbi sull’approssimazione con cui i tribunali a volte accettano le perizie, senza approfondire dinamiche e comportamenti inspiegabili. Era la mattina del 25 marzo del 2024 quando l’uomo si presenta al pronto soccorso del presidio che fa parte dell’Azienda ospedaliero-universitaria Città della salute e della scienza di Torino. Forse si trovava in preda di un mix di cannabis e alcol.
Fino alle nove di sera l’iracheno è sottoposto ad accertamenti, poi viene ricoverato nel piccolo reparto accanto a quello della psichiatria universitaria e dove vengono trattati disturbi alimentari quali l’anoressia nervosa. Lo lasciano nel corridoio, s’addormenta sulla barella ma tre ore dopo si sveglia. «Entra nella camera che aveva di fronte e dove c’era la mia assistita che stava malissimo, con forti disturbi alimentari», racconta l’avvocato Elena Negri che difende la donna stuprata.
L’uomo sposta un tavolo davanti alla porta perché nessuno entri, mette fuori uso il campanello, strappa alla giovane il catetere vescicale e la violenta con brutalità. «Una cosa tremenda. Considerando la dinamica, difficile pensare che non sapesse quello che stava facendo», commenta il legale. La donna urla ma nessuno sembra sentirla, i due infermieri della notte sono nel locale caffè in fondo al corridoio.
Il fotografo scappa dalla stanza, entra in quella accanto dove sono ricoverate due donne e cerca di assalirne una. La palpeggia, i pantaloni di nuovo calati pronto a ripetere la violenza, poi il campanello finalmente funziona e il personale arriva. L’uomo viene spostato in psichiatria centrale (allora il posto c’era!), dove rimane un mese fino a quando non viene incarcerato alle Vallette.
Nella perizia disposta dal giudice per le indagini preliminari, lo scorso luglio gli psichiatri Franco Freilone e Maurizio Desana dichiarano che l’iracheno era socialmente pericoloso, ma che al momento delle violenze commesse era incapace di intendere e di volere. In via cautelare viene trasferito in una Rems, residenza per gli autori di reato affetti da disturbi mentali e socialmente pericolosi, però da questa può anche uscire «con permesso del giudice per andare alla presentazione di un suo libro di fotografie», precisa Negri. Due giorni fa è arrivata la sentenza di assoluzione.
Il legale, che ha rifiutato il rito abbreviato per non dover accettare come definitiva l’assoluzione dell’imputato, rimane con forti dubbi. «Il nostro codice prevede di non doversi procedere quando c’è incapacità di intendere e di volere, ma in questo caso non si capisce perché è stata accolta una perizia che aveva dei limiti e dei mancati approfondimenti, da me inutilmente richiesti anche se c’era il tempo per poterli fare».
Spiega meglio: «La perizia fa riferimento a una possibile schizofrenia o disturbo schizofreniforme, quindi contrasta con la diagnosi fatta al momento del ricovero, ovvero psicosi non specificata. Persona un po’ disturbata per uso di cannabis e alcol». Al pronto soccorso era stato valutato addirittura «vigile, cosciente e collaborativo».
Se era schizofrenico, perché non se ne sono accorti quelli che l’avevano visitato a lungo e poi l’hanno ricoverato nel reparto sbagliato, non nella psichiatria centrale e con la grave negligenza di non allertare gli infermieri?
Si chiede l’avvocato: «Ha senso questa incapacità di intendere e di volere limitata al momento delle violenze commesse, posto che prima l’uomo era una persona totalmente capace e lo era anche poco dopo?». Aggiunge: «Si doveva approfondire il consumo di cannabinoidi dell’iracheno, perché chi si mette volontariamente nelle situazioni di alterazione poi risponde delle proprie azioni, anzi è un aggravante».
La sua giovane assistita, già con gravi problemi di anoressia, per molti mesi è rimasta traumatizzata dall’abuso sessuale. Di certo, né lei né ogni altra donna si sentirà tranquilla a sapere che l’iracheno è in libertà vigilata, seppure con un percorso terapeutico. Troppi sono gli episodi di violenza che la cronaca registra.
Due giorni fa, uno straniero di 17 anni ha violentato una signora di 65 anni intenta a fare jogging in una frazione della provincia di Modena. Era in bicicletta, l’ha avvicinata, trascinata in un fossato e anche picchiata perché non urlasse. Il giovane era ospite di una comunità per minori non accompagnati. Sempre che non si tratti di un adulto, che ha mentito sulla vera età per entrare nel programma specifico di accoglienza.
«Aggiornare la lista di Paesi sicuri»
Giorgia Meloni incassa un altro punto a favore sul piano internazionale. Ieri ha commentato con soddisfazione «la proposta della Commissione europea di stilare una lista di Paesi considerati sicuri di origine, che contiene, tra gli altri, anche Bangladesh, Egitto e Tunisia». Non solo: la Meloni ha valutato come «altrettanto positiva la proposta di anticipare l’entrata in vigore di alcune componenti del Patto migrazione e asilo, in particolare la possibilità di designare Paesi sicuri di origine con eccezioni territoriali e per determinate categorie e di applicare il criterio del 20 per cento». In sostanza, se un Paese terzo ha un tasso di riconoscimento inferiore al 20%, i richiedenti asilo possono essere sottoposti a una procedura semplificata direttamente alla frontiera. «Si tratta infatti», ha spiegato la Meloni, «di fattispecie che consentono di attivare le procedure accelerate di frontiera, come previsto dal Protocollo Italia-Albania». Una «ulteriore conferma», secondo il presidente del Consiglio, «della bontà della direzione tracciata dal governo italiano» e di un’Italia che «sta svolgendo un ruolo decisivo per cambiare l’approccio europeo nei confronti dei flussi migratori». E per l’Italia è centrale proprio il protocollo con l’Albania. Dove alcuni dei 40 immigrati trasferiti l’altro giorno nel Centro per il rimpatrio di Gjader e destinati all’espulsione (molti dei quali con precedenti penali e condanne sulle spalle anche per reati particolarmente gravi come il tentato omicidio e la violenza sessuale su minorenne), una decina in tutto, sono stati identificati come i protagonisti della distruzione di arredi e suppellettili negli alloggi. Alcuni vetri delle finestre sono andati in frantumi. Tre di loro si sarebbero anche procurati delle ferite da taglio (un atto di autolesionismo con finalità dimostrativa), che hanno richiesto l’intervento dei sanitari. Gesti plateali, per dimostrare la scarsa propensione al rispetto delle regole. Una forma di protesta contro il trasferimento in Albania. Al loro arrivo, appena scesi dalla nave militare Libra, l’europarlamentare dem Cecilia Strada, ergendosi a paladina dei diritti umani, aveva denunciato l’impiego di fascette contenitive durante le fasi dell’operazione. Che, come dimostra l’esito delle condotte all’interno del centro, erano necessarie. I fatti, insomma, hanno dato torto alla retorica degli indomiti difensori dell’accoglienza a tutti i costi. Il nuovo decreto Sicurezza approvato dal governo ha introdotto pene più severe per chi danneggia le strutture di accoglienza e i Cpr e prevede la detenzione. La situazione, però, nonostante fonti della stampa albanese ieri parlassero di un trasferimento nell’area detentiva della stessa struttura, che è sotto il controllo degli agenti della polizia penitenziaria, è risultata facilmente gestibile dal personale addetto alla sicurezza. Dal Viminale hanno fatto sapere che non risulta ancora operativo il mini-carcere presente nell’hub albanese. Uno degli stranieri, invece, torna in Italia. Si tratta di un georgiano di 39 anni che è stato ritenuto «non idoneo» alla «vita in una comunità ristretta». Su richiesta del suo legale è stato sottoposto alla valutazione della Commissione vulnerabilità, che ha attestato la presenza di patologie che non gli permetterebbero il trattenimento. È stato subito disposto il rientro a Bari, dove rimarrà in attesa di una idonea sistemazione.





