2020-01-21
La foto dei grandi metafora perfetta dell’Italia in seconda fila
Al summit di Berlino il premier giallorosso è finito in un angolo nella foto di rito. Anche nel protocollo siamo una barzelletta. «Rimane lì con l'aria perplessa e dubitosa di chi ha perduto gli amici e la corriera». Somiglia a un pellegrino descritto da Alberto Arbasino il premier Giuseppe Conte, mentre si arrende all'evidenza della seconda fila. Mai posto sembrò più lontano, più impervio, più umiliante di quello che attendeva il primo ministro italiano nella foto ricordo del summit di Berlino, stucchevole minuetto (la foto come il summit) organizzato per mostrare al mondo e ai propri elettori quanto sia ancora centrale l'Europa nel definire le strategie per la pace in Libia.«L'Italia è pronta a un ruolo di prima fila», ripete con una certa prosopopea l'avvocato foggiano, presidente del Consiglio pro tempore, quando parla dell'argomento. Ma il destino sembra un altro, il protocollo dice di accomodarsi dietro. Diciottesimo su diciannove. È quello il posto dell'Italia, vicino alle bandiere e alla porta d'uscita. È quello il destino che una politica da camerieri compiacenti ci ha riservato in questi ultimi anni di balbettii, di compromessi e di vessilli arcobaleno. La scena è desolante. Conte se ne accorge arrivando nel salone dei petti gonfiati con un attimo di ritardo, forse per provare a fare lo Zelig di Vladimir Putin (fumetto: «Hai visto mai che finisco nel filmino con lui»). Quando entra nella sala della Cancelleria federale sono quasi tutti schierati in piedi per gli scatti, stile primo giorno di scuola. Due file previste. In prima ci sono Boris Johnson, Recep Tayyip Erdogan, Emmanuel Macron di fianco ad Angela Merkel, il segretario delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, e via snocciolando. Il premier italiano non trova il posto, prova a leggere i cartellini in corrispondenza delle scarpe, ma Italy non c'è. È clamoroso, trattandosi di Libia dove l'influenza italiana dovrebbe avvertirsi dagli anni Trenta, si aspettava un trattamento migliore. Allarga le braccia come a dire: impossibile, dev'esserci un errore. Poi vede un buco di fianco al numero uno dell'Onu e si tuffa, ma nel frattempo è sopraggiunto Putin che si incunea e nessuno (forse neppure Donald Trump se fosse in zona) osa farlo spostare. Adesso sono tutti schierati in ordine di importanza. Germania, Francia, Russia, Turchia, Gran Bretagna, Nazioni Unite. Tutti tranne uno, lui, e la Merkel lo osserva con bonaria degnazione: il solito italiano che vuole imbucarsi. Rimane un posto in seconda fila, lassù in fondo a sinistra; la cancelliera padrona di casa in tailleur bluette glielo indica, Conte prova a tagliare fra Guterres e Putin per raggiungerlo ma viene respinto. Fa il giro e si piazza in piccionaia, dove per individuarlo servirebbe il telescopio. La scena fa il giro del mondo, l'imbarazzo è notevole perché quella fotografia racconta molto più di mille chiacchiere da seconda media del ministro degli Esteri, Luigi Di Maio. E la dice più lunga anche delle parole del capo dello Stato quando definisce il nostro Paese: «Uno dei punti d'incontro dell'Europa con civiltà e culture di altri continenti». Non sembrerebbe, non contiamo più nulla. Anche sulla Libia, Palazzo Chigi ci ha illuso sul ruolo «storico da grandi mediatori», ma siamo solo una rotonda in tangenziale. L'inciampo è evidente perché i simboli parlano, Conte cercava un posto fra Macron e la Merkel per illuderci sulla leadership in Europa ma lo ha trovato fra il presidente del Congo e il presidente della Lega araba (quella era la disposizione ufficiale al tavolo della conferenza). Tutto questo è deprimente e pericoloso perché al di là delle debolezze italiane e delle esibizioni muscolari di francesi e tedeschi, i nostri interessi in Libia sono enormi. E la prima azienda del Paese, l'Eni, ha bisogno di essere difesa da una politica seria, credibile, portata avanti da persone che non cercano un posto al sole, ma sono consapevoli di un ruolo strategico. Mentre Khalifa Haftar chiude i pozzi, mentre Macron manda aiuti a supportarlo, mentre Erdogan allunga la sua ombra sulla regione e la Merkel entra a piedi uniti per occupare il vuoto italiano, non possiamo permetterci un premier che si fa tagliare fuori anche dal protocollo. Ciò che è accaduto non è solo folclore, lo si comprende anche nel vedere la faccenda derubricata a sketch pittoresco dai grandi media. Gli stessi che nel 2011 avevano martellato per settimane su Silvio Berlusconi dopo la scenetta villana con risatine annesse fra Nicholas Sarkozy e Angela Merkel. Allora fu l'inizio della fine. Qui niente critiche, nessuna dietrologia, si tratta solo di un papocchio moltiplicato da Twitter. Perché toccare Conte e il suo prestigio sottozero significherebbe irritare Sergio Mattarella che gli fa da principale sponsor. E allora meglio dire che ha scelto lui di stare defilato, in fondo è un timido.