Nei secoli passati era l’unica fonte di energia esistente, in modo diretto o indiretto. Oggi, nonostante ricerca e tecnologie all’avanguardia, copre solo il 16% dei consumi. E la sua natura impedisce un aumento
Nei secoli passati era l’unica fonte di energia esistente, in modo diretto o indiretto. Oggi, nonostante ricerca e tecnologie all’avanguardia, copre solo il 16% dei consumi. E la sua natura impedisce un aumentoDopo le pretese di seppellire l’aria, alimentare le nostre automobili o come fossero cellulari o con un combustibile che non esiste, e di farci rinunciare all’energia, la linfa vitale della nostra civiltà - discusse nelle prime quattro gretinate - eccoci alla numero cinque: la convinzione che quella dal sole sarà l’energia del futuro. Una cosa è sicura: quella dal sole è certamente l’energia del passato. Dalla notte dei tempi fino a circa due secoli fa, il fabbisogno energetico dell’umanità è stato soddisfatto - al 100%! - dal sole. Come? Dalla legna da ardere, principalmente (oggi si chiama pomposamente biomassa), che è energia dal sole perché consente la fotosintesi che trasforma acqua e anidride carbonica nel tessuto vegetale. Quando brucia, la biomassa restituisce l’anidride carbonica, l’acqua e, sotto forma di calore, l’energia dal sole che in quella biomassa era stata immagazzinata. È energia dal sole anche l’energia degli animali da tiro: questi si nutrono delle piante che forniscono l’energia che i nostri antenati hanno usato per molte loro necessità. E, per la stessa ragione, era energia dal sole anche quella degli schiavi delle antiche civiltà. Di tanto in tanto l’umanità s’è servita anche dell’energia dai venti, che è anch’essa energia dal sole: è essa che induce nell’aria variazioni di temperatura e di pressione generando così i venti. Insomma, vuoi dalla legna da ardere, vuoi dai venti, vuoi dalla forza muscolare di animali e di schiavi, il fabbisogno energetico dell’umanità è stato soddisfatto, nel passato, al 100% dall’energia dal sole.E oggi? Oggi si sono aggiunte altre tecnologie che consentono di sfruttare l’energia dal sole. Innanzitutto l’idroelettrico: è il sole che scioglie i ghiacci le cui acque costituiscono un serbatoio d’energia potenziale gravitazionale che per caduta si trasforma in energia cinetica di apposite turbine e, infine, in energia elettrica. Poi ci sono le moderne turbine eoliche, che trasformano anch’esse l’energia cinetica del vento in energia elettrica. E poi v’è la tecnologia fotovoltaica, capace di trasformare l’energia dal sole direttamente in elettricità. E altre diavolerie tecnologiche.Orbene, a dispetto dell’aggiunta di tutte queste nuove tecnologie, il contributo dell’energia corrente dal sole al fabbisogno energetico dell’umanità è ridotto, da quel 100% che è stato fino a due secoli fa, a meno del 16% oggi. La conclusione è che l’energia dal sole è l’energia del passato. E di questo 16%, oltre 12 punti sono dovuti, in parti uguali, alla biomassa (usata dai popoli poveri) e all’idroelettrico. Cosicché eolico e fotovoltaico, che secondo le Gretine sarebbero le tecnologie del futuro, contribuiscono per meno di 4 punti percentuali. Può, grazie a esse, tornare il sole essere la fonte energetica del futuro? Piaccia o no, la risposta è no.A dire il vero, se le Gretine studiassero, non dico la scienza o la tecnica, ma anche solo la storia, saprebbero queste cose. Perché i Verdi, già 40 anni fa, quando nacquero con il simbolo del «Sole che ride», promettevano il sole come motore della civiltà, e la promessa - per ragioni tecniche - non è stata mantenuta. Ma le Gretine sono refrattarie allo studio. Anzi, a dire il vero, marinare la scuola è la loro unica attività: lo chiamano Fridays for future, ma è marinare la scuola.La ragione del perché l’energia corrente dal sole non può mai diventare il motore della nostra civiltà è, dicevo, tecnica che, per far breve una storia lunga, è questa: la parola chiave nel contesto non è «energia» ma «potenza». Se vogliamo che una lampadina da 100 W stia accesa per 10 ore dobbiamo spendere 1 Kwh d’energia, ma dobbiamo fornirgliela alla potenza di 100 W. Spendessimo anche 1.000 Kwh ma alla potenza di 1 W, la lampadina rimarrebbe spenta. Ora, il sole fornisce energia con una potenza che è decisamente inadeguata. Per esempio, di notte la potenza dal sole è zero, e non accenderemmo neanche le lampadine dell’albero di Natale. E anche di giorno è inadeguata: va bene per abbronzarsi.La circostanza spiega anche perché, tra le forme d’energia solare, a far la parte del leone nel passato è stata la biomassa e nel presente sono la biomassa e l’idroelettrico: forme di energia dal sole immagazzinate e pronte all’uso con la potenza desiderata da noi. L’energia solare corrente, invece, ci è data con una potenza decisa dal sole, né noi abbiamo alcun potere di far brillare il sole (né far soffiare i venti) più di così.Possiamo immagazzinare in batterie l’energia elettrica prodotta direttamente dal sole o dal vento? Possiamo farlo, ma poco o nulla che sia compatibile con le nostre esigenze. Lo dicevamo già quando abbiamo smitizzato le promesse dell’auto full electric. L’energia che libera un pieno di benzina è immagazzinabile in mezza tonnellata di batterie. Possiamo migliorare? No, perché l’elemento attivo più leggero è il litio, e le batterie al litio esistono già (elio e idrogeno sono più leggeri, ma uno è inerte, l’altro non esiste sulla Terra). Possiamo migliorare le batterie al litio? No, per limiti imposti dalle leggi della natura, che è governata dalla fisica quantistica. È a essa che le Gretine potrebbero meglio dedicare il tempo dei loro venerdì.
Anna Falchi (Ansa)
La conduttrice dei «Fatti vostri»: «L’ho sdoganato perché è un complimento spontaneo. Piaghe come stalking e body shaming sono ben altra cosa. Oggi c’è un perbenismo un po’ forzato e gli uomini stanno sulle difensive».
iStock
Il capo del Consorzio, che celebra i 50 anni di attività, racconta i segreti di questo alimento, che può essere dolce o piccante.
Daniela Palazzoli, ritratto di Alberto Burri
Scomparsa il 12 ottobre scorso, allieva di Anna Maria Brizio e direttrice di Brera negli anni Ottanta, fu tra le prime a riconoscere nella fotografia un linguaggio artistico maturo. Tra mostre, riviste e didattica, costruì un pensiero critico fondato sul dialogo e sull’intelligenza delle immagini. L’eredità oggi vive anche nel lavoro del figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e presidente Angamc.
C’è una frase che Daniela Palazzoli amava ripetere: «Una mostra ha un senso che dura nel tempo, che crea adepti, un interesse, un pubblico. Alla base c’è una stima reciproca. Senza quella non esiste una mostra.» È una dichiarazione semplice, ma racchiude l’essenza di un pensiero critico e curatoriale che, dagli anni Sessanta fino ai primi Duemila, ha inciso profondamente nel modo italiano di intendere l’arte.
Scomparsa il 12 ottobre del 2025, storica dell’arte, curatrice, teorica, docente e direttrice dell’Accademia di Brera, Palazzoli è stata una figura-chiave dell’avanguardia critica italiana, capace di dare alla fotografia la dignità di linguaggio artistico autonomo quando ancora era relegata al margine dei musei e delle accademie. Una donna che ha attraversato cinquant’anni di arte contemporanea costruendo ponti tra discipline, artisti, generazioni, in un continuo esercizio di intelligenza e di visione.
Le origini: l’arte come destino di famiglia
Nata a Milano nel 1940, Daniela Palazzoli cresce in un ambiente dove l’arte non è un accidente, ma un linguaggio quotidiano. Suo padre, Peppino Palazzoli, fondatore nel 1957 della Galleria Blu, è uno dei galleristi che più precocemente hanno colto la portata delle avanguardie storiche e del nuovo informale. Da lui eredita la convinzione che l’arte debba essere una forma di pensiero, non di consumo.
Negli anni Cinquanta e Sessanta Milano è un laboratorio di idee. Palazzoli studia Storia dell’arte all’Università degli Studi di Milano con Anna Maria Brizio, allieva di Lionello Venturi, e si laurea su un tema che già rivela la direzione del suo sguardo: il Bauhaus, e il modo in cui la scuola tedesca ha unito arte, design e vita quotidiana. «Mi sembrava un’idea meravigliosa senza rinunciare all’arte», ricordava in un’intervista a Giorgina Bertolino per gli Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea.
A ventun anni parte per la Germania per completare le ricerche, si confronta con Walter Gropius (che le scrive cinque lettere personali) e, tornata in Italia, viene notata da Vittorio Gregotti ed Ernesto Rogers, che la invitano a insegnare alla Facoltà di Architettura. A ventitré anni è già docente di Storia dell’Arte, prima donna in un ambiente dominato dagli uomini.
Gli anni torinesi e l’invenzione della mostra come linguaggio
Torino è il primo teatro della sua azione. Nel 1967 cura “Con temp l’azione”, una mostra che coinvolge tre gallerie — Il Punto, Christian Stein, Sperone — e che riunisce artisti come Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio. Una generazione che di lì a poco sarebbe stata definita “Arte Povera”.
Quella mostra è una dichiarazione di metodo: Palazzoli non si limita a selezionare opere, ma costruisce relazioni. «Si tratta di individuare gli interlocutori migliori, di convincerli a condividere la tua idea, di renderli complici», dirà più tardi. Con temp l’azione è l’inizio di un modo nuovo di intendere la curatela: non come organizzazione, ma come scrittura di un pensiero condiviso.
Nel 1973 realizza “Combattimento per un’immagine” al Palazzo Reale di Torino, un progetto che segna una svolta nel dibattito sulla fotografia. Accanto a Luigi Carluccio, Palazzoli costruisce un percorso che intreccia Man Ray, Duchamp e la fotografia d’autore, rivendicando per il medium una pari dignità artistica. È in quell’occasione che scrive: «La fotografia è nata adulta», una definizione destinata a diventare emblematica.
L’intelligenza delle immagini
Negli anni Settanta, Palazzoli si muove tra Milano e Torino, tra la curatela e la teoria. Fonda la rivista “BIT” (1967-68), che nel giro di pochi numeri raccoglie attorno a sé voci decisive — tra cui Germano Celant, Tommaso Trini, Gianni Diacono — diventando un laboratorio critico dell’Italia post-1968.
Nel 1972 cura la mostra “I denti del drago” e partecipa alla 36ª Biennale di Venezia, nella sezione Il libro come luogo di ricerca, accanto a Renato Barilli. È una stagione in cui il concetto di opera si allarga al libro, alla rivista, al linguaggio. «Ho sempre pensato che la mostra dovesse essere una forma di comunicazione autonoma», spiegava nel 2007 in Arte e Critica.
La sua riflessione sull’immagine — sviluppata nei volumi Fotografia, cinema, videotape (1976) e Il corpo scoperto. Il nudo in fotografia (1988) — è uno dei primi tentativi italiani di analizzare la fotografia come linguaggio del contemporaneo, non come disciplina ancillare.
Brera e l’impegno pedagogico
Negli anni Ottanta Palazzoli approda all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove sarà direttrice dal 1987 al 1992. Introduce un approccio didattico aperto, interdisciplinare, convinta che il compito dell’Accademia non sia formare artisti, ma cittadini consapevoli della funzione dell’immagine nel mondo. In quegli anni l’arte italiana vive la transizione verso la postmodernità: lei ne accompagna i mutamenti con una lucidità mai dogmatica.
Brera, per Palazzoli, è una palestra civile. Nelle sue aule si discute di semiotica, fotografia, comunicazione visiva. È in questo contesto che molti futuri curatori e critici — oggi figure di rilievo nelle istituzioni italiane — trovano nella sua lezione un modello di rigore e libertà.
Il sentimento del Duemila
Dalla fine degli anni Novanta al nuovo secolo, Palazzoli continua a curare mostre di grande respiro: “Il sentimento del 2000. Arte e foto 1960-2000” (Triennale di Milano, 1999), “La Cina. Prospettive d’arte contemporanea” (2005), “India. Arte oggi” (2007). Il suo sguardo si sposta verso Oriente, cogliendo i segni di un mondo globalizzato dove la fotografia diventa linguaggio planetario.
«Mi sono spostata, ho viaggiato e non solo dal punto di vista fisico», diceva. «Sono un viaggiatore e non un turista.» Una definizione che è quasi un manifesto: l’idea del curatore come esploratore di linguaggi e di culture, più che come amministratore dell’esistente.
Il suo ultimo progetto, “Photosequences” (2018), è un omaggio all’immagine in movimento, al rapporto tra sequenza, memoria e percezione.
Pensiero e eredità
Daniela Palazzoli ha lasciato un segno profondo non solo come curatrice, ma come pensatrice dell’arte. Nei suoi scritti e nelle interviste torna spesso il tema della mostra come forma autonoma di comunicazione: non semplice contenitore, ma linguaggio.
«La comprensione dell’arte», scriveva nel 1973 su Data, «nasce solo dalla partecipazione ai suoi problemi e dalla critica ai suoi linguaggi. Essa si fonda su un dialogo personale e sociale che per esistere ha bisogno di strutture che funzionino nella quotidianità e incidano nella vita dei cittadini.»
Era questa la sua idea di critica: un’arte civile, capace di rendere l’arte parte della vita.
L’eredità di una visione
Oggi il suo nome è legato non solo alle mostre e ai saggi, ma anche al Fondo Daniela Palazzoli, custodito allo IUAV di Venezia, che raccoglie oltre 1.500 volumi e documenti di lavoro. Un archivio che restituisce mezzo secolo di riflessione sulla fotografia, sul ruolo dell’immagine nella società, sul legame tra arte e comunicazione.
Ma la sua eredità più viva è forse quella raccolta dal figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e fondatore di Osart Gallery, che dal 2008 rappresenta uno dei punti di riferimento per la ricerca artistica contemporanea in Italia. Presidente dell’ANGAMC (Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea) dal 2022 , Ortolani prosegue, con spirito diverso ma affine, quella tensione tra sperimentazione e responsabilità che ha animato il percorso della madre.
Conclusione: l’intelligenza come pratica
Nel ricordarla, colpisce la coerenza discreta della sua traiettoria. Palazzoli ha attraversato decenni di trasformazioni mantenendo una postura rara: quella di chi sa pensare senza gridare, di chi considera l’arte un luogo di ricerca e non di potere.
Ha dato spazio a linguaggi considerati “minori”, ha anticipato riflessioni oggi centrali sulla fotografia, sul digitale, sull’immagine come costruzione di senso collettivo. In un paese spesso restio a riconoscere le sue pioniere, Daniela Palazzoli ha aperto strade, lasciando dietro di sé una lezione di metodo e di libertà.
La sua figura rimane come una bussola silenziosa: nel tempo delle immagini totali, lei ci ha insegnato che guardare non basta — bisogna vedere, e vedere è sempre un atto di pensiero.
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L’ad del gruppo Lube Fabio Giulianelli: «Se si riaprisse il mercato russo saremmo felici. Abbiamo puntato sulla pallavolo 35 anni fa: nonostante i successi della Nazionale, nel Paese mancano gli impianti. Eppure il pubblico c’è».