2021-09-22
Il nuovo referendum sulla cannabis apre alle coltivazioni su scala industriale
Il quesito è pasticciato e richiederà l'intervento della Consulta. Inoltre, spiana la strada alla commercializzazione della droga.Presidente di sezione a riposo della Corte di CassazioneIl referendum abrogativo potrebbe assimilarsi a un intervento chirurgico effettuato sul corpo dell'ordinamento giuridico, la cui disponibilità appartiene al popolo sovrano, così come appartiene a ogni persona fisica quella del proprio corpo, salvi, in entrambi i casi, i limiti fissati dalla Costituzione e dalle leggi. Anche il popolo sovrano, quindi, al pari del paziente da sottoporre ad intervento chirurgico, avrebbe il diritto, ai fini della prestazione del proprio «consenso informato», di essere messo previamente a conoscenza, in modo chiaro e completo, ad opera dei proponenti, di tutte le possibili conseguenze, buone o cattive, della proposta referendaria. Ma i proponenti, spesso e volentieri, se ne dimenticano o fingono di dimenticarsene. Il che sembra essersi ultimamente verificato anche con riguardo al referendum presentato sotto il titolo «referendum cannabis legale» e promosso dall'associazione Luca Coscioni e da numerosi altri organismi associativi, tutti gravitanti nell'ambito della sinistra. Le sue finalità, secondo quanto si legge nella nota informativa comparsa sul sito internet, sarebbero quelle di «depenalizzare la condotta di coltivazione di qualsiasi sostanza» e di «eliminare la pena detentiva per qualsiasi condotta illecita relativa alla cannabis». La prima di tali finalità dovrebbe essere realizzata mediante l'eliminazione, fra le condotte di rilievo penale previste dall'art. 73, comma 1, del Testo unico sugli stupefacenti emanato con Dpr n. 309/1990, di quella indicata con la parola «coltiva». La seconda, con l'eliminazione, dal comma 4 dello stesso art. 73, della previsione che le condotte aventi ad oggetto le c.d. «droghe leggere», tra cui appunto la «cannabis», siano punite con la reclusione da due a sei anni, ferma rimanendo soltanto la pena della multa da euro 5.164 ad euro 77,468.Ora, in primo luogo, si nota una evidente discrepanza fra il titolo della proposta referendaria, nel quale si fa esclusivo riferimento alla «cannabis», e la dichiarata intenzione di rendere penalmente lecita «la coltivazione di qualsiasi sostanza» e, quindi (sembrerebbe), anche quella della coca e del papavero da oppio; risultato, quest'ultimo che, per fortuna (e forse senza che i promotori se ne siano resi conto), dovrebbe considerarsi comunque scongiurato. L'art. 28 del Dpr n. 309/1990, infatti (non toccato dalla proposta referendaria), prevede che la coltivazione delle piante indicate nel precedente art. 26, tra cui appunto la coca ed il papavero da oppio, sia punita con le stesse sanzioni «stabilite per la fabbricazione illecita delle sostanze stesse». E l'art. 73, pur dopo l'eventuale approvazione della proposta referendaria, continuerebbe a prevedere come reato, punibile anche con una pesante pena detentiva, oltre che con la multa, la condotta di chi «fabbrica» le sostanze comprese nella tabella I allegata al Testo unico, tra le quali sono comprese la cocaina e l'oppio. In secondo luogo, e sempre in contrasto con la dichiarata intenzione di cui si è detto, continuerebbe a costituire reato anche la coltivazione della «cannabis», dal momento che anche ad essa si fa riferimento nel citato art. 26 del Dpr n. 309/1990, con la sola differenza che, a seguito della modifica dell'art. 73, comma 4, dello stesso Dpr, la pena applicabile, eliminata la reclusione, sarebbe solo quella della multa (come sanzione penale e non amministrativa).Resterebbe, quindi, formalmente aperto il problema della liceità o meno, sotto il profilo penale, della coltivazione della «cannabis» ad uso esclusivamente personale; problema al quale, peraltro, la giurisprudenza più recente della Cassazione tende a dare risposta positiva quando si tratti (come affermato, in particolare, nella sentenza delle Sezioni unite n. 12348/2019), di «una condotta di coltivazione che, in assenza di significativi indici di un inserimento nel mercato illegale, denoti un nesso di immediatezza oggettiva con la destinazione esclusiva all'uso personale, in quanto svolta in forma domestica, utilizzando tecniche rudimentali e uno scarso numero di piante, da cui ricavare un modestissimo quantitativo di prodotto».In pratica, quindi, l'esito positivo del referendum poco o nulla gioverebbe alla posizione di colui che si limita alla coltivazione, in ambito domestico, di poche piante di «cannabis» ad uso esclusivamente personale, giacché già ora, come si è appena visto, egli avrebbe ottime possibilità di andare del tutto esente da qualsiasi pena, detentiva o pecuniaria che fosse. In compenso risulterebbe enormemente avvantaggiata la posizione di chi volesse dedicarsi alla coltivazione massiccia della «cannabis», come pure alla commercializzazione dei relativi prodotti, anche su scala industriale. Infatti tutte le suddette condotte, avendo comunque ad oggetto droghe c.d. «leggere», sono e resterebbero sanzionabili esclusivamente con le pene stabilite dall'art. 73, comma 4, del Dpr n. 309/1990, per cui, una volta esclusa la reclusione, l'unica pena residua applicabile sarebbe quella della multa. Si tratterebbe, quindi, di un risultato ben diverso e anzi del tutto contrastante rispetto a quello accreditato nella propaganda corrente a favore della proposta referendaria, secondo cui questa sarebbe finalizzata, nell'essenziale, solo a liberalizzare la coltivazione della «cannabis» ad uso personale, lasciando fermo l'apparato sanzionatorio previsto per tutte le altre condotte attualmente previste come reato. Mette poi conto osservare, da ultimo, che i quesiti referendari non prendono in alcun modo in esame il comma 5 dell'art. 73 del Dpr n. 309/1990, che prevede una consistente riduzione di pena per tutte le condotte indicate nei commi precedenti, quando i fatti siano ritenuti «di lieve entità». E in tale comma è indicata, come pena detentiva ridotta rispetto a quella prevista dal precedente comma 4, quella della reclusione da sei mesi a quattro anni. Ne deriva, quindi, la paradossale e assurda conseguenza che, in caso di approvazione della proposta referendaria, le condotte penalmente illecite aventi ad oggetto «droghe leggere», rientranti, come tali, nelle previsioni del citato comma 4, sarebbero, di norma, sanzionabili solo con la multa, ma, se ritenute di lieve entità, sarebbero sanzionabili, ai sensi del comma 5, anche con la reclusione. L'eliminazione di una tale aberrazione richiederebbe, con ogni probabilità, l'intervento del legislatore o della Corte costituzionale. Del che i promotori del referendum avrebbero dovuto in qualche modo mostrare di aver tenuto conto, se non altro nelle note illustrative dei quesiti. Il non averlo fatto, quindi, costituisce preoccupante indizio, volendo riprendere la similitudine accennata all'inizio, tanto della mancanza delle condizioni necessarie per la riconoscibilità del «consenso informato» da parte del paziente quanto della scarsa affidabilità professionale degli aspiranti chirurghi.