
Tito Boeri apre il Festival dell'economia dedicato al tema della cancellazione di posti di lavoro a causa dell'automazione. Mentre i luminari italiani fanno sfoggio d'ottimismo, lo studioso di Oxford Richard Baldwin lancia una inquietante proposta.«Cosa ci resterà da fare quando saranno le macchine a lavorare e guadagnare?» è la domanda chiave del Festival dell'Economia che si apre oggi a Trento. «Lavoro e tecnologia» è infatti il tema della tredicesima edizione della kermesse. A tentare di inquadrare col pensiero questa complessa sfida del presente-futuro sarà, insieme con altri luminari venuti dall'estero, il presidente dell'Inps, Tito Boeri, noto interventista sui temi caldi della politica italiana. L'impressione è che Boeri, come del resto molti altri, qualunque sia il tema di partenza sempre ritorni ai chiodi fissi di una certa ideologia. Presentando il festival sulle pagine di Repubblica, egli scrive: «I veri limiti della sovranità nazionale vengono dal modo con cui il progresso tecnologico avanza e si diffonde su scala nazionale. Le nuove tecnologie superano i confini». Una frase gettata lì nel bel mezzo della crisi istituzionale italiana e che evidentemente ammicca alla polemica contro i sovranisti, mescolando temi abbastanza lontani come i trend di crescente automazione delle fabbriche e i veti posti dai poteri forti della Ue ai nomi dei ministri in pectore. Vallo a dire ai cinesi che le nuove tecnologie «superano i confini» e abbattono le sovranità…Boeri dopo aver gioito alla prospettiva di un abbattimento dei confini - ovvero della forma fondamentale della sovranità politica - si lancia in una previsione rosea: «Il progresso tecnologico è un processo che può farci diventare tutti più ricchi e in grado di avere più tempo libero, ma deve essere governato…». Bel concetto il «deve essere governato» (che peraltro fa a pugni con i desideri di dissolvimento delle espressioni della sovranità popolare), ma dal nume tutelare delle nostre future pensioni ci attenderemmo una riflessione più circostanziata sui problemi che derivano dal fatto che le macchine sostituiscono le persone in sempre più settori della vita lavorativa. Boeri nel suo discorso accenna a questi problemi, ma poi svolazza con ottimismo nel regno delle vaghe aspirazioni: «Automazione significa sostituzione di lavoro svolto dall'uomo con macchinari, ma porta con sé anche aumento della produttività e dei salari nei lavori che le macchine non riescono a sostituire». Esempi concreti? «Il lavoro tramite piattaforma digitale (Uber, Foodora, Upwork) sta portando innovazione e nuovi modelli imprenditoriali». In verità, da Uber e altre esperienze consimili fino ad ora è arrivata soprattutto la proletarizzazione di categorie come quelle dei tassisti, schiacciati tra vecchie regole burocratiche e nuova concorrenza da parte di soggetti improvvisati. La sfida della robotica ai nostri equilibri sociali è grande, ma l'impressione è che sia difficile coglierla inforcando le lenti rosa del discorso politicamente corretto. Occorrerebbe fare una seria riflessione su temi serissimi: come riorganizzare una società in cui sempre più gente rimane a spasso mentre le macchine sostituiscono le braccia e le menti? E ancora: come si concilia la crescente automazione delle fabbriche e dei servizi con l'ansia di accogliere milioni di immigrati presentati come «assolutamente indispensabili»?Porre questioni del genere farebbe sorgere il sospetto che anche i robot a loro modo siano xenofobi. Forse a questo nesso spinoso dell'attualità economica (più avanzano i robot, più gli immigrati vengono percepiti come dannosi) accennerà il professor Barry Eichengreen dell'Università di Berkeley parlando al Festival dei «rapporti tra populismo e insicurezza economica». Intanto c'è chi riesce a fondere insieme i due temi - robotica e immigrazione - coniando il concetto della «immigrazione virtuale». È Richard Baldwin autore de La grande convergenza. Tecnologia informatica, web e nuova globalizzazione (Il Mulino), un libro che il Financial Times ha definito «illuminante». Su quale prospettiva ci illumina Baldwin? Il futurologo che insegna a Ginevra (in precedenza è stato a Oxford e alla Columbia) annuncia l'avvento di robot di nuova generazione capaci di svolgere funzioni complesse a patto di essere guidati - anche a notevole distanza - da menti umane. Esempi: «Le stanze di un albergo di Oslo potrebbero venire governate da una cameriera seduta in un ufficio di Manila… I vigilanti di un centro commerciale negli Stati Uniti potrebbero essere sostituiti da robot pilotati da vigilanti seduti in una sala operativa nel Perù». In pratica, sono robot che fanno lavori attualmente svolti da immigrati (evitiamo per decenza di ribattezzarli «migrobots»). Tornando seri, la cameriera licenziata a Oslo e il vigilante licenziato in Usa potrebbero chiedersi: perché far guidare in Perù o nelle Filippine il robot che ci frega il posto? La risposta è di facile intuizione: un «pilota» peruviano o filippino costa molto meno. Dietro la robotizzazione così come dietro i grandi flussi migratori spunta sempre questo imperativo poco morale: abbattere i costi del lavoro, distruggere le garanzie sociali acquisite in Occidente dai lavoratori. Ed è curioso che la sinistra esalti questi processi, soprattutto quello dell'immigrazione, nascondendo la spaventosa carneficina sociale che si nasconde dietro la vetrina colorata del nuovo mondo. Baldwin concede un contentino alle maestranze europee: «Esperti tedeschi potrebbero riparare macchine e attrezzature tedesche installate in Cina». E per chi non è un «esperto tedesco»?
Nadia e Aimo Moroni
Prima puntata sulla vita di un gigante della cucina italiana, morto un mese fa a 91 anni. È da mamma Nunzia che apprende l’arte di riconoscere a occhio una gallina di qualità. Poi il lavoro a Milano, all’inizio come ambulante e successivamente come lavapiatti.
È mancato serenamente a 91 anni il mese scorso. Aimo Moroni si era ritirato oramai da un po’ di tempo dalla prima linea dei fornelli del locale da lui fondato nel 1962 con la sua Nadia, ovvero «Il luogo di Aimo e Nadia», ora affidato nelle salde mani della figlia Stefania e dei due bravi eredi Fabio Pisani e Alessandro Negrini, ma l’eredità che ha lasciato e la storia, per certi versi unica, del suo impegno e della passione dedicata a valorizzare la cucina italiana, i suoi prodotti e quel mondo di artigiani che, silenziosi, hanno sempre operato dietro le quinte, merita adeguato onore.
Franz Botrè (nel riquadro) e Francesco Florio
Il direttore di «Arbiter» Franz Botrè: «Il trofeo “Su misura” celebra la maestria artigiana e la bellezza del “fatto bene”. Il tema di quest’anno, Winter elegance, grazie alla partnership di Loro Piana porterà lo stile alle Olimpiadi».
C’è un’Italia che continua a credere nella bellezza del tempo speso bene, nel valore dei gesti sapienti e nella perfezione di un punto cucito a mano. È l’Italia della sartoria, un’eccellenza che Arbiter celebra da sempre come forma d’arte, cultura e stile di vita. In questo spirito nasce il «Su misura - Trofeo Arbiter», il premio ideato da Franz Botrè, direttore della storica rivista, giunto alla quinta edizione, vinta quest’anno da Francesco Florio della Sartoria Florio di Parigi mentre Hanna Bond, dell’atelier Norton & Sons di Londra, si è aggiudicata lo Spillo d’Oro, assegnato dagli studenti del Master in fashion & luxury management dell’università Bocconi. Un appuntamento, quello del trofeo, che riunisce i migliori maestri sarti italiani e internazionali, protagonisti di una competizione che è prima di tutto un omaggio al mestiere, alla passione e alla capacità di trasformare il tessuto in emozione. Il tema scelto per questa edizione, «Winter elegance», richiama l’eleganza invernale e rende tributo ai prossimi Giochi olimpici di Milano-Cortina 2026, unendo sport, stile e territorio in un’unica narrazione di eccellenza. A firmare la partnership, un nome che è sinonimo di qualità assoluta: Loro Piana, simbolo di lusso discreto e artigianalità senza tempo. Con Franz Botrè abbiamo parlato delle origini del premio, del significato profondo della sartoria su misura e di come, in un mondo dominato dalla velocità, l’abito del sarto resti l’emblema di un’eleganza autentica e duratura.
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A rischiare di cadere nella trappola dei «nuovi» vizi anche i bambini di dieci anni.
Dopo quattro anni dalla precedente edizione, che si era tenuta in forma ridotta a causa della pandemia Covid, si è svolta a Roma la VII Conferenza nazionale sulle dipendenze, che ha visto la numerosa partecipazione dei soggetti, pubblici e privati del terzo settore, che operano nel campo non solo delle tossicodipendenze da stupefacenti, ma anche nel campo di quelle che potremmo definire le «nuove dipendenze»: da condotte e comportamenti, legate all’abuso di internet, con giochi online (gaming), gioco d’azzardo patologico (gambling), che richiedono un’attenzione speciale per i comportamenti a rischio dei giovani e giovanissimi (10/13 anni!). In ordine alla tossicodipendenza, il messaggio unanime degli operatori sul campo è stato molto chiaro e forte: non esistono droghe leggere!
Messi in campo dell’esecutivo 165 milioni nella lotta agli stupefacenti. Meloni: «È una sfida prioritaria e un lavoro di squadra». Tra le misure varate, pure la possibilità di destinare l’8 per mille alle attività di prevenzione e recupero dei tossicodipendenti.
Il governo raddoppia sforzi e risorse nella lotta contro le dipendenze. «Dal 2024 al 2025 l’investimento economico è raddoppiato, toccando quota 165 milioni di euro» ha spiegato il premier Giorgia Meloni in occasione dell’apertura dei lavori del VII Conferenza nazionale sulle dipendenze organizzata dal Dipartimento delle politiche contro la droga e le altre dipendenze. Alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, a cui Meloni ha rivolto i suoi sentiti ringraziamenti, il premier ha spiegato che quella contro le dipendenze è una sfida che lo Stato italiano considera prioritaria». Lo dimostra il fatto che «in questi tre anni non ci siamo limitati a stanziare più risorse, ci siamo preoccupati di costruire un nuovo metodo di lavoro fondato sul confronto e sulla condivisione delle responsabilità. Lo abbiamo fatto perché siamo consapevoli che il lavoro riesce solo se è di squadra».





