2018-05-22
Trump congela gli asset del «dittatore» Maduro
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Gli Usa puntano il dito contro il leader chavista. Le elezioni? «Una sceneggiata». Caracas è sempre più isolata a livello internazionale, così Washington tenta il colpo di grazia e impone nuove sanzioni che impediscono ai cittadini a stelle e strisce di acquistare debito venezuelano.La crisi politico-economica in Venezuela non si ferma. Nicolás Maduro ha appena conquistato un nuovo mandato presidenziale di sei anni ma sulle contestate elezioni dello scorso fine settimana pesano dubbi di brogli. Maduro rimane alla guida del Paese nonostante debba fare i conti con un'affluenza particolarmente bassa, caduta al 46% rispetto all'80% della precedente tornata, anche per la situazione precaria dell'opposizione spaccata in vari fronti e fondamentalmente incapace di organizzarsi in modo efficace. Una situazione politica a dir poco traballante, che certo non allevia la catastrofe in cui è ormai piombata l'economia venezuelana, dove l'inflazione è da settimane a cinque cifre. La produzione petrolifera è crollata, mentre sul fronte internazionale Caracas risulta sempre più isolata. Probabilmente, senza l'aiuto della Russia (che continua a svolgere opera di puntellamento), l'economia del Paese finirebbe al collasso completo. Leggi anche Caracas ne è la conferma: il socialismo è il male, l'articolo di Daniele CapezzoneAlla luce di tutto questo, l'amministrazione statunitense si prepara a mettere utilizzare nuovamente la pressione economica per colpire Maduro. Il presidente Donald Trump ha siglato infatti lunedì nuove sanzioni, per vietare l'acquisto di debito pubblico venezuelano da parte di cittadini e aziende statunitensi. Le misure sono state giustificate come mezzo di contrasto alla corruzione del governo di Caracas. L'obiettivo di Washington è il gruppo di potere legato a Maduro, con un pensiero alla possibilità di un cambio di regime. Sempre ieri, Mike Pence, vicepresidente a stelle e strisce, ha non a caso usato parole molto dure sulle elezioni tenutesi domenica, non esitando a definire il governo di Caracas una «dittatura». «Le elezioni del Venezuela sono state una finzione - né libere né eque», ha affermato Pence in un comunicato, aggiungendo: «Il risultato illegittimo di questo processo fasullo è un ulteriore colpo per l'orgogliosa tradizione democratica del Venezuela. Ogni giorno, migliaia di venezuelani fuggono da oppressioni brutali e da una povertà opprimente. Gli Stati Uniti non staranno a guardare mentre il Venezuela crolla e la miseria delle persone coraggiose continua. L'America è contraria alla dittatura. Il regime di Maduro deve consentire l'aiuto umanitario in Venezuela e deve permettere che il suo popolo venga ascoltato». Una posizione netta, in linea con l'atteggiamento punitivo adottato da Trump. Il suo provvedimento, infatti, impedisce ai cittadini statunitensi l'acquisto di qualsiasi debito venezuelano o il suo uso come collaterale. E ciò vale anche per asset riguardanti la compagnia petrolifera statale di Caracas, la Pdvsa. Caracas non può nemmeno «vendere, trasferire o promettere come collaterale partecipazioni in qualsiasi entità che controlla con una quota di almeno il 50%». L'ordine esecutivo va ad aggiungere alle misure dell'agosto scorso con cui Trump aveva imposto sanzioni sul regime venezuelano e quelle del marzo 2018 che impediscono agli statunitensi di investire nel petro, la criptovaluta con cui Maduro pensava di sviare le sanzioni finanziarie imposte dagli Stati Uniti. Leggi anche La nazione con più petrolio non riesce a estrarlo, lo speciale di Laris Gaiser, Claudio Antonelli e Stefano GraziosiNon è del resto la prima volta che l'attuale amministrazione statunitense utilizza le sanzioni contro il regime di Maduro. Alcune misure punitive sul fronte finanziario erano difatti già state comminate la scorsa estate. D'altronde, quello venezuelano non è certo l'unico scenario in cui la Casa Bianca sta ricorrendo alla strategia delle sanzioni. Un altro caso è infatti, per esempio, quello dell'Iran. Recentemente, Donald Trump ha deciso di ritirarsi dall'accordo sul nucleare, siglato nel 2015 da Barack Obama. Questa scelta ha sollevato una marea di polemiche, soprattutto da parte dell'Unione europea e della Russia che - al contrario - continuano a difendere l'intesa. In questo momento, all'interno dell'amministrazione statunitense è in corso un braccio di ferra sulla politica estera. Se Trump ha concepito il ritiro probabilmente nell'ottica di un maggiore disimpegno dal Medioriente, altre figure sembrano invece spingere in direzioni differenti. Parrebbe infatti che John Bolton, consigliere per la sicurezza nazionale, punti all'abbattimento del regime khomeinista. Come che sia, lunedì Mike Pompeo, nuovo segretario di Stato, ha minacciato di imporre alla Repubblica Islamica «le più dure sanzioni della storia», qualora Teheran non abbandoni completamente il suo programma nucleare e - soprattutto - non ritiri le proprie forze militari dallo scenario siriano. Anche in questo caso, la finalità è chiaramente quella di mettere l'Iran sotto pressione e costringerlo a sedere al tavolo delle trattative, per arrivare a un nuovo accordo sul nucleare. Questo almeno sembrerebbe l'obiettivo minimo viste le mire delle ali più interventiste dell'amministrazione che puntano al regime change. Un'ipotesi, che non è detto possa piacere troppo a un presidente che non sembra troppo propenso a restare invischiato nelle beghe mediorientali.