2021-04-24
Arbereshe, l’«invasione» di cinque secoli fa
Gli albanesi d'Italia costituiscono un insieme di isole etnico-linguistiche storicamente stanziate nel Sud del Paese e soprattutto in Calabria. Una cucina semplice ed essenziale, ricca di tradizioni antiche e sapori legati a un territorio che ne rispetta le peculiarità.La presenza albanese in Italia rimanda, come flash back immediato, alle prime navi di disperati che provenivano dall'altra costa adriatica dopo la caduta del quarantennale regime di Henver Hoxha. Nei stagionati ricordi con le stellette in grigioverde i capitoli rimossi di una infelice spedizione armata dell'ultimo conflitto. Eppure la presenza albanese, in Italia, vanta una tradizione di oltre cinque secoli. Popolo fiero, abituato a resistere tra le vallate balcaniche giunse qui nel 1448, alla guida del condottiero Demetrio Reres, chiamati dal Re di Napoli, Alfonso I d'Aragona, per sedare le rivolte contadine nei territori del Regno. Vent'anni dopo un secondo arrivo, ma stavolta da esuli in fuga dall'occupazione turca dopo l'uccisione dell'eroe Giorgio Kastriota Scanderberg. Esuli o militari che, smessa la divisa, andarono a ripopolare villaggi abbandonati da guerre o epidemie, dedicandosi all'agricoltura e pastorizia. Comunità di rito greco bizantino fieramente orgogliose delle loro lontane origini, circa 100.000 persone sparse in sette regioni del centro sud, anche se è la Calabria, e in particolare la provincia di Cosenza, a vantare la maggior presenza di questa comunità. Alcuni ricorderanno l'impatto mediatico di Anna Oxa, cantante fuori dagli schemi dell'epoca, albanese di Bari, ma forse pochissimi sanno che uno dei padri della patria, Francesco Crispi, per ben due volte presidente del Consiglio, era albanese di origine palermitana e, assieme a lui, altri personaggi che hanno contribuito a tramandare una memoria ricca di tradizioni, legate prevalentemente alla trasmissione orale, ma in arbereshe, la lingua locale, mentre per Arberia si intendono le varie comunità locali. Su tutte Civita, entro il Parco nazionale del Pollino. Qui vi è il museo etnico albanese e le abitazioni dalla silhouette molto caratteristica, quasi antropomorfa, dette le «case parlanti» o case Kodra, omaggio ad Ibrahim Kodra, pittore di rilievo nazionale del secondo Novecento. Una storia dalle mille sfaccettature, ben raccontata da Angelina De Marco, assieme a Italo Elmo e Ruggero Lazzarini nel documentatissimo Rituali e misteri della cucina arbereshe, che vede ambasciatrice sul campo Anna Stratigò, di Lungro, autrice e testimone di autentici piatti di stretta origine familiare. Molte tradizioni più vive che mai, in relazione al calendario, posto che la ritualità religiosa è il collante di ogni aspetto della vita sociale arbereshe. Ad esempio con la festa dei defunti, la più importante dell'anno, il sabato precedente la prima domenica di carnevale. Ai morti vengono idealmente offerti cibi e bevande, quasi che, per un giorno, vivessero ancora accanto ai loro cari. Si distribuiscono, dopo la cerimonia di rito greco bizantino, le panaghie, grano cotto arricchito da noci tritate e chicchi di melograno. Il venerdì santo è la volta della zingara di Barile, donne agghindate con tutto l'oro del paese in processione a distribuire ceci ai presenti quale garanzia di resurrezione. A Pasqua molto ambite le kukupe carfizzote, ovvero decorazioni di pasta di varia forma dove risaltano uova rosse. Nelle settimane precedenti di quaresima le si teneva da parte. Si raccoglievano nei campi le radici della rozxa, ovvero la robbia. Essiccate e poi bollite con le uova le rendono splendenti di un rosso Ferrari. Una volta raffreddate, una spennellata d'olio le rende lucenti. Altro momento di aggregazione il lunedì di Pasquetta, quando ci si ritrova all'aperto, una grande frittata dove ognuno porta qualcosa di suo: uova, olio, salsicce, ricotta. Il martedì seguente ecco le valljie, danze che rievocano le epiche gesta dell'eroe nazionale Skanderberg contro i turchi. Gli «ostaggi» delle armate danzanti ottengono la libertà dopo aver donato dolci e liquori. Il giorno dell'Ascensione il piatto della festa sono i tagliolini al latte. A Natale non c'è storia, tredici piatti e così sia. A partire dal fillilet, pasta lavorata con ferro da calza e poi con sugo di castrato e peperoncino. Capretto arrosto, ricoperto da un velo di pecorino e pangrattato. Sui dolci liberi tutti. Ad esempio con i kanarikullat, cannoli di pasta sfoglia impastata con il vino, fritti e cosparsi di miele, così come i krustulti, gnocchi fritti ricoperti di miele. I matrimoni sono l'esplosione di tradizione e fantasia. In casa dello sposo si prepara il kulac, o cugliaccio. Una statuaria dolce dalla forte simbologia di rimando alla tradizione. Uccelli (i nuovi sposi), serpenti, il male in agguato, da tenere lontano con l'unione della nuova famiglia. Al momento della cerimonia quello più riccamente decorato viene distribuito dal sacerdote prima alla sposa e poi allo sposo. Il secondo, poi, è per tutti i convitati. Durante il banchetto entra in scena la peta, un vero gioiello di architettura edibile: pasta e frutta secca a volontà. Al centro una cavità. Sta ai due sposi gestire la cosa. «Posti di fronte l'uno all'altra possono infilare le mani e fare la presa. Ad un segnale convenuto ognuno attira a sé la sua parte, con il tifo alle spalle dei rispettivi familiari. Chi, alla rottura del dolce, attira a sé la porzione più grossa dominerà la vita coniugale». Prassi vuole che l'uomo, conscio della sua forza, usi una mano sola, ma è la donna quella che manderà avanti la famiglia e, quindi, affronta più motivata che mai questa prima sfida con entrambe le mani, vincendola il più delle volte. Al di là dei riti e tradizioni vi è la vita quotidiana, quella di ogni giorno. Un capolavoro di costanza e manualità sono le shetrildhat (le striglie) sorta di gomitoli di pasta lavorati pazientemente dalle donne di casa, le mani inumidite da olio e acqua. Alla base dell'impasto la carosella, un grano antico del meridione. Conditi con fagioli poverelli (piccoli e rotondi) ma anche con più robusto ragù di agnello e maiale. In alternativa gli hullonjera, sorta di bucatini senza buco. Quando si vede un compaesano dimagrito per strada lo si sfotte amichevolmente «sembri u ullova», richiamo alla forma sottile di questa pasta. Altro rito laico goloso la preparazione della dromsa, piccoli grumi di pasta quotidiana. Si «benedice» la farina con dei rametti di origano bagnato d'acqua, tante piccole gocce quanto piccoli devono essere i grumi che poi si formano. Si cuoce il tutto poi in una salsa di pomodoro con alloro e un po' di salsiccia sbriciolata. Il rito del divin porcello anche qui più vivo che mai. La sua mattanza coinvolge tutto il paese, compreso il calzolaio che viene a recuperare le setole. A consumo immediato il sanguinaccio, condito con pinoli e aromi e spalmato sul pane. La testa del maiale esposta sul balcone di casa quale simbolo che, anche per i prossimi mesi, la dispensa avrà di che saziare la famiglia. Sui dolci l'arsenale domestico è ricco di fantasia e semplicità degli ingredienti, il che porta a «creature» che lasciano il loro imprinting sui palati golosi. La pitta impigliata è frutto dell'estro delle massaie. Pasta frolla a racchiudere un ambaradan di noci, pinoli, mandorle, fichi secchi, uvetta, immancabile il miele. Le forme più svariate. A roselline, allungate (tipo torrone), a ciambella. In quel di San Giovanni in Fiore non si sono negati la pitta più lunga del mondo: dieci metri di lunghezza per uno di larghezza, per un totale di mille porzioni che hanno fatto la felicità di compaesani e turisti. Al saluto della staffa non può mancare il kabuni, riso cotto in brodo di montone, addolcito poi con aromi vari e frutta secca, passato in forno e poi decorato con zucchero a velo, uvetta e mandorle tritate. Chi lo ha provato ha chiesto il bis.
Jose Mourinho (Getty Images)