
Il 24 scade l'ultimatum al parlamento per la legge sull'eutanasia. Il rischio Far West potrebbe portare la Corte a dare altro tempo.Mancano sei giorni alla pronuncia della Corte costituzionale sul reato che punisce l'aiuto al suicidio. La decisione finale non è scontata: i giudici, che sembravano decisi ad abrogare l'articolo 580 del Codice penale, se non addirittura a svolgere essi stessi una funzione legislativa supplendo al silenzio del Parlamento, alla fine potrebbero anche risolversi a concedere a deputati e senatori altro tempo. Prima un breve riepilogo. Lo scorso anno, la Consulta, interpellata sul caso che coinvolge Marco Cappato, reo di aver accompagnato a morire in una clinica svizzera Fabiano Antoniani alias dj Fabo, tetraplegico in seguito a un incidente, aveva indirizzato una sorta di ultimatum ai rappresentanti eletti: o l'Aula legifera sul fine vita entro il 24 settembre 2019, o saranno i magistrati supremi a esprimersi. Sottinteso, abrogando il reato di aiuto al suicidio.All'approssimarsi della scadenza, però, pare evidente che deputati e senatori non riusciranno ad approvare una norma che regoli l'eutanasia. La materia è divisiva. Il precedente governo aveva evitato accuratamente di sfiorare i temi etici, terreno di scontro tra l'anima tradizionalista della Lega (che mira a pene più miti per gli emuli di Cappato e al potenziamento delle cure palliative) e quella progressista del Movimento 5 stelle (che invece vorrebbe una depenalizzazione totale). Certo, dal pateracchio tra grillini e Pd, più in sintonia su tali questioni, potrebbe nascere un testo di legge votabile dall'attuale maggioranza. La Verità da mesi denuncia che il fine vita poteva essere uno dei capitoli funzionali al corteggiamento fra dem e pentastellati, in chiave di un patto di governo alternativo a quello gialloblù.Fatto sta che neppure la capigruppo del Senato di ieri è bastata ad arrivare a una calendarizzazione della discussione in Aula. Sul tavolo c'erano due proposte: quella di Paola Binetti (Udc) e Maurizio Gasparri (Fi) e quella di Fratelli d'Italia, che era partita da Isabella Rauti ed è stata adottata dal capogruppo, Luca Ciriani. Entrambe le risoluzioni, a vario titolo, chiedevano un rinvio di ogni decisione, per consentire al Parlamento un'adeguata discussione. È la stessa posizione espressa nei giorni scorsi - dopo lungo silenzio - dalla Cei e dal suo presidente, il cardinale Gualtiero Bassetti, il quale aveva invocato dei «tempi supplementari».Nel frattempo, proprio dalla Consulta affiora un retroscena. Gli scenari che si aprono ai magistrati costituzionali sono tre. Nella prima ipotesi, si cancella il reato di aiuto al suicidio. Sarebbe un quadro apocalittico: in assenza di una regolamentazione, eliminarlo potrebbe condurre all'anarchia. Basta pensarci un secondo: non esisterebbe una legge che stabilisce cosa si può fare, cosa no e come farlo, ma non ci sarebbe neppure un reato da punire. Il Far west della «dolce morte». Nella seconda ipotesi, pertanto, la Corte non si limita ad abrogare il reato, ma sopperisce anche al vuoto legislativo con una sorta di norma ad hoc. Una possibilità che potrebbe risultare gradita a Giorgio Lattanzi, che presiede la Consulta dal marzo 2018, ma il cui mandato novennale di giudice costituzionale scade a dicembre. È chiaro che, a futura memoria, sarebbe tutta un'altra cosa abbandonare l'incarico lasciando in eredità la prima norma sull'eutanasia della storia d'Italia. La terza è, invece, l'ipotesi più soft, caldeggiata dagli esponenti politici meno favorevoli al suicidio assistito, dalla Conferenza episcopale e presumibilmente anche dal Vaticano: ieri, in un tweet, Francesco Occhetta, de La Civiltà Cattolica, notava che sarebbe meglio «una “brutta" legge del Parlamento di una buona sentenza della Corte costituzionale». In questo caso, il 24 settembre prossimo i supremi magistrati concederebbero un'ulteriore proroga agli onorevoli. Non è un mistero che, mentre la presidenza della Camera, affidata al grillino «di sinistra», Roberto Fico, gradirebbe un'accelerazione, la terza carica dello Stato, ossia la presidente del Senato, Elisabetta Alberti Casellati, guarderebbe con favore a un rinvio di ogni decisione. Quest'ultimo scenario potrebbe trovare un importante sponsor all'interno della Consulta nell'attuale vicepresidente, Marta Cartabia. Se, come pare probabile, la Cartabia aspira a subentrare a Lattanzi, sarebbe lei ad avere l'opportunità di guidare il dialogo con la politica fino alla successiva e perentoria scadenza. Assumerebbe, in parole povere, un ruolo di primo piano, presumibilmente ben accetto a una giurista il cui nome è spesso circolato persino tra quello dei papabili premier in quota Quirinale. Tra l'altro, la vicepresidente della Corte si accrediterebbe come una figura di garanzia, capace di condurre una mediazione tra mondo cattolico e politici d'ispirazione laicista.Comunque vada a finire, una cosa è certa: la breccia della legalizzazione del suicidio assistito sta per essere aperta. E, come è successo in tutti gli altri Paesi occidentali più liberali in merito, la fessura, dopo qualche anno, diventerà una crepa enorme. Lo dimostrano, tanto per citare gli esempi più eclatanti, l'Olanda (dove si sopprimono gli infermi pure contro la loro volontà) e il Regno Unito (ormai tristemente noto per la sfilza di bimbi malati uccisi «nel loro miglior interesse»). Un'ennesima sconfitta per la Chiesa riformatrice, che a furia di aprirsi al nichilismo imperante sarà messa di fronte all'alternativa di cui parlava Occhetta: una brutta norma o una buona sentenza, priva però di legittimità democratica. Nonché estrema propaggine della preoccupante tendenza del potere giudiziario a tracimare nel campo legislativo.
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