2020-03-24
Regioni, imprese, lavoratori. Giuseppi ha spaccato l'Italia
Siamo sicuri che la fabbricazione di macchine per l'agricoltura e la silvicoltura sia un'attività necessaria che non si può sospendere nemmeno in caso di pandemia, perché un contadino può sempre aver bisogno di comprare un nuovo trattore? E siamo certi che, nonostante il rischio di contagio, non si possano interrompere neppure la produzione di spago e corda, l'estrazione di carbone, il commercio all'ingrosso di legname? A leggere la lista delle 97 attività escluse dal blocco decretato dal governo domenica sera, causa coronavirus, c'è in effetti da restare sorpresi.Giuseppe Conte per ragioni di emergenza ha deciso di dare un giro di vite, costringendo una serie di aziende e partite Iva alla chiusura forzata in nome della salute. Tuttavia, l'elenco di imprese rimaste fuori dal divieto è lungo e fra quelle che vi figurano ce ne sono alcune che si fatica a capire perché siano state giudicate necessarie. Commerciare all'ingrosso articoli per la fotografia e l'elettronica di consumo è forse un'attività che non si può fermare neppure davanti al pericolo di essere infettati dal virus? La riparazione e la manutenzione di telefoni e di apparecchiature elettriche non possono essere sospese nemmeno per un paio di settimane? Sì, la logica usata da chi ha predisposto la lista delle imprese a cui è permesso di lavorare è in effetti difficile, anzi impossibile, da decifrare. Ma forse non c'è niente da comprendere, se non che in questi giorni a Palazzo Chigi la confusione e l'esitazione regnano sovrane. A differenza dell'immagine che il presidente del Consiglio mira a dare di sé, è piuttosto evidente che il governo brancola nel buio ed è costretto a muoversi sotto le pressioni che giungono da governatori e sindaci. Fosse stato per il premier, l'8 marzo non saremmo arrivati alla chiusura della Lombardia e fosse stato sempre per lui molto probabilmente il blocco non sarebbe stato esteso al resto del Paese. Anche all'ultima stretta si è arrivati a forza di sollecitazioni. Da giorni i governatori del Nord, in particolare Attilio Fontana, chiedevano di inasprire i divieti, per costringere più persone a rimanere a casa. Ma per sua stessa ammissione Conte esitava, temendo che la compressione delle libertà individuali fosse troppo forte. Secondo il presidente del Consiglio, la tutela della salute cozzava contro la tutela dei diritti costituzionali. Ma mentre Conte si arrovellava attorno a questi concetti (e nel frattempo espropriava il Parlamento d'ogni potere), il virus continuava la sua opera di contagio fra le persone che per ragioni di lavoro o per pura incoscienza continuavano a uscire di casa. Ci sono voluti altri morti e una crescita esponenziale dei contagi per far capitolare il giurista che è in Giuseppe Conte. Così, sabato sera, dopo aver a lungo rimuginato sulla decisione da prendere, il premier si è presentato agli italiani con una diretta Facebook. Quasi a mezzanotte e dopo essersi fatto attendere per oltre un'ora, il capo del governo ha annunciato il decreto che non c'era. Già, perché fino ad allora non esisteva alcuna lista delle attività consentite e di quelle escluse. Così abbiamo dovuto aspettare l'intera giornata di domenica per capire, mentre a Palazzo Chigi andava in onda una trattativa con le lobby industriali per escludere dal blocco alcune attività. Il risultato è la lista con 97 esenzioni, un blocco con molte eccezioni che ha fatto infuriare perfino i sindacati, i quali, per la prima volta nella loro storia, sono costretti a scioperare non per tenere aperte le fabbriche, ma per farle chiudere.Sì, dicevamo, la confusione regna sovrana, al punto che una prodiana di ferro come Sandra Zampa, sottosegretaria alla Salute, è costretta ad ammettere che molti errori sono stati fatti. Dalle dichiarazioni di fine gennaio a oggi, quando il capo dell'esecutivo si diceva prontissimo ad affrontare il coronavirus, molta acqua è passata sotto i ponti e migliaia di italiani sono finiti prematuramente al camposanto. Oggi è chiaro che il governo non era prontissimo ad affrontare l'emergenza ed è evidente che aver rinviato provvedimenti precauzionali è stato un errore costato molte vite. La mancanza di dispositivi di protezione rappresenta la colpa più eclatante, ma lo è anche l'assenza di un piano per l'emergenza sanitaria ed economica. A distanza di un mese dalla scoperta del primo focolaio infettivo, a Palazzo Chigi nessuno ha ancora chiaro come rilanciare il Paese. Anzi, nessuno sa ancora dire chi pagherà i conti di quelle aziende costrette a chiudere per decreto e, sempre per decreto, obbligate a non licenziare, ma a pagare gli stipendi. Si fa presto a fermare una catena di montaggio. Meno facile è spiegare se la serrata sarà a carico dello Stato o sarà sulle spalle di un datore di lavoro già piegato dalla crisi.