
I pesciolini si trovano nei fondali della Laguna di Venezia. Si possono gustare alla brace oppure fritti, in brodo o con vialone nano per dar vita a un ghiotto risotto. Vanno spinati con pazienza. E si usano anche per insultare.Venezia e la sua laguna sono calamita irresistibile di molte attrazioni golose. Dalle sarde in saor, tesoro calorico e vitaminico dei barcaioli erranti, alle moeche, i morbidi granchietti in muta, autentici gioiellini (anche per chi li acquista) ricercati al mercato di Rialto, un teatro piscatorio da vivere in diretta.E poi ci sono loro, i piccoli gò. Il miglior biglietto da visita, probabilmente, glielo ha dedicato Maria Teresa De Marco: «Per riuscire a pescarli ci vuole un misto di vocazione e ostinazione. Per ottenerne il massimo e il meglio in cucina, caparbietà e amore». Un mix di ingredienti che incuriosisce ad approfondire la loro conoscenza. I gò sono delle piccole creature dei fondali di laguna, in primis di Venezia, ma anche di Grado e Marano lagunare. Un tempo erano considerati squame di seconda scelta, cibo per poveri se non, addirittura, merce di scambio quando la moneta era un lusso. Eppure avevano incuriosito sin da tempi non sospetti Marziale e pure Bartolomeo Scappi, rinascimentale cuoco dei Papi nonché tra i primi a mettere per iscritto i segreti delle migliori ricette, che così li descrive nel 1570 così: «I pescatori li cuociono alla brace, si friggono nell’olio come gli altri pesci e si servono caldi con sugo di melangole (arance amare)».Ancora sino alla fine dell’Ottocento, al mercato di Rialto ne venivano trattati circa 70 tonnellate all’anno, non poco per dei presunti carneade dei fornelli. Negli ultimi decenni sono diventati merce rara e pure ricercata per chi ha avuto la ventura di provarne le indubbie qualità, una su tutte il loro famoso risotto, una delle migliori attrazioni di Burano, l’isola dei merletti ma anche dei migliori pescatori nelle terre di San Marco. Gò testimonial dell’isola anche in un servizio televisivo realizzato dall’americano Anthony Bourdain, cuoco e regista, nei suoi pellegrinaggi golosi in giro per il mondo. Andar per gò, un tempo, era considerato un mestiereto, ovvero un’attività che serviva ad arrotondare le entrate domestiche di giovanetti e pescatori in pensione. Qualche cronista locale è arrivato a individuare sino a otto «specialisti» diversi, anche se poi erano due le principali categorie: i goanti e i brassarioli (cioè quelli che pescavano a braccia). Curiosità mia fatti capanna, meglio riavvolgere la trama e partire dagli inizi.I gò sono dei piccoli pesci che raggiungono le dimensioni medie di 15 centimetri. Vivono nei fondali dove si nutrono di microrganismi, come di piccoli crostacei e molluschi. Poi vi sono anche i goati de mar, cioè quelli che vivono al largo dell’Adriatico, che possono raggiungere i venticinque centimetri, ma è altra cosa. Cugini diversi si trovano pure nel Mar Nero. Tornando agli scenari lagunari, i maschi costruiscono le loro tane, a volte anche sino alla profondità di un metro, attorno alle zostere, sottili piante dalle lunghe foglie nastriformi. Tane con regolare porta d’entrata e di uscita, giusto per ottimizzare il ricambio ambientale. Per questo motivo vengono anche definiti architetti «tessitori di zostere». A primavera «de san Jsepo el go el fa el leto», ovvero costruisce il suo talamo attorno alla metà di marzo, nei dintorni del giorno di San Giuseppe. Stagione degli amori tanto che, nel silenzio delle albe in laguna, può capitare di sentire i loro richiami. Piccolo ma vigoroso, tanto che può arrivare ad accoppiarsi, successivamente, anche con una decina di goate, così sono chiamate le sue partner. Se le trovate al mercato di Rialto, con il ventre ricco di uova, ve le presentano come «panzone». Le uova vengono deposte dalle femmine a gruppi sulle radici delle zostere, per dagli il necessario centro di gravità permanente e non farle portare via dall’alternarsi delle maree.Pur se le pulsioni da lagunar lover li fanno sembrare creature di incerta virtù, i gò si riveleranno, poi, genitori attenti e premurosi. Presidiano il loro nido come un fortino, tenendo lontano altre pinne malintenzionate. La pesca li vede preda possibile quando raggiungono le dimensioni di circa 12 centimetri, che raggiungono in poche settimane, tanto che la pesca li vede preda ricercata tra il finire dell’estate e l’autunno. Sembrano mansueti se non, addirittura, affetti da pigritudine, ma si possono rivelare saette quando c’è da procurarsi la preda così come per fuggire alle mire dei loro cacciatori.Qui entrano in gioco varie strategie. Le più eleganti prevedono l’uso di piccole gabbiette, dette nasse o chebe (gabbie) da gò. I più sbrigativi (i brassaroli) andavano di braccia dentro le tane e raccoglievano a mani basse quanto natura offriva. Gli animi più sensibili riponevano, poi, qualche esemplare dentro la tana divelta, quale augurio di nuove e future stagioni di pesca. C’era anche chi, più grossolano, sondava con una specie di bastone i fondali e, quando intercettava una tana, al fuggire delle piccole creature le raccoglieva con capaci retini.Il gò o lo si ama o lo si ignora, tra i fornelli. Va, infatti, spinato con molta pazienza, ma poi il risultato vale la sfida. Il segreto è giocarsela bene nel valorizzarne la preparazione del fumetto, con testa, lische e alcune verdure, quali cipolla, carota, sedano. Poi si dispongono i filetti su di una padella con il classico soffritto e si inizia a ottimizzarne la cottura con il risotto, generalmente vialone nano. Protagonista, quindi, del risotto alla buranella, il cui storico ambasciatore è stato Ruggero Bovo del Gatto nero, una trattoria tappa fissa dei goanti (e non solo). È una delle poche preparazioni ittiche in cui è concessa la mantecatura con burro e formaggio. Nelle varianti tra le calli si può trovare anche quello cui viene dato il turbo con un po’ di brandy e succo di limone.Gò eclettico che, a seconda della pezzatura, può trovare anche altre preparazioni che lo valorizzano. Quelli più grandi si possono preparare alla griglia o in umido come in frittura assieme alle alici. I più piccoli in minestre, brodi, ma anche con un abbinamento fuori spartito, con pasta e fagioli. Poi ci sono le maciarelle, i go baby. C’è chi li usa come esca per pezzi grossi, branzini in primis, ma possono anche finire fritti al cartoccio, in un mix il più svariato. Un tempo, sulle piccole barche dei pescatori, si usava il gò in broeto. Venivano cotti in acqua di mare acidulata con aceto. Il gò si presenta con una fisiognomica che lo fa riconoscere subito. Doppia pinna dorsale, bocca carnosa, livrea giallo verdastra con molte macchie nere ben distribuite.Le sue carni sono virtuose. Ricche di proteine, vitamine e sali minerali. Gò che non si nega a interpretazioni extra culinarie. Se a Gorizia vi danno del… testa di guda (così è chiamato da quelle parti), non è proprio da prendere come un complimento. A Trieste, nella memoria collettiva, i più anziani ricordano ancora Santa Maria del Guato (la nomea triestina del nostro piccolo protagonista, data quasi per ironica contrapposizione alla sua possanza architettonica), che non è una cattedrale ma la vecchia pescheria, edificata agli inizi del Novecento dall’architetto Giorgio Polli e considerata «uno degli ultimi edifici asburgici», prima della Grande guerra. Tale la possanza, con vista adriatica, che ricordava una cattedrale: tre navate, una specie di campanile che, in realtà, era un artifizio architettonico per celare un più materiale impianto per la distribuzione dell’acqua salata ai banconi di pietra addetti alla vendita. Ora il luogo è diventato un museo d’arte moderna, il Salone degli incanti.Chissà se, nel subconscio, si rifà ancora agli incanti del pescato della vecchia tergeste, tra cui spiccava, protagonista discreto, il piccolo guato, il gò dei lagunari.
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La casa distrutta nell’area di Lublino è stata colpita dal missile sparato da un F-16, non dai velivoli di Vladimir Putin. Salta la pista russa pure per l’omicidio di Andriy Parubiy: l’ha ucciso un ucraino furioso per la morte del figlio al fronte.
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Il premier dalla campagna elettorale di Acquaroli ad Ancona: «Elly Schlein mi chiede di fare nomi e cognomi di chi mi odia? Ci stiamo una giornata».
«Nessuno in Italia è oggetto di un discorso di odio come la sottoscritta e difficilmente mi posso odiare da sola. L'ultimo è un consigliere comunale di Genova, credo del Pd, che ha detto alla capogruppo di Fdi «Vi abbiamo appeso a testa in giù già una volta». «Calmiamoci, riportiamo il dibattito dove deve stare». Lo ha detto la premier Giorgia Meloni nel comizio di chiusura della campagna elettorale di Francesco Acquaroli ad Ancona. «C'é un business dell'odio» ha affermato Giorgia Meloni. «Riportiamo il dibattito dove deve stare. Per alcuni è difficile, perché non sanno che dire». «Alcuni lo fanno per strategia politica perché sono senza argomenti, altri per tornaconto personale perché c'e' un business dell'odio. Le lezioni di morale da questi qua non me le faccio fare».
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