2023-09-01
La Corte europea condanna l’Italia e prova a sdoganare l’utero in affitto
La Cedu dà ragione alla coppia che comprò la figlia in Ucraina: il mancato riconoscimento della parentela l’ha resa un’apolide.Parlamento Ue: I dipendenti possono ora scegliere il sesso neutro e mettere un altro nome sul badge.Lo speciale contiene due articoli.La Corte europea dei diritti dell’uomo è per lo sdoganamento dell’utero in affitto? Così parrebbe, vedendo la condanna emanata da Strasburgo all’Italia, rea d’aver «violato» i diritti di una bambina nata in Ucraina tramite utero in affitto e a cui lo Stato avrebbe negato «riconoscimento legale del rapporto di filiazione con il padre biologico, e facendo di lei un’apolide». Il nostro Paese dovrà così versare a «Sonia» - è il nome di fantasia dato alla piccola, che oggi ha quattro anni - 15.000 euro come risarcimento per danni morali, cui si sommano i 9.536 euro di spese legali sostenute dal padre biologico e dalla madre «intenzionale».La vicenda ha avuto inizio con la nascita della bambina, avvenuta nel 2019 in una clinica di Kiev attraverso l’utero in affitto, pratica che nel Paese di Volodymyr Zelensky prospera perfino oggi, a guerra in corso. Quando però la coppia volata all’estero per avere una figlia è rimpatriata chiedendo al suo Comune, nel Vicentino, la trascrizione dell’atto di nascita ucraino di «Sonia» si è vista opporre un diniego. Di qui l’inizio di una battaglia giudiziaria con, nel 2020, un ricorso al Tribunale di Vicenza, respinto sulla base della sentenza 12193 del 2019 della Cassazione che dichiarava come contraria all’ordine pubblico la trascrizione nei registri dello stato civile italiano del genitore intenzionale di un bambino nato da maternità surrogata. La coppia non si è però data per vinta ed è ricorsa in appello alla Corte di Venezia, chiedendo di riconoscere entrambi i genitori sulla base del certificato di nascita di Sonia o di riconoscere l’uomo quale padre biologico. Un tentativo anch’esso naufragato; di qui, nel settembre 2021, la decisione da parte della coppia, assistita dall’avvocato Giorgio Muccio, di presentare ricorso alla Corte di Strasburgo. In tale ricorso si faceva presente come «il rifiuto delle autorità nazionali di riconoscere il padre biologico e la madre intenzionale come suoi genitori, da un lato, e il fatto che non avesse la cittadinanza, dall’altro» ponessero la bambina «in uno stato di grande incertezza giuridica». In particolare, il legale della coppia ha evidenziato come «Sonia» si trovi sprovvista di documenti d’identità e di tessera sanitaria, senza accesso alla sanità e all’istruzione pubblica. Considerazioni, queste, che la Cedu ha tenuto in forte considerazione. Lo prova il fatto che, condannando l’Italia, i giudici di Strasburgo hanno appunto sottolineato come la bambina sia stata «tenuta fin dalla nascita in uno stato di prolungata incertezza sulla sua identità personale» e come i tribunali italiani abbiano «fallito nell’adempiere all’obbligo di prendere una decisione rapida per stabilire il rapporto giuridico della bimba con il padre biologico». Per questo, se da un lato, processualmente, la vicenda non è ancora del tutto conclusa - bisognerà vedere se ora l’Italia accetterà o meno il verdetto e il prossimo 14 settembre il padre cercherà di ottenere il riconoscimento come genitore biologico contro la sentenza della Corte d’appello -, dall’altro ha già originato diverse e prevedibili reazioni politiche.Si scrive prevedibili perché, come noto, il governo Meloni e il nostro Parlamento, come dimostra l’approvazione avvenuta alla Camera lo scorso 26 luglio, stanno conducendo una battaglia per rendere l’utero in affitto reato universale, perseguibile cioè anche là dove tale pratica veda parti in causa cittadini italiani che ad essa hanno fatto ricorso all’estero. La legge prevede pene da tre mesi a due anni e questo mese sarà esaminata dal Senato. La maggioranza ha quindi una posizione opposta rispetto a quella di chi vorrebbe invece sdoganare la maternità surrogata in Italia; come per esempio vorrebbe fare Riccardo Magi, segretario di +Europa, il quale, alla luce della vicenda della piccola «Sonia», ha dichiarato che spera che il Parlamento ora si attivi «per garantire che i bambini e le bambine nate a seguito del ricorso a qualsiasi tecnica di procreazione medicalmente assistita, inclusa la Gpa, in Italia o all’estero, siano sempre riconosciuti come figli della coppia o della persona che si è assunta la responsabilità genitoriale».Anche Luana Zanella, capogruppo di Alleanza Verdi e Sinistra alla Camera - che proprio sulla vicenda di «Sonia» aveva presentato un’interrogazione al ministro Piantedosi - ha commentato il verdetto dei giudici di Strasburgo dicendo che così «la Corte europea dei diritti umani ha stabilito che l’Italia è colpevole di aver violato il diritto alla vita familiare e privata di questa bambina di una coppia vicentina, padre biologico e madre intenzionale. È molto grave che le cose siano andate così». Che tuttavia ciò possa portare la maggioranza di centrodestra a ripensare la propria posizione sull’utero in affitto, in realtà, pare remoto. Tanto più che la Cedu, cui ora a sinistra ci si appoggia, è la medesima che con un altro verdetto di poco più di due mesi fa - del 22 giugno, per l’esattezza - aveva stabilito che l’Italia non è obbligata a trascrivere automaticamente all’anagrafe i figli nati attraverso la maternità surrogata. Nel 2021, sempre gli stessi giudici di Strasburgo, riferendosi in quel caso però all’Islanda, avevano stabilito che il suo divieto della cosiddetta gestazione per altri è pienamente lecito. Ciò non significa, tanto più mentre c’è la possibilità che l’utero in affitto diventi reato universale per l’Italia, che la condanna di Strasburgo non abbia un suo peso, soprattutto politico. Ma da qui a dire che bisogna legalizzare la compravendita di bambini perché «ce lo chiede l’Europa», ecco, ne passa.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/utero-affitto-corte-europea-2664739554.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="al-parlamento-ue-arriva-il-terzo-genere" data-post-id="2664739554" data-published-at="1693557275" data-use-pagination="False"> Al Parlamento Ue arriva il «terzo genere» Di gender non ce n’è mai abbastanza, devono aver pensato al Parlamento europeo, e infatti ecco che, per i dipendenti dell’Eurocamera arriva il «terzo genere» (third gender). La novità risale a martedì scorso, quando un avviso nel portale web riservato ai lavoratori del Pe ha reso nota la possibilità di «presentare una richiesta per modificare il modo in cui viene gestito il tuo nome, senza la necessità di un documento ufficiale». Più precisamente, si legge che «A seguito dell’approvazione da parte dell’Ufficio di presidenza della Relazione sulla diversità presso il Segretariato del Parlamento europeo, i colleghi che non desiderano avere le sigle convenzionali Mr/M. o Ms/Mme (la sigla di signor e signora in inglese e francese, nda) prima del nome proprio possono ora optare per una terza opzione: Mx/M*». Chi starà aggrottando il sopracciglio deve fare i conti con l’attuale retorica gender fluid: il binarismo maschio e femmina è superato, poiché esiste il terzo sesso (o genere X) e chi lo nega, appellandosi al buonsenso o alla semplice biologia, è un transofobico. Per cambiare genere al Parlamento europeo, sulla carta, basterà quindi identificarsi come non binari e inoltrare una richiesta alla risorse umane. Ma le novità per i dipendenti non si limitano alle sigle: sempre secondo le nuove linee, chiunque voglia potrà far cambiare il proprio nome sul badge o nei sistemi di messaggistica (come Outlook e Jabber), sostituendolo col proprio social name ovvero il nome, diverso da quello sui documenti, con cui le persone trans o non binarie si fanno chiamare, facendolo registrare come usual name (nome abituale). L’attenzione del Parlamento europeo al genere nei documenti e nel linguaggio non è certo nuova. Già nel 2008, mentre Laura Boldrini in Italia presiedeva la Camera e battagliava per introdurre nel linguaggio comune espressioni come «ministra» e «sindaca», le linee guida dell’Europarlamento da utilizzare nei documenti erano stringenti, al fine di fornire «orientamenti pratici per l’uso di un linguaggio equo e inclusivo sotto il profilo del genere in tutte le lingue ufficiali». Tra l’invito a evitare le forme maschili neutre e favorire la forma impersonale passiva per non offendere nessuno, spicca il via libera per i documenti in italiano a usare il termine «uomo» quando sinonimo di «persona nel suo complesso di diritti e doveri» o «essere vivente», «essere umano». Per farla breve, gli ideatori delle linee guida ammettono, si legge, «espressioni idiomatiche come: a passo d’uomo, a misura d’uomo, il cane è il migliore amico dell’uomo, il lavoro nobilita l’uomo, l’uomo è un animale sociale, l’uomo di Neanderthal». Bontà loro.
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
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