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- L’aumento di temperatura previsto entro il 2100 passa da 4 gradi a 2,3. Von der Leyen dà i numeri: «Grazie alle mie leggi verdi».
- Tovaglieri (Lega)al convegno sull’automotive: «Le rivoluzioni non si impongono».
Lo speciale contiene due articoli.
Nella giornata campale di ieri a Bruxelles non poteva mancare la figura di Ursula von der Leyen. Il presidente della Commissione è comparsa davanti al Parlamento europeo in seduta plenaria per riferire sulla riunione del Consiglio europeo del 23 ottobre scorso. La tedesca ha iniziato il suo discorso dai successi (sic) ottenuti dall’Unione europea sui temi climatici. «Dobbiamo accelerare la transizione pulita, ma anche utilizzarla per stimolare crescita e prosperità. Il lavoro per la decarbonizzazione va di pari passo con il lavoro per la nostra competitività». Sarebbe importante capire come Von der Leyen immagini di tenere insieme decarbonizzazione e competitività, che sinora hanno solo generato un originale ossimoro. Dal disastro del settore automobilistico all’aumento dei costi dell’energia, dai buchi nell’acqua di idrogeno e acciaio verde alle gigafactory immaginarie, per l’industria è tutto un calvario. Ciononostante, Von der Leyen si è poi lanciata in due o tre ardite considerazioni sul successo del modello europeo di fronte alla «sfida» (c’è sempre una sfida) climatica. La più semplice: «Da quando abbiamo introdotto il nostro sistema di scambio di quote di emissione, le emissioni nei settori interessati sono diminuite del 50%, mentre il nostro Pil è cresciuto del 27%».
Ebbene, guardando i dati grezzi è così, più o meno, ma questo non dice nulla di ciò che è avvenuto in realtà. Sarebbe meglio dire che il Pil è cresciuto nonostante il sistema di scambio delle emissioni, l’Ets. La riduzione delle emissioni in Ue è dovuta in gran parte alla diminuzione dell’intensità energetica del Pil, a causa della deindustrializzazione, della delocalizzazione delle produzioni industriali e dello spostamento dell’economia verso i servizi. I dati lo dimostrano: dal 2000 la produzione industriale in Ue è crescita in media di uno scarsissimo 0,6% all’anno, cioè del 15% in 24 anni. La quota di Pil attribuita ai servizi è passata dal 69% nel 2000 al 73% nel 2020 (dato Eurostat). La riduzione dell’intensità energetica per unità di Pil (e dunque delle emissioni) non è un effetto della regolamentazione ambientale dell’Ue, bensì della trasformazione strutturale dell’economia verso i servizi. Mentre l’industria veniva dislocata altrove, per esempio in Cina, Vietnam, Messico (che infatti hanno aumentato le emissioni) o chiudeva del tutto. Dunque, più che anti-emissioni, le politiche europee sono state anti-industriali.
Secondo tema toccato da Von der Leyen: «Dieci anni fa, ci stavamo dirigendo verso un aumento della temperatura di 4 gradi Celsius entro la fine del secolo. Oggi siamo più vicini ai 2,3 gradi Celsius. Ancora troppo alto, ma per la prima volta nella storia moderna, la curva si sta piegando. E dimostra la nostra capacità di cambiare le cose in meglio se siamo attivi». Di primo acchito sembra una contraddizione, dato che le emissioni sono aumentate negli ultimi dieci anni. Ma la questione è un po’ diversa: 2,3° sarebbe l’aumento della temperatura al 2100 se tutti gli impegni presi con gli accordi di Parigi venissero rispettati anche oltre il 2035 (fino appunto al 2100, dati dal rapporto Unep). In altre parole, è un’ipotesi di scuola che prende per buone le dichiarazioni fatte dai Paesi di tutto il mondo sugli impegni green, portandoli fino al 2100. Basta che un governo faccia un annuncio e questo viene preso per buono. Contando che l’Ue pesa per solo circa il 6% delle emissioni globali, è chiaro altresì che il ruolo di Bruxelles è del tutto marginale.
Terza gustosa dichiarazione del presidente: «Chi inquina, paga. Se non vuole pagare, innova. E anche il risultato è chiaro: decarbonizzazione e innovazione vanno di pari passo». A parte che la CO2 non è un inquinante, Von der Leyen non è fortunata con i tempi. Proprio due giorni fa è uscito il nuovo Outlook 2025 dell’Iea, che illustra come negli Usa la generazione elettrica per i data center andrà soprattutto a gas naturale, con i consumi di gas che dovrebbero quadruplicare entro il 2035. Insomma, quella di Von der Leyen ieri è parsa soprattutto una via di mezzo tra aria fritta e un racconto di fantascienza.
Nel frattempo, il Consiglio dei ministri delle finanze Ecofin ha bocciato la proposta di riforma della direttiva sulla tassazione energetica (Dte). L’Italia ha posto il veto al testo, per bocca del ministro Giancarlo Giorgetti, spiegando che l’aumento delle accise sui consumi energetici avrebbe distrutto la competitività delle aziende italiane e pesato sulle famiglie. La necessaria unanimità non è stata raggiunta e dunque la direttiva in vigore resta tale, nulla cambia. Musi lunghi, ieri, alla fine del dibattito da parte della presidenza di turno danese e del commissario Ue per il clima, l’olandese Wopke Hoekstra. Indispettita il presidente dell’Ecofin, il ministro delle finanze danese, Stephanie Lose, mentre Hoekstra si è detto sorpreso che i ministri delle finanze non abbiano raggiunto un accordo nemmeno sulla indicizzazione delle tasse energetiche, perché, ha detto, «i ministri delle finanze conoscono il valore dei soldi». Un commento che conferma quanta distanza vi sia tra la Commissione e i meccanismi democratici, quelli che impongono a un ministro di rispondere politicamente delle proprie azioni. Se ancora fosse necessaria qualche conferma.
Sul clima Bruxelles fa chiacchiere. Confermati gli obiettivi sul 2040
«L’Ue si è data definitivamente la zappa sui piedi, approvando una legge ideologica e punitiva, destinata a portare l’Europa verso la catastrofe industriale, mentre i nostri competitor, Cina in testa, continuano a crescere con le centrali a carbone. Dopo l’approvazione irresponsabile di oggi, il continente si avvia inesorabilmente alla desertificazione industriale. Di fronte al ritardo con cui stiamo cercando di rincorrere gli obiettivi fissati per il 2030, non ha alcun senso porre nuovi e più stringenti target per il 2040», è il duro commento dell’eurodeputata della Lega e relatrice ombra della legge sul clima per conto dei Patrioti in Commissione Industria, Isabella Tovaglieri, dopo l’approvazione di ieri da parte del Parlamento Ue, a Bruxelles, della proposta di modifica della «legge europea sul Clima» che stabilisce un nuovo obiettivo intermedio e vincolante di riduzione netta delle emissioni del 90% entro il 2040, rispetto ai livelli del 1990. La posizione adottata a maggioranza dall’Assemblea (379 sì, 248 no e dieci astenuti, con il Ppe diviso in due tra favorevoli e contrari) prevede anche di consentire ai governi nazionali un margine di flessibilità del 5% sul target ricorrendo ai crediti internazionali di carbonio. Nella stessa mattinata, Tovaglieri ha anche presieduto un convegno all’Europarlamento riguardante l’automotive: «Stop motori 2035, quali prospettive per industria e automobilisti?». A moderare il dibattito il giornalista Pierluigi Bonora. Presenti Roberto Parodi, scrittore e giornalista corteggiato dalla Lega per una futura candidatura a sindaco di Milano, lo youtuber Federico Lamperti e il giornalista e youtuber Enrico di Mauro, l’avvocato ed esperto di automotive Gilberto Celletti e Carlo Vulnera, fondatore di «Quelli di Piazza Affari». Connesso da remoto Guido Guidesi, assessore allo sviluppo economico in Lombardia e presidente dell’Automotive Regions Alliance (Ara). «Non sono contraria all’auto elettrica in assoluto, ma all’obbligo. La Commissione Ue era convinta che, vietando la produzione di motori endotermici, la gente andasse al concessionario a prendere l’elettrica. Ma le rivoluzioni, se tali devono essere, non possono essere calate dall’alto, ma dal basso, attraverso la spontaneità», ha spiegato l’europarlamentare. «Fino a quando non vedrò la parola “biocarburanti” messa nera su bianco non crederò a un’apertura di questa Commissione (il 10 dicembre è attesa la proposta di revisione legislativa sulla modifica del regolamento sulle emissioni, ndr) perché fino a ora ha fatto tante promesse, assecondato i desiderata della Germania con gli e-fuel ma sul tema del biocarburante ha sempre fatto orecchie da mercante. Per l’Italia è fondamentale introdurre questa tecnologia, ma anche per salvaguardare l’automotive europeo. Non esiste un piano B», spiega ancora Tovaglieri. Le fa eco Guidesi: «In tutti i territori europei chiudono aziende settimanalmente. Noi stiamo semplicemente cercando di portare delle proposte dal punto di vista industriale, economico e scientifico che sono sul tavolo della Commissione da tempo, affinché l’ambiente sia sì tutelato, ma non a scapito di 13 milioni di posti di lavoro». Guidesi non risparmia le case automobilistiche europee: «Hanno avuto una grande responsabilità, si sono accorte troppo tardi che le nostre istanze servivano soprattutto a loro», e conclude: «Il tempo ora è pochissimo. Mi aspetto che il Ppe sia coerente».Parodi passa invece in rassegna i dati sulle emissioni: «Il 35% proviene dalla Cina, il 15% dagli Usa, l’8% dall’India. L’Ue pesa solo il 7%, l’Italia lo 0,7%. Su questo 7% europeo, le auto private pesano solo il 13%. Eppure i burocrati europei si concentrano sul trasporto privato, andando a ridurre la libertà del movimento, un diritto fondamentale. La sinistra mette ancora una volta in campo misure elitarie». Dello stesso avviso l’avvocato Celletti, che sottolinea il costo elevato dell’auto a batteria «Oggi per comprare la più piccola elettrica utilitaria servono 34.000 euro, non proprio cifre popolari. Bruxelles sta imponendo norme dall’alto, e l’imposizione dall’alto è dittatura, siamo arrivati al «fascismo verde», a voler imporre un cambio drastico senza il consenso dei cittadini».
Toni Capuozzo, partiamo dall’incontro di Trump e Zelensky. Il leader ucraino è stato deluso: il presidente americano non gli fornirà i missili a lungo raggio Tomahawk. Questa decisione può spostare qualcosa sulla possibile tregua, può aver alleggerito le tensioni tra Stati Uniti e il Cremlino? Vedi una pace più vicina, o comunque plausibile?
«Beh, da Gaza Trump è uscito più forte, più credibile agli occhi del mondo, non solo agli occhi del mondo arabo. Evidentemente questa cosa conta anche sul tavolo ucraino. La questione dei Tomahawk è una questione molto simbolica. I Tomahawk potrebbero colpire il territorio russo in profondità e rendere il paio alla Russia, che in questo momento sta colpendo molto le infrastrutture energetiche ucraine. Ma i Tomahawk sono dei missili lanciati da sottomarini o da cacciatorpediniere o da terra. Serve un sistema di tre o quattro camion con pianale, su quale c’è una batteria. Questi camion sono lunghi, il pianale è di 12 metri, la lunghezza di un Tomahawk. Gli aerei americani dove potrebbero sbarcare queste attrezzature? Solo in Polonia, non in Ucraina, altrimenti rischierebbero di finire sotto bombardamento. Immaginate questi camion che percorrono lentamente il tragitto da un aeroporto polacco all’Ucraina? Sarebbero come miele per le api per i russi. Oltretutto sono sistemi che richiedono mesi di addestramento per chi li lancia. Il no alla prosecuzione del conflitto deciso da Trump è ovviamente è anche una strizzata d’occhio a Putin. Quella dei missili, quindi, è stata una questione altamente simbolica».
Nel frattempo, Putin incontrerà Trump in Ungheria. Il portavoce del Cremlino, Peskov, ha dichiarato che «l’Ungheria è il Paese Ue membro della Nato che mantiene una posizione speciale riguardo alla sovranità dal punto di vista della difesa dei propri interessi nazionali. Questo indubbiamente ispira il rispetto di entrambi i leader». Dichiarazione che sembra un giro di parole cordiale per dire che, invece, tutti gli altri Paesi Ue sono zerbini di Bruxelles e Kiev.
«Esattamente, è un premio a un leader, Viktor Orbán, che si è sempre tenuto equidistante. Tenendo i piedi in Europa, tenendo le braccia non aperte nei confronti dell’Ucraina e tenendo un rapporto disteso con la Russia. In più è uno schiaffo in faccia anche all’Europa. Noi abbiamo sempre trattato Orbán da paria, da voce stonata. E Trump invece gli ha dato il premio di un vertice che potrebbe diventare storico, se concludesse qualcosa. Credo che sì, questo sia un regalo di Trump. E uno scappellotto all’Europa. È abbastanza chiaro».
Zelensky dopo l’incontro con Trump ha telefonato agli alleati europei…
«Sì, ha riferito che Trump gli ha sottoposto una roadmap per la pace, obbligatoria. Un elenco di cose che l’Ucraina deve fare. L’alternativa data da Trump a Zelesnky è continuare a stare con Starmer e compagnia oppure stare con gli Usa, che vogliono concludere la pace adesso, congelare tutto, poi sul futuro dei territori si vedrà. Credo che Trump stia applicando lo stesso sistema del metodo Gaza. Sorprendere tutti, anche i suoi interlocutori, con degli zig zag. Basti pensare al vertice vertice in Alaska, con la minaccia di nuove sanzioni. La minaccia di fornire i Tomahawk e ora la smentita. Trump è come un giocatore di poker, imprevedibile».
Ma credi che stia mettendo in atto la «teoria del pazzo» come Nixon?
«No, credo che sia l’effetto di un personaggio “impolitico” in un mondo di personaggi che vengono dalla politica. L’evoluzione di un uomo che in qualche modo disegna anche il futuro, che ci piaccia o meno. Un mondo che non è governato dalle ideologie. Noi siamo ancora abituati a guardare all’Italia. Trump è stato visto malissimo per ragioni di stile. È sembrato una brutta copia di Berlusconi, viene considerato un “essere esterno”. Il suo è un modo di fare che si sottrae alle ideologie. Trump tratta la Cina come una concorrente economica, tratta la Russia come un Paese con il quale è meglio non confrontarsi ed è meglio fare affari, che siano le terre rare o le rotte artiche. È un modo di fare tutt’altro che pazzo. Sembrano piuttosto novecenteschi gli altri leader che continuano a ragionare sulle bandiere dell’ideologia. Quello di destra è il nemico, quello di sinistra è amico. Mi sembra che lui abbia sparigliato le carte. È come se fosse arrivato un inventore di un modo di fare nuovo. Ma è tutt’altro che pazzo. È curioso notare come, mentre noi ci attardavamo a dibattere sulla flottiglia, sulla fame, lui stava concludendo un accordo di cui noi non ci eravamo accorti. L’Italia non l’ha visto arrivare quell’accordo. E ora occorre dire che ci siamo sbagliati. Uno può ragionare per principi così rigidi da ignorare la realtà, oppure accettare con umiltà la realtà. E in questo caso la realtà è che Trump è stato un ganzo».
Restiamo sull’accordo tra Hamas e Israele, che tuttavia rimane traballante…
«Ma sarà traballante per decenni. Parliamo di un conflitto che dura dal 1948. Noi abbiamo un’idea della pace irenista, per noi la pace è dopo l’8 settembre tutti a casa e poi la festa, le immagini dei partigiani nelle strade, gli americani liberatori, il marinaio americano che bacia l’infermiera a Times Square, i due amanti che si baciano a Parigi liberata. La pace per noi è una festa. Ma la pace del dopoguerra è diversa, si tratta più di “congelamenti”. C’è pace nei Balcani? Evidentemente no. C’è pace in Bosnia? No, eppure in qualche modo c’è. Allora aveva firmato Clinton e nessuno disse che era una pace precaria, anche se quello che hanno fatto a Dayton ha dei limiti, ma Clinton aveva il bonus di essere un democratico. Non si trattò di una pace di strette di mano, di abbracci e di riconciliazione. Fu una pace di stanchezza, una pace di sguardi ostili. Queste sono le paci di oggi. In Afghanistan che pace c’è? Abbiamo lasciato i talebani».
Passiamo a Israele. Il ministro israeliano degli Esteri, nei giorni scorsi a Napoli, ha detto che lo Stato ebraico non è isolato. Tuttavia, si ha l’impressione che ha rischiato di esserlo, tanto che Trump ha fatto presente a Netanyahu di non poter fare la guerra con tutto il mondo.
«Trump ha sicuramente esercitato delle pressioni su Netanyahu, però bisogna essere onesti. Ci ricordiamo, meno di un mese fa, quando Netanyahu diede l’ordine di evacuazione da Gaza City. C’è stata una levata di scudi, c’era chi parlava di “soluzione finale”. Hamas ha ceduto proprio dopo quell’attacco a Gaza City, che certo è costato vite civili, ma non si può non riconoscere a Netanyahu di aver fatto una mossa che poi ha fornito il destro a Trump, coi combattenti con l’acqua alla gola a Gaza e la pressione dei Paesi come Qatar, Egitto e Turchia. Poi, ovviamente, non è che Netanyahu non sia andato al Cairo per la festività di Sukkot, non è ci andato perché Erdogan ha detto “o lui o me” e Trump ha scelto Erdogan perché deve tenere insieme il colto e l’inclita. Non so se sarei un elettore di Trump, però onore al merito. Dopodiché, è chiaro che la sinistra, i benpensanti, ma anche la destra, diranno “ma abbiamo accettato la violazione del diritto internazionale”, che ci sono dei bambini ucraini che sono rimasti in Russia, i territori, ecc… e che questa pace è insoddisfacente. Ma ci dicessero allora qual è la pace soddisfacente. Noi italiani la pace l’abbiamo vista nel secondo conflitto mondiale, vedendo perdere l’Istria, la Dalmazia: abbiamo chiuso gli occhi e pagato il prezzo di una guerra che abbiamo perso. Le paci non sono gratis, non è Dio che arriva sulla terra e dice agli uomini di buona volontà “ fate la pace” e gli uomini rinsaviscono. La pace si basa su rapporti di forza, è realismo, è pragmatismo, è voglia di continuare la guerra o voglia di chiuderla».
Resta il nodo sia della West Bank sia della Gaza post ricostruzione, col timore fondato che non possa che ritornare la rabbia sia dei ministri estremisti di Netanyahu, sia di un popolo che ha subito per due anni un massacro per il quale non pagherà nessuno.
«Ma l’alternativa qual è? Fare le flotille, le manifestazioni? Certo, io penso che a molti in Occidente andava bene che le cose continuassero così come erano, perché erano una scusa per mobilitarsi, per sentirsi vivi, per sentire che si conta qualcosa. La questione della Cisgiordania e dei coloni è molto importante. Molto, molto difficile, forse più difficile che quella di Gaza. Ma intanto questo conflitto forse è chiuso. Se ne apriranno altri, è illusorio pensare che diventi un luogo in cui si fanno girotondi come nelle pubblicità di Benetton. Nelle case di molti palestinesi c’è un paio di chiavi appese, sono le chiavi del 1948, quando sono stati cacciati dalle loro abitazioni. Quelle chiavi non sono solo segno di nostalgia, sono anche una promessa di rivincita, di vendetta. I coloni israeliani sono convinti che è Dio ad aver loro assegnato il diritto di vivere sulle colline della Cisgiordania. Quindi figurarsi se non ci saranno conflitti. La sfida è costruire una dirigenza palestinese, che non può essere né qatariota, né egiziana, né tantomeno israeliana. Una dirigenza palestinese che non prevede la cancellazione di Israele, che intraprenda la via di un confronto diplomatico. Ci saranno sempre estremisti da una parte o dall’altra che cercheranno di arrivare allo scontro. Uno deve essere lieto che intanto uno scontro fatale come questo appena interrotto sia cessato».
Le cavillose e surreali limitazioni imposte durante la pandemia ora sono solo un brutto ricordo, ma le loro conseguenze restano attuali. Anche nei tribunali. Quello di Novara, in particolare, ha appena emesso una sentenza storica, riconoscendo per la prima volta il «diritto al commiato» e condannando una casa di riposo a risarcire con 5.000 euro una donna a cui era stato impedito di vedere, per l’ultima volta, il marito morente a causa delle restrizioni anti Covid. Una sorte toccata a tante famiglie, alcune delle quali non poterono nemmeno celebrare le esequie dei propri cari, messe al bando per quasi due mesi dal ministero della Salute, allora guida da Roberto Speranza.
I fatti di Novara risalgono al 2021: le condizioni del signor Pietro, ospite della Rsa dal luglio 2020 e affetto negli ultimi anni da decadimento cognitivo, il 20 gennaio si aggravarono irrimediabilmente, dopo un peggioramento nei giorni precedenti nei quali alla moglie, Rosa, era stato concesso di accedere alla struttura. Come si legge negli atti, alle ore 10.20 circa, la signora Rosa telefonava in struttura per avere ragguagli circa le condizioni del marito».
Il direttore sanitario della struttura «la informava circa un ulteriore drastico peggioramento delle condizioni di salute del marito e ne preannunciava l’imminente decesso. In tale occasione la signora chiedeva quindi nuovamente la possibilità di poter effettuare un accesso urgente in struttura, con tutte le precauzioni del caso (in particolare l’effettuazione di un tampone) per poter assistere il coniuge negli ultimi momenti della sua esistenza in vita. Tuttavia, l’autorizzazione ad effettuare tale accesso le veniva ancora una volta negata.
Solo alle 14.12 la caposala avvisò Rosa dell’imminente decesso, invitandola a raggiungere la struttura. Arrivata verso le 14.30, «veniva quindi invitata comunque a salire per prestare un ultimo saluto alla salma del coniuge, ma si rifiutava, ritenendolo tragicamente vano».
I coniugi della coppia, infatti, come noto al personale della Rsa, «erano entrambi non credenti, convinti dell’assenza di una vita ultraterrena dopo la morte, e che con quest’ultima cessi ogni rapporto umano e spirituale fra le persone». Tali circostanze, scrive il giudice Giuseppe Siciliano nella sentenza, hanno reso ancor più doloroso per la signora Rosa non poter essere vicina al marito, con il quale aveva condiviso 50 anni di vita familiare e lavorativa, negli ultimi momenti della sua esistenza. Questo ha causato un dolore ancor maggiore di quello determinato dalla scomparsa del compagno di una vita».
In propria difesa, la Residenza per anziani dichiarò di essersi semplicemente attenuta alle norme imposte dal governo Conte bis. Il giudice ha in effetti riconosciuto che «il contesto normativo vigente all’epoca (nella quale - innegabilmente - vi era stato e vi era un continuo proliferare di provvedimenti e atti normativi di vario rango, in particolare Dpcm) porta a ritenere che una Struttura insistente nel territorio della Regione Piemonte avesse effettivamente la possibilità di limitare o anche vietare le visite in determinati reparti o nell’intero plesso».
Tuttavia, la toga non ha basato la sua decisione soltanto valutando «la stretta applicazione delle norme» ma controllando come viene declinato nel caso concreto un «potere discrezionale». Il magistrato ha quindi individuato un «eccesso di potere» da parte dei responsabili della Rsa: «In conclusione e in estrema sintesi, un comportamento, in generale plausibile in forza di un potere conferitole dalle norme allora vigenti, ma esercitato in modo non del tutto corretto (con tutta probabilità, un eccesso di prudenza ma comunque un eccesso; un avviso della imminente morte, con tutta probabilità, dato con troppo ritardo; insomma, un “eccesso di potere” non assoluto-arbitrario e generalmente animato da una volontà di cautelare i ricoverati o anche di cautelarsi ma comunque un eccesso di potere».
Il giudice spiega infatti inoltre che «il divieto o limitazione di ingresso (nella Rsa novarese, ndr) è stato adottato anche quando strutture ospedaliere, nello stesso periodo, consentissero le visite soprattutto in caso di visita a soggetto in condizioni di salute oggettivamente gravi».
La sentenza quindi, oltre ad aprire la strada a nuove istanze giudiziarie presentate da familiari che durante il Covid hanno subito simili divieti, ha una forte portata simbolica, poiché riconosce l’esistenza e la risarcibilità del danno da «mancato commiato» per «avere negato quel momento essenziale per l’elaborazione del lutto che è il passaggio, per certi versi formale, di addio».




