Toni Capuozzo, partiamo dall’incontro di Trump e Zelensky. Il leader ucraino è stato deluso: il presidente americano non gli fornirà i missili a lungo raggio Tomahawk. Questa decisione può spostare qualcosa sulla possibile tregua, può aver alleggerito le tensioni tra Stati Uniti e il Cremlino? Vedi una pace più vicina, o comunque plausibile?
«Beh, da Gaza Trump è uscito più forte, più credibile agli occhi del mondo, non solo agli occhi del mondo arabo. Evidentemente questa cosa conta anche sul tavolo ucraino. La questione dei Tomahawk è una questione molto simbolica. I Tomahawk potrebbero colpire il territorio russo in profondità e rendere il paio alla Russia, che in questo momento sta colpendo molto le infrastrutture energetiche ucraine. Ma i Tomahawk sono dei missili lanciati da sottomarini o da cacciatorpediniere o da terra. Serve un sistema di tre o quattro camion con pianale, su quale c’è una batteria. Questi camion sono lunghi, il pianale è di 12 metri, la lunghezza di un Tomahawk. Gli aerei americani dove potrebbero sbarcare queste attrezzature? Solo in Polonia, non in Ucraina, altrimenti rischierebbero di finire sotto bombardamento. Immaginate questi camion che percorrono lentamente il tragitto da un aeroporto polacco all’Ucraina? Sarebbero come miele per le api per i russi. Oltretutto sono sistemi che richiedono mesi di addestramento per chi li lancia. Il no alla prosecuzione del conflitto deciso da Trump è ovviamente è anche una strizzata d’occhio a Putin. Quella dei missili, quindi, è stata una questione altamente simbolica».
Nel frattempo, Putin incontrerà Trump in Ungheria. Il portavoce del Cremlino, Peskov, ha dichiarato che «l’Ungheria è il Paese Ue membro della Nato che mantiene una posizione speciale riguardo alla sovranità dal punto di vista della difesa dei propri interessi nazionali. Questo indubbiamente ispira il rispetto di entrambi i leader». Dichiarazione che sembra un giro di parole cordiale per dire che, invece, tutti gli altri Paesi Ue sono zerbini di Bruxelles e Kiev.
«Esattamente, è un premio a un leader, Viktor Orbán, che si è sempre tenuto equidistante. Tenendo i piedi in Europa, tenendo le braccia non aperte nei confronti dell’Ucraina e tenendo un rapporto disteso con la Russia. In più è uno schiaffo in faccia anche all’Europa. Noi abbiamo sempre trattato Orbán da paria, da voce stonata. E Trump invece gli ha dato il premio di un vertice che potrebbe diventare storico, se concludesse qualcosa. Credo che sì, questo sia un regalo di Trump. E uno scappellotto all’Europa. È abbastanza chiaro».
Zelensky dopo l’incontro con Trump ha telefonato agli alleati europei…
«Sì, ha riferito che Trump gli ha sottoposto una roadmap per la pace, obbligatoria. Un elenco di cose che l’Ucraina deve fare. L’alternativa data da Trump a Zelesnky è continuare a stare con Starmer e compagnia oppure stare con gli Usa, che vogliono concludere la pace adesso, congelare tutto, poi sul futuro dei territori si vedrà. Credo che Trump stia applicando lo stesso sistema del metodo Gaza. Sorprendere tutti, anche i suoi interlocutori, con degli zig zag. Basti pensare al vertice vertice in Alaska, con la minaccia di nuove sanzioni. La minaccia di fornire i Tomahawk e ora la smentita. Trump è come un giocatore di poker, imprevedibile».
Ma credi che stia mettendo in atto la «teoria del pazzo» come Nixon?
«No, credo che sia l’effetto di un personaggio “impolitico” in un mondo di personaggi che vengono dalla politica. L’evoluzione di un uomo che in qualche modo disegna anche il futuro, che ci piaccia o meno. Un mondo che non è governato dalle ideologie. Noi siamo ancora abituati a guardare all’Italia. Trump è stato visto malissimo per ragioni di stile. È sembrato una brutta copia di Berlusconi, viene considerato un “essere esterno”. Il suo è un modo di fare che si sottrae alle ideologie. Trump tratta la Cina come una concorrente economica, tratta la Russia come un Paese con il quale è meglio non confrontarsi ed è meglio fare affari, che siano le terre rare o le rotte artiche. È un modo di fare tutt’altro che pazzo. Sembrano piuttosto novecenteschi gli altri leader che continuano a ragionare sulle bandiere dell’ideologia. Quello di destra è il nemico, quello di sinistra è amico. Mi sembra che lui abbia sparigliato le carte. È come se fosse arrivato un inventore di un modo di fare nuovo. Ma è tutt’altro che pazzo. È curioso notare come, mentre noi ci attardavamo a dibattere sulla flottiglia, sulla fame, lui stava concludendo un accordo di cui noi non ci eravamo accorti. L’Italia non l’ha visto arrivare quell’accordo. E ora occorre dire che ci siamo sbagliati. Uno può ragionare per principi così rigidi da ignorare la realtà, oppure accettare con umiltà la realtà. E in questo caso la realtà è che Trump è stato un ganzo».
Restiamo sull’accordo tra Hamas e Israele, che tuttavia rimane traballante…
«Ma sarà traballante per decenni. Parliamo di un conflitto che dura dal 1948. Noi abbiamo un’idea della pace irenista, per noi la pace è dopo l’8 settembre tutti a casa e poi la festa, le immagini dei partigiani nelle strade, gli americani liberatori, il marinaio americano che bacia l’infermiera a Times Square, i due amanti che si baciano a Parigi liberata. La pace per noi è una festa. Ma la pace del dopoguerra è diversa, si tratta più di “congelamenti”. C’è pace nei Balcani? Evidentemente no. C’è pace in Bosnia? No, eppure in qualche modo c’è. Allora aveva firmato Clinton e nessuno disse che era una pace precaria, anche se quello che hanno fatto a Dayton ha dei limiti, ma Clinton aveva il bonus di essere un democratico. Non si trattò di una pace di strette di mano, di abbracci e di riconciliazione. Fu una pace di stanchezza, una pace di sguardi ostili. Queste sono le paci di oggi. In Afghanistan che pace c’è? Abbiamo lasciato i talebani».
Passiamo a Israele. Il ministro israeliano degli Esteri, nei giorni scorsi a Napoli, ha detto che lo Stato ebraico non è isolato. Tuttavia, si ha l’impressione che ha rischiato di esserlo, tanto che Trump ha fatto presente a Netanyahu di non poter fare la guerra con tutto il mondo.
«Trump ha sicuramente esercitato delle pressioni su Netanyahu, però bisogna essere onesti. Ci ricordiamo, meno di un mese fa, quando Netanyahu diede l’ordine di evacuazione da Gaza City. C’è stata una levata di scudi, c’era chi parlava di “soluzione finale”. Hamas ha ceduto proprio dopo quell’attacco a Gaza City, che certo è costato vite civili, ma non si può non riconoscere a Netanyahu di aver fatto una mossa che poi ha fornito il destro a Trump, coi combattenti con l’acqua alla gola a Gaza e la pressione dei Paesi come Qatar, Egitto e Turchia. Poi, ovviamente, non è che Netanyahu non sia andato al Cairo per la festività di Sukkot, non è ci andato perché Erdogan ha detto “o lui o me” e Trump ha scelto Erdogan perché deve tenere insieme il colto e l’inclita. Non so se sarei un elettore di Trump, però onore al merito. Dopodiché, è chiaro che la sinistra, i benpensanti, ma anche la destra, diranno “ma abbiamo accettato la violazione del diritto internazionale”, che ci sono dei bambini ucraini che sono rimasti in Russia, i territori, ecc… e che questa pace è insoddisfacente. Ma ci dicessero allora qual è la pace soddisfacente. Noi italiani la pace l’abbiamo vista nel secondo conflitto mondiale, vedendo perdere l’Istria, la Dalmazia: abbiamo chiuso gli occhi e pagato il prezzo di una guerra che abbiamo perso. Le paci non sono gratis, non è Dio che arriva sulla terra e dice agli uomini di buona volontà “ fate la pace” e gli uomini rinsaviscono. La pace si basa su rapporti di forza, è realismo, è pragmatismo, è voglia di continuare la guerra o voglia di chiuderla».
Resta il nodo sia della West Bank sia della Gaza post ricostruzione, col timore fondato che non possa che ritornare la rabbia sia dei ministri estremisti di Netanyahu, sia di un popolo che ha subito per due anni un massacro per il quale non pagherà nessuno.
«Ma l’alternativa qual è? Fare le flotille, le manifestazioni? Certo, io penso che a molti in Occidente andava bene che le cose continuassero così come erano, perché erano una scusa per mobilitarsi, per sentirsi vivi, per sentire che si conta qualcosa. La questione della Cisgiordania e dei coloni è molto importante. Molto, molto difficile, forse più difficile che quella di Gaza. Ma intanto questo conflitto forse è chiuso. Se ne apriranno altri, è illusorio pensare che diventi un luogo in cui si fanno girotondi come nelle pubblicità di Benetton. Nelle case di molti palestinesi c’è un paio di chiavi appese, sono le chiavi del 1948, quando sono stati cacciati dalle loro abitazioni. Quelle chiavi non sono solo segno di nostalgia, sono anche una promessa di rivincita, di vendetta. I coloni israeliani sono convinti che è Dio ad aver loro assegnato il diritto di vivere sulle colline della Cisgiordania. Quindi figurarsi se non ci saranno conflitti. La sfida è costruire una dirigenza palestinese, che non può essere né qatariota, né egiziana, né tantomeno israeliana. Una dirigenza palestinese che non prevede la cancellazione di Israele, che intraprenda la via di un confronto diplomatico. Ci saranno sempre estremisti da una parte o dall’altra che cercheranno di arrivare allo scontro. Uno deve essere lieto che intanto uno scontro fatale come questo appena interrotto sia cessato».







