2024-03-04
«La Nato è poco lucida. Che errore non avere un piano B in Ucraina»
Toni Capuozzo (Imagoeconomica)
Toni Capuozzo: «Kiev non può vincere, l’Europa la spinga a negoziare. Per la sua storia, la Meloni doveva dare garanzie di atlantismo».«La pace va fatta con il nemico, bisogna smettere di illudersi di una “pace giusta” e capire quale possa essere la pace “possibile”», spiega alla Verità Toni Capuozzo, inviato di guerra ed ex vicedirettore del Tg5, esperto di crisi e conflitti internazionali.Vladimir Putin è tornato a parlare di armi nucleari, avvertendo che può colpire ovunque. Possiamo ancora dire che è un cane che abbaia ma non morde, o stiamo davvero rischiando di nuovo un’escalation nucleare? «Il punto è che siamo tornati a fare i conti con la realtà. La realtà è che l’arma atomica, tranne quando venne utilizzata per la prima volta, cioè alla fine del secondo conflitto mondiale, è un’arma di deterrenza. E quindi ricordare che nel proprio arsenale si ha un’arma nucleare è ovviamente qualcosa di minaccioso e che fa venire i brividi, ma è il lavoro che fa l’arma nucleare. E bisogna tenerlo presente quando si parla di “riportare i confini dell’Ucraina a quelli del 1991”».Impensabile? «Non credo che la Russia accetterebbe una sconfitta di quelle dimensioni. E pur di non accettare una sconfitta di quelle dimensioni, non si può escludere a priori il ricorso all’arma nucleare».Le sanzioni non stanno funzionando, la Russia ha ancora uomini da impiegare al fronte, a differenza di Kiev, tanto che il presidente francese, Emmanuel Macron, ha proposto di mandare soldati occidentali in guerra. Gli ucraini intanto continuano a morire. Che altro serve perché le potenze della Nato si decidano a sedersi al tavolo delle trattative con Putin?«Mancano la lucidità e la preparazione. Il problema dei Paesi Nato, anche del nostro, è che ci siamo avvicinati a questo conflitto avendo chiari alcuni elementi, come la non partecipazione diretta, aiuti militari e finanziari a fondo perduto e sostegno politico a distanza. Ciò, naturalmente, non prevedeva un piano B, perché c’era solo un piano A, l’ha ripetuto anche poco tempo fa Charles Michel, il presidente del Consiglio europeo. La posizione dell’Europa si è incollata su quella ucraina, si ripete che è Kiev a decidere come si debba uscire dal conflitto, e per l’Ucraina l’unica uscita è la vittoria. Kiev ha dimostrato di non essere in grado di farcela da sola, e questo pone drasticamente in risalto il fatto che non abbiamo un piano B. L’Ucraina non ha mai avuto un piano B realistico. Solo “vittoria o morte”».E l’Unione europea le è andata dietro…«Abbiamo adottato il tema della vittoria come unica soluzione. Purtroppo, si insiste sul concetto di pace giusta. La pace giusta per l’Ucraina consiste solo nel ritornare ai confini del 1991. Ma non è la pace giusta per la Russia. Bisogna iniziare a maneggiare il concetto di “pace possibile”. E negoziare un cessate il fuoco, mica una pace in cui i nemici si abbracciano, ovviamente. Dovrebbe essere l’Europa a dire all’Ucraina di accontentarsi di questo, magari in cambio di una scorciatoia per l’ingresso nell’Unione europea, o un accordo che garantisca la sicurezza dell’Ucraina. Restando realisti».Invece la Von der Leyen ha proposto di comprare le armi con lo stesso schema dei vaccini. Questo bellicismo a oltranza, avrà ripercussioni sul voto europeo di giugno? «Io spero di sì. Spero che i bellicisti fino in fondo perdano i voti. Perché hanno assunto una posizione di comodo, oltre che suicida per l’Europa. Lo dissi fin da subito, combatteremo fino all’ultimo ucraino… d’altronde combattono loro, mica noi. Ma le cose possono andare peggio di così. Mosca potrebbe voler conquistare altri territori. E l’Europa sta giocando con la vita degli ucraini. Che, certo, sono padroni del loro destino. Ma credo sia già evidente oggi che sono a corto di uomini. Per quante armi tu possa dar loro, hanno bisogno di uomini. E ora stanno raschiando il fondo del barile. È passato il primo momento dell’entusiasmo patriottico, in cui i più nazionalisti sono corsi alle armi». In Russia la propaganda è invece più penetrante e riesce a ottenere più appoggio alla guerra da parte dei russi. Almeno da quanto filtra. «I russi sono molto nazionalisti. Almeno quanto gli ucraini. E c’è un terreno abbastanza fertile per la propaganda. Se presenti al cittadino russo la Nato come una minaccia, che vuole arrivare fino ai tuoi confini, credo che non sia così difficile fare appello al nazionalismo. E bisogna tenere presente una cosa che l’Occidente ha sempre nascosto, ovvero che in Ucraina ci sono ucraini che si sentono filo russi. Qualcuno può pensare siano stupidi, controcorrente, perché non sognano l’Occidente, il nostro modo di vivere, ma sono così, piaccia o meno. Questa è una guerra anche civile, basti pensare che i genitori del nuovo comandante in capo delle Forze armate ucraine, Oleksandr Syrsky, vivono in Russia. Abbiamo trascurato un conflitto che durava da anni».Il sostegno, senza se senza ma, del governo italiano a Volodymyr Zelensky, il quale ha annunciato di star compilando liste di «putiniani» in Italia, può far perdere al governo italiano appoggio dai suoi elettori?«Credo che anche il più distratto degli elettori si renda conto che il governo non aveva altra scelta. Questo governo, per la sua composizione, diciamo, doveva per forza garantire a Washington che sarebbe stato più atlantista di qualunque altro governo. Un po’ come è successo nel 1999 con i bombardamenti Nato su Belgrado. Il presidente del Consiglio allora era Massimo D’Alema. Un ex Pci. È ovvio che un governo presieduto da una premier che viene da una destra non europeista, di tradizione non atlantica, avrebbe dovuto mostrare una disciplina che altre formazioni politiche non avrebbero avuto. Un democristiano o un socialista poteva essere un po’ più disobbediente, rispetto a un ex comunista o a un ex fascista. Ma non so quanto la politica estera conti poi nelle urne. Abbiamo sì pagato di più l’energia e perso occasioni di export vantaggiose, ma siamo riusciti a scampare il grande freddo. Prima o poi il logorio della guerra moderna arriverà anche nelle economie domestiche. Ma non siamo ancora a quel punto».Passando al Medio Oriente, la risposta di Israele ad Hamas, con l’altissimo numero di civili uccisi, sta causando qualche perplessità perfino agli Stati Uniti. Israele si sta isolando?«Israele non è mai stato così isolato dal punto di vista del giudizio politico. Però gli Usa non gli hanno mai fatto mancare l’appoggio decisivo. Diciamo che è una guerra psicologica tra Netanyahu e Washington. Ma credo che Netanyahu sia incoraggiato a tenere duro, sia dal sostegno della popolazione, che è evidentemente ferita dall’orrore del 7 ottobre e non vuole sentire parlare di negoziati con Hamas, se non per la liberazione degli ostaggi, sia dalla speranza che vinca Donald Trump a novembre. Adesso c’è un braccio di ferro tra la maggioranza di governo israeliana, che al suo interno ha partiti vicini ai coloni, e la Casa Bianca che punta su un altro governo, che sia più interlocutorio. Uno dei temi su cui si sono pronunciati maggiormente gli Stati Uniti è la necessità di smantellare gli insediamenti dei coloni in Cisgiordania. Netanyahu ha invece autorizzato 3.200 nuove unità abitative, ovvero altre 3.200 famiglie nei territori occupati che Washington chiede di evacuare». Ha ancora senso parlare della soluzione dei due Stati?«In questo momento i più forti in Israele e tra i palestinesi sono quelli che dicono “un solo Stato”. Bisognerebbe risuscitare l’Autorità palestinese o qualcuno che accetti di essere riformista e un processo, graduale ovviamente, che porti a uno Stato palestinese, che comporta però accettare che Israele abbia degli apparati di controllo della sua sicurezza invadenti. Non è un percorso facile, è un percorso riformista che i palestinesi hanno accettato solo nel periodo di Arafat, rinunciando però ad accordi che oggi accetterebbero stappando bottiglie di champagne, e che Israele ha portato avanti con governi che non erano condizionati dagli ultra-religiosi e dai coloni. Sono necessari cambiamenti politici vistosi. In Israele un altro tipo di maggioranza, tra i palestinesi la fine di Hamas e il fatto che l’Autorità palestinese o qualcun altro, disponibile a negoziare, a trattare, a spendere i soldi nel costruire case, non nel procurarsi razzi, prenda il posto di Hamas».Stando a oggi, un’utopia…«Credo che costruire due Stati richiederebbe dei muri di separazione alti, però se posso esprimere un sogno è che ci sia una minoranza ebrea nella Palestina liberata che goda gli stessi diritti di cui gode la minoranza araba in Israele. Gli arabi israeliani votano, hanno partiti, hanno parlamentari, vivono, lavorano, vengono curati, pagano le tasse in Israele. Sono esattamente come i cittadini israeliani, anche se ovviamente si riconoscono con meno intensità nella stella di Davide, ma hanno i diritti degli altri. Penso che potremmo sognare la coesistenza di minoranze, sarebbe educativo per la Palestina fare i conti con la minoranza israeliana, provare a sfruttarne le capacità professionali e anche la ricchezza, la possibilità di investire, dando ai coloni il diritto di vivere nei posti che la religione assegna loro, secondo il loro credo. Ma con un passaporto palestinese, cioè scindendo finalmente religione e nazionalità».
Federica Mogherini e Stefano Sannino (Ansa)
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