2023-12-12
L’antisemitismo sveglia le università: l’ideologia woke non è più benvenuta
Manifestazione pro Palestina ad Harvard (Getty Images)
Le imbarazzanti risposte dei rettori delle maggiori università americane al Congresso non lasciano più dubbi. Il luogo della conoscenza è diventato un laboratorio politico intollerante. E i finanziatori ebraici scappano.Il meme che circola tra le redazioni dei grandi quotidiani americani, i corridoi del Congresso e le aule universitarie, rappresenta il cancello di Auschwitz con la frase «Dipende dal contesto» al posto della lugubre scritta «Arbeit Macht Frei» («Il lavoro rende liberi») che campeggiava all’ingresso dei lager nazisti. «Dipende dal contesto», è stata la risposta dei rettori di alcune università americane, convocati dal Congresso per rispondere alla domanda «Invocare il genocidio degli ebrei è violenza?», a seguito delle manifestazioni pro Intifada scoppiate in alcuni college americani dopo il 7 ottobre. Liz Magill, presidente della University of Pennsylvania ha dovuto rassegnare le dimissioni: «Fuori una», ha commentato la deputata Elise Stefanik, lasciando intendere che l’obiettivo dei repubblicani - che oltre a lei hanno audito anche i rettori di Harvard e del Massachusetts Institute of technology (Mit) - è farli dimettere, tutti. Claudine Gay, primo rettore afroamericano ad Harvard, resiste, sebbene le polemiche su di lei si stiano moltiplicando. Dopo l’audizione, durante la quale Gay ha sostanzialmente spiegato che la direzione tutela gli studenti ebrei solo quando dalle parole di odio si passa ai fatti ha chiesto pubblicamente scusa. Domenica, più di 300 docenti hanno firmato una petizione che esortava il consiglio d’istituto a resistere alle richieste di rimozione di Gay in nome della «libertà accademica», ma contemporaneamente più di 1.800 finanziatori di Harvard - molti appartenenti alla comunità ebraica - hanno avvisato che ritireranno le loro donazioni. Anche Sally Kornbluth del Mit ha ricevuto discreto sostegno, ma la pressione su di lei aumenta e uno dei maggiori finanziatori, il miliardario Bill Ackman, ha chiesto di licenziarla.La discussione sull’antisemitismo dilagante nei campus e sul doppio standard adottato contro l’hate speech da questi atenei, a cominciare da quelli prestigiosi della Ivy League, ha suscitato un clamore mediatico enorme negli Stati Uniti. In Aula, Magill si è appellata al Primo emendamento: «La Costituzione dice che le opinioni non sono punibili». Sarebbe anche corretto, se non fosse che nell’ultimo decennio la politicizzazione a senso unico nelle università statunitensi ha prevalso sulla cultura del sapere e del merito. Molti college hanno ingabbiato la libera espressione all’interno di codici rispettosi solo di alcuni gruppi, quasi sempre minoritari, a discapito di altri; sono arrivati perfino a consigliare agli studenti quali abiti indossare pur di non offendere la sensibilità di alcune comunità, e la cancel culture ha fatto il resto. È quindi naturale che, all’interno di queste policy politicamente corrette, la comunità ebraica si stia chiedendo perché la creazione di spazi sicuri si eserciti in favore di qualcuno ma non degli ebrei. «Le buone intenzioni - assicurare che i giovani di qualsiasi estrazione sociale si sentissero a proprio agio - si sono trasformate in un’ideologia dogmatica e hanno trasformato le università in luoghi in cui si persegue un obiettivo d’ingegneria politica e sociale, non certo il merito», ha commentato Fareed Zakaria, editorialista del Washington Post. Peggio ancora, ha rimarcato Niall Ferguson, amministratore ad Austin e senior fellow a Stanford, «chi crede ingenuamente nel potere dell’istruzione di instillare la moralità, non ha studiato la storia delle università tedesche nel Terzo Reich» (citofonare Valditara).L’antisemitismo latente deflagrato nelle università americane, in effetti, ha portato alla luce il cortocircuito dell’ideologia woke, che influenza i più autorevoli centri del sapere Usa da un decennio: «A mia memoria, non ci sono state iniziative di questo genere neanche dopo l’11 settembre», dice Zakaria. La popolazione ha ormai perso la fiducia nelle università, che erano considerate istituzioni: la percentuale di giovani adulti che ritengono che conseguire una laurea in atenei prestigiosi sia «molto importante» è crollata dal 74% del 2013 al 41% nel 2019. La ragione è una sola: le università americane, da centri di eccellenza, si sono trasformate in istituzioni che promuovono un’agenda politica a senso unico. Non è un caso che soltanto l’1,66% dei docenti di Harvard si identifichi come «conservatore», mentre l’82,46% si descriva come «democratico» o «molto democratico». Al tempo stesso - nota Zakaria - «oggi un docente bianco non ha alcuna chance di ottenere una cattedra in un dipartimento importante». Le università americane, insomma, hanno smesso di concentrarsi sull’eccellenza per perseguire esclusivamente i programmi Dei (Diversity, Equity and Inclusion) basati non più sul merito ma sulle quote di razza o di genere. L’emergere di gruppi pro Intifada dentro i campus e l’audizione al Congresso dei rettori hanno però accelerato il grande cambiamento che sta avvenendo all’interno della società americana, compattando la classe dirigente e quella politica nel dare l’ennesima spallata al sistema woke, perseguito con zelo dall’amministrazione Biden. E questo, alla vigilia delle elezioni presidenziali del prossimo anno, è un segnale molto importante.
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