
La tensione fra il primato del diritto di Bruxelles e le nostre norme è divenuta strutturale e non più episodica. L’assetto post-Maastricht è refrattario alla democratizzazione, la sola scelta coerente è quella del recesso.L’intervista al professor Geminello Preterossi, pubblicata sulla Verità del 30 giugno 2025, ha offerto interessanti spunti di riflessione. Preterossi, accademico di altissimo valore scientifico, coglie perfettamente come il percorso di integrazione europea, di natura oligarchica e non democratica, soprattutto dopo Maastricht, abbia comportato, in nome del primato del diritto dell’Unione europea su quello interno, incluse le norme costituzionali (salvi i principi supremi dell’ordinamento, i cosiddetti controlimiti), una progressiva e sempre più invasiva erosione della sovranità statale, accompagnata da una delegittimazione dello stesso Testo fondamentale.Che la Corte costituzionale, fin dalla sentenza n. 14/1964, abbia forzato, nel cosiddetto «dialogo» con la Corte di Lussemburgo, le «limitazioni di sovranità» per giustificare l’adesione dell’Italia alle allora Comunità europee (oggi Unione europea) è evidente. Come osservava Guastini, si è così consentita l’introduzione surrettizia nel nostro ordinamento di un sistema di revisione costituzionale alternativo a quello previsto dall’art. 138 della Costituzione, il tutto a vantaggio di un ordinamento che si caratterizza per un profondo deficit di democraticità. In altri termini, attraverso leggi ordinarie (e non costituzionali) di autorizzazione alla ratifica dei Trattati europei, il giudice delle leggi si è servito dell’art. 11 per permettere una limitazione (rectius: una cessione, come ben precisa Preterossi), di sovranità in modo permanente e illimitato, una volta per tutte.La dottrina europeistica, ovviamente confortata sul punto dalla Corte costituzionale, contro ogni logica giuridica, ha teorizzato che le norme ad effetto diretto contenute nei Trattati, come i regolamenti e le direttive che presentano questa caratteristica, sarebbero subordinate unicamente ai principi supremi della Carta, con ciò ignorando l’ovvia constatazione che i Trattati e le fonti vincolanti da essi derivanti traggono la loro forza giuridica non dalla Costituzione, bensì da semplici leggi ordinarie.L’idea del professor Preterossi di costituzionalizzare i controlimiti è certamente interessante, ma pone alcuni problemi di coerenza sistematica. La categoria, di per sé «ambigua» e «mitologica», dei controlimiti non coincide con l’intero contenuto precettivo della Costituzione e si presta a interpretazioni soggettive, di fatto rimesse all’organo di garanzia costituzionale senza un’adeguata determinazione normativa. Del resto, Palazzo della Consulta non li ha mai concretamente attivati: si è limitato a minacciarne l’utilizzo con la nota sentenza n. 115/2018 relativa al caso Taricco.Anche l’idea, diversa dalla precedente, di un inserimento testuale del principio del primato della Costituzione (e non solo dei principi supremi) sulle norme europee rischierebbe di produrre più problemi che soluzioni, dal momento che proprio nel Testo fondamentale in vigore, a seguito della discutibile riforma del Titolo V operata con la legge costituzionale n. 3 del 2001, si rinviene all’art. 117, comma 1, un’espressa previsione secondo cui la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto non solo della Costituzione, ma anche dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. Tale disposizione è gerarchicamente collocata allo stesso livello delle altre norme costituzionali e non può essere semplicemente ignorata o subordinata in modo meccanico a un principio di primato, qualora quest’ultimo venisse costituzionalizzato. Si porrebbe, pertanto, un problema di antinomia interna che non sarebbe agevolmente risolvibile con il solo richiamo ai controlimiti, poiché questi ultimi non configurano un criterio di soluzione delle contraddizioni tra norme costituzionali, ma soltanto un limite esterno alla penetrazione del diritto dell’Unione. Perciò, la «costituzionalizzazione» del primato della Costituzione dovrebbe necessariamente comportare anche una modifica del comma 1 dell’art. 117. Tuttavia, in tale evenienza, si esporrebbe lo Stato italiano a gravi conseguenze nell’ordinamento comunitario, giacché la mancata applicazione uniforme del diritto europeo costituirebbe una violazione degli obblighi derivanti dai Trattati e darebbe luogo all’avvio di procedure di infrazione ex art. 258 Tfue. L’esperienza polacca è emblematica: la sentenza della Corte costituzionale polacca K 3/21 del 7 ottobre 2021, che ha riaffermato la supremazia della Costituzione polacca sul diritto dell’Unione, sia pure limitatamente alla materia dell’organizzazione del sistema giudiziario, ha determinato un duro scontro istituzionale con la Commissione europea, culminato nell’attivazione di procedure di infrazione e nella sospensione di erogazioni di fondi. Ciò dimostra che, finché si resta entro il sistema del Leviatano eurounitario, ogni rivendicazione di primato costituzionale si risolve in un conflitto permanente con gli organi dell’Unione e in un inasprimento del controllo politico-finanziario sulla sovranità nazionale.In definitiva, se la tensione fra primato del diritto dell’Unione e supremazia costituzionale è divenuta strutturale e non più episodica, e se l’assetto normativo post-Maastricht si è consolidato su un fondamento oligarchico refrattario a qualunque processo di democratizzazione, la sola scelta davvero coerente è quella drastica del recesso ex art. 50 Tue. Ogni altra ipotesi, per quanto animata da intenzioni condivisibili, finisce per consolidare una contraddizione insanabile tra un ordinamento costituzionale che, in tesi, rivendica il proprio primato, e un ordinamento sovranazionale che lo nega.
Volodymyr Zelensky e il suo braccio destro, Andriy Yermak (Ansa)
Perquisiti dall’Anticorruzione uffici e abitazione del «Cardinale verde»: parte dei fondi neri sarebbe servita a procurargli una casa di lusso. Lui e l’indagato Rustem Umerov dovevano strappare agli Usa una pace meno dura.
Alì Babà. Nelle mille ore (e mille e una notte) di registrazioni, che hanno permesso alle autorità ucraine di ascoltare i «ladroni» della Tangentopoli di Kiev, era quello il nome in codice di Andriy Yermak, braccio destro di Volodymyr Zelensky. Ieri, dopo un blitz degli agenti, è stato costretto a lasciare il suo incarico di capo dello staff del presidente. La Procura anticorruzione (Sapo) e l’Ufficio anticorruzione (Nabu) hanno condotto perquisizioni nel suo appartamento e nei suoi uffici. Non risulta indagato, ma la svolta pare imminente: la testata Dzerkalo Tyzhnia sostiene che a breve saranno trasmessi i capi d’imputazione.
Sergio Mattarella (Getty Images)
Rotondi: «Il presidente ha detto che non permetterà di cambiare le regole a ridosso del voto». Ma nel 2017 fu proprio Re Sergio a firmare il Rosatellum a 4 mesi dalle urne. Ora si rischia un Parlamento bloccato per impedire di eleggere un successore di destra.
Augusto Minzolini riferisce una voce raccolta da Gianfranco Rotondi. Durante un incontro tenuto con l’associazione che raggruppa gli ex parlamentari, Sergio Mattarella si sarebbe lasciato andare a un giudizio tranchant: «Non permetterò che si faccia una legge elettorale a ridosso del voto. Abbiamo avuto l’esperienza del Mattarellum, che fu approvato poco prima delle elezioni, e diversi partiti arrivarono alle urne impreparati. Bisogna dare il tempo alle forze politiche di organizzarsi e prepararsi alle nuove elezioni». Lasciamo perdere il tono usato dal capo dello Stato («non permetterò…» sembra una frase più adatta a un monarca che al presidente di una Repubblica parlamentare, ma forse l’inquilino del Quirinale si sente proprio un sovrano) e andiamo al sodo.
Francesco Saverio Garofani (Imagoeconomica)
Il consigliere anti Meloni applica il detto siciliano: «Piegati giunco che passa la piena».
La piena è passata e il giunco Francesco Saverio Garofani può tirare un sospiro di sollievo. Da giorni tutto tace e il consigliere di fiducia del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, sorveglia rinfrancato gli umori dei palazzi e i tam-tam dei media. Calma piatta, le ostilità si sono placate.
Secondo il procuratore generale di Napoli, Aldo Policastro, il ministro Nordio «realizza il Piano diabolico di Gelli del 1981». Ma paragonare il lavoro di governo e Parlamento a un’organizzazione eversiva è follia.
Facciamo il punto novembrino del confronto referendario: intanto, chi è il frontman della campagna del No?A rigor di logica e per obbligo di mandato correntizio dovrebbe essere il vertice Anm (il presidente Cesare Parodi, ndr), non foss’altro perché rappresenta quel sistema che dal sorteggio risulterebbe più che sconfitto; secondo altri, dovrebbe essere il procuratore di Napoli (Nicola Gratteri, ndr), per la migliore conoscenza dei salotti televisivi; secondo altri ancora dovrebbe essere il presidente del Comitato del No (Enrico Grosso, ndr), un accademico insigne e molto ottimista («Una volta emerso quel sistema opaco con Luca Palamara, è stata fatta pulizia. Lo stesso Csm ha dimostrato che le degenerazioni appartengono al passato», ha dichiarato sulla Repubblica del primo novembre).





