2020-12-11
Ungheria e Polonia vincono con i veti. Noi prendiamo schiaffi dicendo solo sì
Viktor Orban (Thierry Monasse/Getty Images)
L'Italia ha scelto di seguire la dottrina Monti: andare a Bruxelles e puntare i piedi è una cosa che non si fa. I leader di Budapest e Varsavia, invece, con i loro no sono riusciti a smussare il ricatto sullo «stato di diritto».La tesi eurolirica l'abbiamo sentita mille volte: guai a mettere il veto in sede europea, perché faremmo autogol. Per correttezza, è doveroso ridare la parola al sostenitore più autorevole di questa scuola di pensiero, il senatore a vita Mario Monti. Intervistato il 30 novembre scorso a Omnibus su La7, Monti ha dichiarato: «Supponiamo che l'Italia usi il diritto di veto in sede di Consiglio Ecofin e di Consiglio europeo per bloccare la riforma del Mes. Se l'Italia bloccasse questo, anzitutto legittimerebbe con la forza e l'autorevolezza di un grande Paese fondatore l'uso stesso del diritto di veto, che è quella cosa che stanno minacciando Ungheria e Polonia dicendo: “Se voi altri Stati membri non togliete di mezzo la condizionalità che lega le erogazioni dei fondi europei al rispetto dello stato di diritto, noi mettiamo il veto al Recovery fund e a tutto il resto, e guardate ( è sempre Monti che parla, evocando il ragionamento che, a suo avviso, avrebbero potuto fare Varsavia e Budapest, ndr) lo fa anche l'Italia, quindi non accusateci di essere dei sabotatori"». L'ex premier con il loden ha proseguito così: «La seconda ragione per cui l'Italia farebbe un regalo a Polonia e Ungheria, riscoprendo in fondo solidarietà sovranistiche che sembravano superate nel recente passato, è che meno l'Italia si mette nelle condizioni di potersi approvvigionare di fondi anche col Mes, più dipende dal Recovery fund e quindi accresce la forza contrattuale dei due Paesi dissidenti Ungheria e Polonia». Conclusione: «Quindi faremmo diversi autogol. Primo: in caso in cui arrivi in Italia, prima o poi, una crisi bancaria, avremmo uno strumento meno efficace senza la riforma del Mes. Secondo: ci precluderemmo la possibilità di usare fondi che non dipendono dal veto di Ungheria e Polonia, e quindi accresceremmo la forza contrattuale, e se vogliamo di ricatto, di quei due paesi».Ecco, diciamo che le scelte tattiche e negoziali del governo italiano hanno rispettato in modo pedissequo le indicazioni di Monti: nessun veto, e anzi - signorsì - un semaforo verde preventivo alla riforma del Mes. Risultato? Come La Verità ha spiegato ripetutamente, viene potenziata da subito, specie agli occhi dei mercati, una divisione tra «buoni» e «cattivi», tra Paesi a debito basso e a debito alto. Con la - purtroppo - realistica convinzione generale, a nuove regole in vigore, che l'Italia potrebbe essere sottoposta a un regime piuttosto penetrante di sorveglianza e relative misure correttive, fino a una più facile ristrutturazione del nostro debito. Spostiamoci adesso a Budapest e a Varsavia, che invece hanno deciso di adottare una tattica negoziale opposta, minacciando fino all'ultimo il veto su Recovery fund e bilancio europeo, se non fossero state considerate le loro obiezioni. Risultato? Bisognerà attendere oggi la conclusione dei lavori del Consiglio, ma al momento si profila un rilevante successo dei due governi. Già ieri, a margine dei lavori, Viktor Orbán e Mateusz Morawiecki, avevano l'aria dei vincitori della partita. Ecco Orbán: «Siamo a un centimetro dal raggiungere un'intesa. Credo che siamo molto vicini a raggiungere un buon accordo per l'unità dell'Ue». Ed ecco Morawiecki: «Dobbiamo evitare decisioni arbitrarie. Per questo siamo impegnati in un negoziato che chiarisce la linea di distinzione tra regolamentazione anti frode, che supportiamo, e stato di diritto. Confondere le due cose crea il rischio di un attacco per motivazioni politiche».E perché i due hanno mostrato soddisfazione? Perché nella bozza di intesa si stabilisce che il contestato regolamento sul tema dello stato di diritto (e sul legame tra questo e la possibilità di accesso ai fondi europei) non sarà immediatamente operativo, ma sarà subordinato a un pronunciamento della Corte di giustizia europea, nel caso (molto probabile) in cui Ungheria e Polonia decidessero di interpellarla. In particolare, se Varsavia e Budapest sollevassero un ricorso sul tema, le linee guida del regolamento sullo stato di diritto sarebbero decise solo dopo la decisione della Corte. A ben vedere, siamo dinanzi a un elementare punto di principio: per lo meno, si interpelli preventivamente un soggetto giurisdizionale (almeno teoricamente) terzo. In realtà, la battaglia di Varsavia e Budapest (che pure, ovviamente, hanno sistemi politico-istituzionali caratterizzati da alcune innegabili criticità) andrebbe sostenuta anche per una ragione più generale. L'espressione «stato di diritto» evoca concetti che sono cari alla migliore tradizione giuridica occidentale, ma, nei termini in cui è usata a Bruxelles, ha una pericolosa carica di vaghezza e ambiguità, che può portare a politicizzare la questione, e a produrre attacchi nei confronti di governi «sgraditi». Dunque, è altissimo il rischio di valutazioni politiche e discrezionali: di recente, ad esempio, la Polonia è stata sottoposta a ipotesi di misure punitive (addirittura fino alla minaccia di privarla del diritto di voto) per una riforma giudiziaria nazionale che subordina la magistratura all'esecutivo. È evidente che su un tema del genere - comunque la si pensi - le valutazioni tenderanno a essere sempre più opinabili e politiche che non freddamente giuridiche o ancorate a benchmark oggettivi. Morale: Varsavia e Budapest hanno due volte ragione. Nel merito, perché non si sono fatte imporre una logica di attacco politico arbitrario. Nel metodo, perché hanno dimostrato che se si va a un negoziato con la schiena dritta e sapendo anche minacciare dei no, si porta a casa qualche risultato in più.
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