2025-06-30
Così l’umanità distrugge il proprio futuro mentre cerca l’immortalità
La denatalità colpisce ormai Paesi ricchi e poveri. Un saggio di Paul Morland contesta falsi miti (come il legame tra più istruzione e meno figli) e suggerisce idee innovative.Nel suo «La terra al di là», il visionario autore americano Gene Wolfe presenta uno scrittore di guide turistiche rinchiuso senza motivo nella prigione di un Est totalitario. Ma le cose non sono sempre come sembrano.Il fumettista Inio Asano immagina un mondo dove il capitalismo della sorveglianza ha trionfato e per accedere ai servizi serve una tessera. Ricorda qualcosa?Lo speciale contiene tre articoli.Quella di sconfiggere la morte è una antichissima ambizione dell’umanità che ultimamente ha preso una inaudita concretezza. Nella Silicon Valley e altrove ci sono fior di luminari e di aziende all’avanguardia che lavorano per garantire l’esistenza di quelli che il transumanista Yuval Harari ha chiamato «amortali». A che punto sia la ricerca lo spiega Venki Ramakrishnan in un suggestivo saggio appena pubblicato da Adelphi e intitolato Perché moriamo. La nuova scienza dell’invecchiamento e la ricerca dell’immortalità. Il fatto, però, è che mentre ci si preoccupa di eliminare l’invecchiamento e allontanare la morte, si affronta solo superficialmente il vero dramma del tempo presente, ovvero la denatalità. Se ne discute molto, è vero, ma spesso con poca cognizione di causa e le soluzioni proposte di conseguenza sono per lo più blande. Un bel modo per rafforzare le convinzioni pro nataliste consiste nel leggere quello che finora è il libro più esaustivo è interessante sulla materia, ovvero Senza futuro. Il malessere demografico che minaccia l’umanità di Paul Morland, curato da Marco Valerio Lo Prete per Liberilibri, appena arrivato sugli scaffali. Morland, ricercatore presso il Birkbeck College della University of London, affronta il tema in una prospettiva finalmente globale, esamina i dati e soprattutto cerca di andare alla radice del problema. «Sostenere l’idea di fare figli non è mai stato così urgente. Sostenere l’idea di fare figli non è mai stato così difficile», attacca Morland. «È urgente a causa del collasso imminente della popolazione che osserviamo in comunità dopo comunità, Paese dopo Paese, continente dopo continente. Nel complesso la popolazione mondiale continua a crescere, ma lo fa a un ritmo sempre più lento. [...] È difficile a causa del mutamento delle preferenze e di una marea montante di attitudini che si combinano assieme per convincere sempre più persone ad avere sempre meno figli, o nessun figlio. Un tempo era il progresso materiale a far diminuire la natalità. Oggi, in buona parte del mondo, sono alcuni ideali e stili di vita a essere in contrasto con la formazione di una famiglia». Il quadro generale è persino peggiore di come viene talvolta presentato dalla stampa. «Uno spettro si aggira per l’Europa. Come anche per l’Asia orientale e buona parte del Nord America, e a breve si aggirerà per la maggior parte del pianeta. È lo spettro dello spopolamento», dice Morland. «Per decenni ha intaccato le periferie, le zone rurali remote e le cittadine più piccole della Rust Belt, e noi l’abbiamo ampiamente ignorato. Non si tratta di luoghi dove di solito vivono quelli che fanno opinione come giornalisti, accademici o politici, o ai quali questi ultimi prestano molta attenzione. Ma adesso le conseguenze dello spopolamento sono finite sulle prime pagine dei giornali. Ed è solo l’inizio. Stiamo assistendo al travaglio del parto di una nuova epoca, di un’epoca - però - senza travagli di parto. Si può tracciare un grande arco che unisce i due estremi del continente eurasiatico, dallo Stretto di Gibilterra allo Stretto di Johor, e viaggiare soltanto attraverso Paesi che hanno di fronte a sé la prospettiva del declino della popolazione, in una vasta Mezzaluna infertile. Questa include Paesi con popolazioni a maggioranza protestante, cattolica, islamica e buddista, Paesi ricchi e Paesi poveri, regimi democratici e regimi autoritari. Per alcuni di essi il fenomeno è nuovo, per altri è vecchio di decenni. In questi Stati e nazioni, quasi indipendentemente dalle caratteristiche sociali, economiche o politiche, il declino della popolazione e le sue conseguenze ora diventano parte inevitabile del futuro. C’è la promessa di robot e altri strumenti tecnologici, ma se vogliamo riparare il nostro rubinetto che perde, se vogliamo che gli scaffali dei nostri supermercati siano riforniti e che qualcuno si prenda cura dei nostri genitori anziani, le macchine non sono ancora dietro l’angolo per salvarci. Per il momento abbiamo bisogno di esseri umani per fare le cose, così come sempre è stato». Questo è il dramma vero. Nonostante la questione demografica non sia più ignorata da media e politici come in passato, la via di uscita non sembra essere a portata di mano. «È vero, il numero degli abitanti della Terra sta ancora crescendo ma il tasso di crescita si è dimezzato dagli anni Settanta e continua a calare. E mentre il numero complessivo di persone sta gradualmente raggiungendo il picco [...] l’umanità invecchia rapidamente. Una parte sempre maggiore della crescita del numero di esseri umani si deve al ritardo della morte, mentre sempre meno alla creazione di nuove vite».Ma quali sono le cause che ci hanno condotto fino a qui? Almeno per quanto riguarda l’Europa, la secolarizzazione è stato un fattore determinante. «Una volta che tra le persone si sono diffuse le modalità di controllo della propria fecondità, inizia a manifestarsi la differenza che fa la religione», dice Morland. «Sembra che i francesi siano stati tra i primi utilizzatori delle tecniche di pianificazione familiare, e la differenza dei tassi di fecondità tra le aree dove il cattolicesimo era forte e tutte le altre poteva già essere osservata nel XIX secolo. Secondo uno studio piuttosto originale, la regione cattolica della Bretagna ha sperimentato un declino della natalità dopo un secolo o più rispetto alla regione relativamente secolarizzata della Provenza, una testimonianza dell’effetto ritardante della religione sul calo della natalità. Nella Francia del XIX secolo e dell’inizio del XX, la religione sembra aver fatto la differenza per quasi 1 figlio o tre quarti di figlio per donna. Per quanto riguarda il mondo contemporaneo, negli Stati Uniti il tasso di fecondità di quanti frequentano servizi religiosi ogni settimana si è mantenuto costantemente al di sopra del tasso di sostituzione negli ultimi quarant’anni, mentre per quanti si considerano non religiosi la fecondità è diminuita a tal punto che adesso il gap tra i due gruppi è di circa quattro quinti di figlio pro capite». Molti dei dati e delle tendenze che Morland descrive sono tutto sommato conosciuti, per quanto difficili da affrontare. Ma ce ne sono anche altri leggermente meno noti. Ad esempio il legame fra istruzione e natalità. Si tende a pensare che più le donne sono istruite meno vogliano e facciano figli. Ma non è del tutto vero. «Negli Stati Uniti», dice lo studioso, «le ragazze che abbandonano la scuola superiore senza diplomarsi hanno quasi 2,75 figli ciascuna. Quelle che smettono di studiare dopo il diploma di scuola superiore ne hanno appena più di 2, mentre quelle che entrano all’università ma non si laureano ne hanno poco meno di 2. Le laureate hanno appena 1,3 figli. Ma l’aspetto interessante è che nella fascia superiore c’è una sorta di svolta verso l’alto. Le donne con un master hanno 1,4 figli e quelle con un dottorato 1,5». Soprattutto in certe fasce esiste una maggiore propensione delle donne istruite per la procreazione, anche se poi in quel caso il problema è la difficoltà a trovare compagni adeguati. Come se ne esce? Lo abbiamo ripetuto spesso: il problema è culturale. Lo dimostra la comparazione fra Israele e Corea: a parità di condizioni, le donne israeliane hanno molti più figli. Perché? Perché è differente la cultura in cui sono immerse. «Qualunque cosa faccia il governo in termini di aiuto alle persone, se la cultura è sfavorevole a questo riguardo e non cambia, il governo continuerà a premere su una porta chiusa», dice Morland. «Il governo dovrebbe spingere, da parte sua, ma anche noi dobbiamo fare la nostra parte come società. Il compito del governo sarebbe quello di plasmare la nostra cultura in modo da garantire che la porta sia aperta per coloro che desiderano famiglie più numerose». La speranza di invertire la rotta, dunque, esiste. Ma comporta un notevole impegno. Se la cultura dominante non smetterà di essere nemica della famiglia, al nostro futuro possiamo dire addio.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/umanita-distrugge-proprio-futuro-2672500551.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="la-fanta-geopolitica-di-gene-wolfe-ci-fa-viaggiare-in-uneuropa-da-incubo" data-post-id="2672500551" data-published-at="1751289148" data-use-pagination="False"> La fanta-geopolitica di Gene Wolfe ci fa viaggiare in un’Europa da incubo Di mondi perduti abbonda la letteratura fantastica e avventurosa. Non si tratta di altri pianeti ma di plaghe terrestri cui si giunge attraverso zone impervie. Si vedano i ghiacciai di Orizzonte perduto, superati i quali si trova Shangri-La, nel romanzo di James Hilton, o la Terra di Maple White, su un altopiano che domina la giungla venezuelana, dove approda l’indomito professor Challenger, di cui narra Sir Arthur Conan Doyle in Il mondo perduto. Per non dire di Pellucidar, vasto continente sotterraneo del ciclo di Edgar Rice Burroughs, tutt’uno con Caprona, «la terra dimenticata dal tempo», nei pressi del polo sud, dove i dinosauri scorrazzano tra foreste popolate di uomini scimmia e laghi ribollenti di lava eruttata da vulcani sommersi. Tanto da avere suggerito ad Alberto Manguel e Gianni Guadalupi la compilazione del fondamentale Manuale dei luoghi fantastici, che guida i lettori lungo i percorsi della geografia immaginaria.Non sembra però rientrarvi La terra al di là (Atlantide, pp. 377, euro 20), di Gene Wolfe. Innanzitutto per la fisionomia creativa dell’autore. Il suo è un nome a sé stante nella galleria degli americani che hanno dato i contributi determinanti al passaggio dagli scientific romances di Herbert George Welles e dai Voyages Extraordinaires di Jules Verne alla moderna fantascienza, quella codificata quasi cento anni fa dalla rivista Amazing Stories, diretta da Hugo Gernsback. «Gene Wolfe è il nostro Melville» asserì Ursula K. Le Guin.Sta di fatto che si è ritagliato fin dall’inizio un ruolo di confine tra il sense of wonder e la speculative fiction. La terra al di là è la sintesi perfetta delle due modalità narrative. La prima si esprime nella figura del protagonista, Grafton, specializzato in guide di viaggio. All’inizio sembra un incrocio fra Macon Leary, il protagonista di Turista per caso, diretto da Lawrence Kasdan nel 1988, e Allan Quatermain, il precursore di Indiana Jones in Le miniere di Re Salomone. Dell’uno ha un certo piglio scanzonato, dell’altro lo spirito avventuroso. La voglia di escapismo diviene però controversa: «Mi era sempre sembrato che la vita in America fosse molto migliore rispetto a dove mi trovavo allora ma, per certi versi, in realtà deve essere molto peggio, perché fa impazzire di odio così tante persone…»Una considerazione che gli deriva dall’inspiegabile prigionia di cui è oggetto nell’insondabile Paese dell’Europa orientale dove l’ha portato il suo lavoro. Qui viene in mente L’altra parte, di Alfred Kubin, che reinventa Praga sovrapponendole la città deforme di Perla, un misto di rovine, ruderi e resti di epoche indefinibili, il tutto sovrastato dal mistero di un sovrano che opprime l’intera popolazione, accolita di disturbati e affetti da patologie mentali mescolati con nostalgici, esteti e maniaci.Solo che nel Paese dove langue Grafton le cose acquisiscono l’agghiacciante tonalità della Guerra Fredda. Il totalitarismo del posto non è scalfibile. Il malcapitato passa da un interrogatorio all’altro. Non sono sufficienti i richiami al Kafka de Il processo. Su Grafton pende l’accusa di spionaggio, una virtuale condanna a morte nell’agone della geopolitica con cui si fronteggiano ovest ed est. Facile prendere posizione a favore della vittima. Una caratteristica di Wolfe invece è quella di seminare dubbi. Del resto, cos’ha a disposizione chi legge se non quanto afferma lo stesso Grafton? Quindi potrebbe darsi che la sua professione sia una «leggenda», come si definisce nell’ambiente dello spionaggio una falsa identità, di copertura dell’agente in campo. Lo sa bene chi frequenta la spy-story, dove buoni e cattivi si confondono nella «foresta di specchi», come la definì James Jesus Angleton, capo del controspionaggio della Cia e fautore di una caccia alle streghe devastante per l’intelligence. Inoltre, gli aguzzini di Grafton sono tipici torturatori che non pretendono confessioni bensì conferme delle loro tesi precostituite. Oppure è vero quello che in altra sede asserisce Gene Wolfe: «Non penso che nessuno sia più intrinsecamente santo». Forse non lo è Grafton.La terra al di là non offre alcuna consolazione risolutiva. Tanto più che si svolge appunto in un posto privo di riscontri. Ancora Wolfe: «Poiché ho già affidato altri manoscritti ai mari del tempo, ora ne comincio un altro. Non dubito che ciò sia assurdo, ma io non sono – né mai lo sarò – così sciocco da illudermi che essi potranno trovare un lettore, neppure in me stesso». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/umanita-distrugge-proprio-futuro-2672500551.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="ipercontrollo-una-distopia-familiare" data-post-id="2672500551" data-published-at="1751289148" data-use-pagination="False"> Ipercontrollo, una distopia familiare Come sarebbe il mondo se trionfasse una volta per tutte il capitalismo di sorveglianza con la sua logica dei lasciapassare? Probabilmente assomiglierebbe molto a quello immaginato dal grande fumettista giapponese Inio Asano in Mujina into the Deep, la sua nuova serie pubblicata in Italia da Planet Manga. Lo scenario è la metropoli giapponese Tsukumo, decisamente simile alla grandi città occidentale di oggi. Tutti gli abitanti, se vogliono poter vivere serenamente e accedere ai servizi necessari, devono possedere una rights card, una carta dei diritti. Vi ricorda qualcosa? Beh, in effetti non è poi un meccanismo troppo dissimile da quello del green pass: se vuoi entrare in un locale o in un ospedale, devi esibire la tesserina.E chi non la possiede o la perde? Qui cominciano i guai. Senza la carta dei diritti semplicemente non esisti. Proprio come ai tempi del Covid, coloro che ne sono privi spesso vengono evitati dagli altri o insultati. In ogni caso sono considerati meno che umani. Poiché vivono al di fuori della società, sono di fatto anche al di fuori della legge, ergo è assolutamente irrilevante che commettono o meno crimini o delitti: è come se a connettermi fosse una pianta o un sasso. Succede quindi che alcuni di questi «senza diritti», chiamati Mujina, per sopravvivere diventano sicari a pagamento. Si addestrano, possiedono armi e strumenti tecnici all’avanguardia e assumono droghe potenzianti. Rischiano la pelle ma guadagnano molto e in questo modo possono acquistare i diritti e le possibilità di cui la società li priva.In tale contesto Asano ambienta una trama d’azione coinvolgente, adattissima per un film o una serie tv. Ma ciò che colpisce di questo manga non è tanto l’intrattenimento che offre (e ne offre parecchio). Quanto, piuttosto, il raro livello di satira sociale a cui giunge. Inio Asano, dopo tutto, è un autore diverso dalla media. Ha firmato serie di grande successo come Buonanotte Punpun e Solanin, e si è guadagnato un largo seguito di fan. Stavolta però il suo lavoro risulta spiazzante. La delicatezza raffinata delle sue precedenti opere qui diventa eleganza grafica al servizio di una storia cruda, adulta, violenta e talvolta sensuale. Ma non c’è nulla di gratuito, intendiamoci.Il racconto ruvido serve a descrivere una società spietata in cui i soldi e la fama valgono più della vita umana. Una società che stigmatizza e esclude, dominata dalla superficialità digitale. Come nel nostro mondo, l’universo futuro di Asano è il regno degli e delle influencer, al cui culto si dedicano i più. Tra i più celebrati vi sono proprio alcuni «senza diritti» divenuti killer. E più si va avanti nella lettura più ci si chiede: ma sono davvero questi ultimi i cattivi? O sono soltanto i prodotti disastrati di una società dell’ipercontrollo? Comunque sia, il futuro immaginato da Asano sembra molto probabile. E fa venire voglia di ripensare il presente.
Luca Zaia intervistato ieri dal direttore della Verità e di Panorama Maurizio Belpietro (Cristian Castelnuovo)
Ecco #EdicolaVerità, la rassegna stampa podcast del 22 ottobre con Carlo Cambi