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2025-06-30
Così l’umanità distrugge il proprio futuro mentre cerca l’immortalità
iStock
Quella di sconfiggere la morte è una antichissima ambizione dell’umanità che ultimamente ha preso una inaudita concretezza. Nella Silicon Valley e altrove ci sono fior di luminari e di aziende all’avanguardia che lavorano per garantire l’esistenza di quelli che il transumanista Yuval Harari ha chiamato «amortali». A che punto sia la ricerca lo spiega Venki Ramakrishnan in un suggestivo saggio appena pubblicato da Adelphi e intitolato Perché moriamo. La nuova scienza dell’invecchiamento e la ricerca dell’immortalità.
Il fatto, però, è che mentre ci si preoccupa di eliminare l’invecchiamento e allontanare la morte, si affronta solo superficialmente il vero dramma del tempo presente, ovvero la denatalità. Se ne discute molto, è vero, ma spesso con poca cognizione di causa e le soluzioni proposte di conseguenza sono per lo più blande. Un bel modo per rafforzare le convinzioni pro nataliste consiste nel leggere quello che finora è il libro più esaustivo è interessante sulla materia, ovvero Senza futuro. Il malessere demografico che minaccia l’umanità di Paul Morland, curato da Marco Valerio Lo Prete per Liberilibri, appena arrivato sugli scaffali. Morland, ricercatore presso il Birkbeck College della University of London, affronta il tema in una prospettiva finalmente globale, esamina i dati e soprattutto cerca di andare alla radice del problema.
«Sostenere l’idea di fare figli non è mai stato così urgente. Sostenere l’idea di fare figli non è mai stato così difficile», attacca Morland. «È urgente a causa del collasso imminente della popolazione che osserviamo in comunità dopo comunità, Paese dopo Paese, continente dopo continente. Nel complesso la popolazione mondiale continua a crescere, ma lo fa a un ritmo sempre più lento. [...] È difficile a causa del mutamento delle preferenze e di una marea montante di attitudini che si combinano assieme per convincere sempre più persone ad avere sempre meno figli, o nessun figlio. Un tempo era il progresso materiale a far diminuire la natalità. Oggi, in buona parte del mondo, sono alcuni ideali e stili di vita a essere in contrasto con la formazione di una famiglia».
Il quadro generale è persino peggiore di come viene talvolta presentato dalla stampa. «Uno spettro si aggira per l’Europa. Come anche per l’Asia orientale e buona parte del Nord America, e a breve si aggirerà per la maggior parte del pianeta. È lo spettro dello spopolamento», dice Morland. «Per decenni ha intaccato le periferie, le zone rurali remote e le cittadine più piccole della Rust Belt, e noi l’abbiamo ampiamente ignorato. Non si tratta di luoghi dove di solito vivono quelli che fanno opinione come giornalisti, accademici o politici, o ai quali questi ultimi prestano molta attenzione. Ma adesso le conseguenze dello spopolamento sono finite sulle prime pagine dei giornali. Ed è solo l’inizio. Stiamo assistendo al travaglio del parto di una nuova epoca, di un’epoca - però - senza travagli di parto. Si può tracciare un grande arco che unisce i due estremi del continente eurasiatico, dallo Stretto di Gibilterra allo Stretto di Johor, e viaggiare soltanto attraverso Paesi che hanno di fronte a sé la prospettiva del declino della popolazione, in una vasta Mezzaluna infertile. Questa include Paesi con popolazioni a maggioranza protestante, cattolica, islamica e buddista, Paesi ricchi e Paesi poveri, regimi democratici e regimi autoritari. Per alcuni di essi il fenomeno è nuovo, per altri è vecchio di decenni. In questi Stati e nazioni, quasi indipendentemente dalle caratteristiche sociali, economiche o politiche, il declino della popolazione e le sue conseguenze ora diventano parte inevitabile del futuro. C’è la promessa di robot e altri strumenti tecnologici, ma se vogliamo riparare il nostro rubinetto che perde, se vogliamo che gli scaffali dei nostri supermercati siano riforniti e che qualcuno si prenda cura dei nostri genitori anziani, le macchine non sono ancora dietro l’angolo per salvarci. Per il momento abbiamo bisogno di esseri umani per fare le cose, così come sempre è stato».
Questo è il dramma vero. Nonostante la questione demografica non sia più ignorata da media e politici come in passato, la via di uscita non sembra essere a portata di mano. «È vero, il numero degli abitanti della Terra sta ancora crescendo ma il tasso di crescita si è dimezzato dagli anni Settanta e continua a calare. E mentre il numero complessivo di persone sta gradualmente raggiungendo il picco [...] l’umanità invecchia rapidamente. Una parte sempre maggiore della crescita del numero di esseri umani si deve al ritardo della morte, mentre sempre meno alla creazione di nuove vite».
Ma quali sono le cause che ci hanno condotto fino a qui? Almeno per quanto riguarda l’Europa, la secolarizzazione è stato un fattore determinante. «Una volta che tra le persone si sono diffuse le modalità di controllo della propria fecondità, inizia a manifestarsi la differenza che fa la religione», dice Morland. «Sembra che i francesi siano stati tra i primi utilizzatori delle tecniche di pianificazione familiare, e la differenza dei tassi di fecondità tra le aree dove il cattolicesimo era forte e tutte le altre poteva già essere osservata nel XIX secolo. Secondo uno studio piuttosto originale, la regione cattolica della Bretagna ha sperimentato un declino della natalità dopo un secolo o più rispetto alla regione relativamente secolarizzata della Provenza, una testimonianza dell’effetto ritardante della religione sul calo della natalità. Nella Francia del XIX secolo e dell’inizio del XX, la religione sembra aver fatto la differenza per quasi 1 figlio o tre quarti di figlio per donna. Per quanto riguarda il mondo contemporaneo, negli Stati Uniti il tasso di fecondità di quanti frequentano servizi religiosi ogni settimana si è mantenuto costantemente al di sopra del tasso di sostituzione negli ultimi quarant’anni, mentre per quanti si considerano non religiosi la fecondità è diminuita a tal punto che adesso il gap tra i due gruppi è di circa quattro quinti di figlio pro capite».
Molti dei dati e delle tendenze che Morland descrive sono tutto sommato conosciuti, per quanto difficili da affrontare. Ma ce ne sono anche altri leggermente meno noti. Ad esempio il legame fra istruzione e natalità. Si tende a pensare che più le donne sono istruite meno vogliano e facciano figli. Ma non è del tutto vero.
«Negli Stati Uniti», dice lo studioso, «le ragazze che abbandonano la scuola superiore senza diplomarsi hanno quasi 2,75 figli ciascuna. Quelle che smettono di studiare dopo il diploma di scuola superiore ne hanno appena più di 2, mentre quelle che entrano all’università ma non si laureano ne hanno poco meno di 2. Le laureate hanno appena 1,3 figli. Ma l’aspetto interessante è che nella fascia superiore c’è una sorta di svolta verso l’alto. Le donne con un master hanno 1,4 figli e quelle con un dottorato 1,5». Soprattutto in certe fasce esiste una maggiore propensione delle donne istruite per la procreazione, anche se poi in quel caso il problema è la difficoltà a trovare compagni adeguati.
Come se ne esce? Lo abbiamo ripetuto spesso: il problema è culturale. Lo dimostra la comparazione fra Israele e Corea: a parità di condizioni, le donne israeliane hanno molti più figli. Perché? Perché è differente la cultura in cui sono immerse. «Qualunque cosa faccia il governo in termini di aiuto alle persone, se la cultura è sfavorevole a questo riguardo e non cambia, il governo continuerà a premere su una porta chiusa», dice Morland. «Il governo dovrebbe spingere, da parte sua, ma anche noi dobbiamo fare la nostra parte come società. Il compito del governo sarebbe quello di plasmare la nostra cultura in modo da garantire che la porta sia aperta per coloro che desiderano famiglie più numerose». La speranza di invertire la rotta, dunque, esiste. Ma comporta un notevole impegno. Se la cultura dominante non smetterà di essere nemica della famiglia, al nostro futuro possiamo dire addio.
La fanta-geopolitica di Gene Wolfe ci fa viaggiare in un’Europa da incubo
Di mondi perduti abbonda la letteratura fantastica e avventurosa. Non si tratta di altri pianeti ma di plaghe terrestri cui si giunge attraverso zone impervie. Si vedano i ghiacciai di Orizzonte perduto, superati i quali si trova Shangri-La, nel romanzo di James Hilton, o la Terra di Maple White, su un altopiano che domina la giungla venezuelana, dove approda l’indomito professor Challenger, di cui narra Sir Arthur Conan Doyle in Il mondo perduto. Per non dire di Pellucidar, vasto continente sotterraneo del ciclo di Edgar Rice Burroughs, tutt’uno con Caprona, «la terra dimenticata dal tempo», nei pressi del polo sud, dove i dinosauri scorrazzano tra foreste popolate di uomini scimmia e laghi ribollenti di lava eruttata da vulcani sommersi. Tanto da avere suggerito ad Alberto Manguel e Gianni Guadalupi la compilazione del fondamentale Manuale dei luoghi fantastici, che guida i lettori lungo i percorsi della geografia immaginaria.
Non sembra però rientrarvi La terra al di là (Atlantide, pp. 377, euro 20), di Gene Wolfe. Innanzitutto per la fisionomia creativa dell’autore. Il suo è un nome a sé stante nella galleria degli americani che hanno dato i contributi determinanti al passaggio dagli scientific romances di Herbert George Welles e dai Voyages Extraordinaires di Jules Verne alla moderna fantascienza, quella codificata quasi cento anni fa dalla rivista Amazing Stories, diretta da Hugo Gernsback. «Gene Wolfe è il nostro Melville» asserì Ursula K. Le Guin.
Sta di fatto che si è ritagliato fin dall’inizio un ruolo di confine tra il sense of wonder e la speculative fiction. La terra al di là è la sintesi perfetta delle due modalità narrative. La prima si esprime nella figura del protagonista, Grafton, specializzato in guide di viaggio. All’inizio sembra un incrocio fra Macon Leary, il protagonista di Turista per caso, diretto da Lawrence Kasdan nel 1988, e Allan Quatermain, il precursore di Indiana Jones in Le miniere di Re Salomone. Dell’uno ha un certo piglio scanzonato, dell’altro lo spirito avventuroso. La voglia di escapismo diviene però controversa: «Mi era sempre sembrato che la vita in America fosse molto migliore rispetto a dove mi trovavo allora ma, per certi versi, in realtà deve essere molto peggio, perché fa impazzire di odio così tante persone…»
Una considerazione che gli deriva dall’inspiegabile prigionia di cui è oggetto nell’insondabile Paese dell’Europa orientale dove l’ha portato il suo lavoro. Qui viene in mente L’altra parte, di Alfred Kubin, che reinventa Praga sovrapponendole la città deforme di Perla, un misto di rovine, ruderi e resti di epoche indefinibili, il tutto sovrastato dal mistero di un sovrano che opprime l’intera popolazione, accolita di disturbati e affetti da patologie mentali mescolati con nostalgici, esteti e maniaci.
Solo che nel Paese dove langue Grafton le cose acquisiscono l’agghiacciante tonalità della Guerra Fredda. Il totalitarismo del posto non è scalfibile. Il malcapitato passa da un interrogatorio all’altro. Non sono sufficienti i richiami al Kafka de Il processo. Su Grafton pende l’accusa di spionaggio, una virtuale condanna a morte nell’agone della geopolitica con cui si fronteggiano ovest ed est. Facile prendere posizione a favore della vittima. Una caratteristica di Wolfe invece è quella di seminare dubbi. Del resto, cos’ha a disposizione chi legge se non quanto afferma lo stesso Grafton? Quindi potrebbe darsi che la sua professione sia una «leggenda», come si definisce nell’ambiente dello spionaggio una falsa identità, di copertura dell’agente in campo. Lo sa bene chi frequenta la spy-story, dove buoni e cattivi si confondono nella «foresta di specchi», come la definì James Jesus Angleton, capo del controspionaggio della Cia e fautore di una caccia alle streghe devastante per l’intelligence. Inoltre, gli aguzzini di Grafton sono tipici torturatori che non pretendono confessioni bensì conferme delle loro tesi precostituite. Oppure è vero quello che in altra sede asserisce Gene Wolfe: «Non penso che nessuno sia più intrinsecamente santo». Forse non lo è Grafton.
La terra al di là non offre alcuna consolazione risolutiva. Tanto più che si svolge appunto in un posto privo di riscontri. Ancora Wolfe: «Poiché ho già affidato altri manoscritti ai mari del tempo, ora ne comincio un altro. Non dubito che ciò sia assurdo, ma io non sono – né mai lo sarò – così sciocco da illudermi che essi potranno trovare un lettore, neppure in me stesso».
Ipercontrollo, una distopia familiare
Come sarebbe il mondo se trionfasse una volta per tutte il capitalismo di sorveglianza con la sua logica dei lasciapassare? Probabilmente assomiglierebbe molto a quello immaginato dal grande fumettista giapponese Inio Asano in Mujina into the Deep, la sua nuova serie pubblicata in Italia da Planet Manga. Lo scenario è la metropoli giapponese Tsukumo, decisamente simile alla grandi città occidentale di oggi. Tutti gli abitanti, se vogliono poter vivere serenamente e accedere ai servizi necessari, devono possedere una rights card, una carta dei diritti. Vi ricorda qualcosa? Beh, in effetti non è poi un meccanismo troppo dissimile da quello del green pass: se vuoi entrare in un locale o in un ospedale, devi esibire la tesserina.
E chi non la possiede o la perde? Qui cominciano i guai. Senza la carta dei diritti semplicemente non esisti. Proprio come ai tempi del Covid, coloro che ne sono privi spesso vengono evitati dagli altri o insultati. In ogni caso sono considerati meno che umani. Poiché vivono al di fuori della società, sono di fatto anche al di fuori della legge, ergo è assolutamente irrilevante che commettono o meno crimini o delitti: è come se a connettermi fosse una pianta o un sasso. Succede quindi che alcuni di questi «senza diritti», chiamati Mujina, per sopravvivere diventano sicari a pagamento. Si addestrano, possiedono armi e strumenti tecnici all’avanguardia e assumono droghe potenzianti. Rischiano la pelle ma guadagnano molto e in questo modo possono acquistare i diritti e le possibilità di cui la società li priva.
In tale contesto Asano ambienta una trama d’azione coinvolgente, adattissima per un film o una serie tv. Ma ciò che colpisce di questo manga non è tanto l’intrattenimento che offre (e ne offre parecchio). Quanto, piuttosto, il raro livello di satira sociale a cui giunge. Inio Asano, dopo tutto, è un autore diverso dalla media. Ha firmato serie di grande successo come Buonanotte Punpun e Solanin, e si è guadagnato un largo seguito di fan. Stavolta però il suo lavoro risulta spiazzante. La delicatezza raffinata delle sue precedenti opere qui diventa eleganza grafica al servizio di una storia cruda, adulta, violenta e talvolta sensuale. Ma non c’è nulla di gratuito, intendiamoci.
Il racconto ruvido serve a descrivere una società spietata in cui i soldi e la fama valgono più della vita umana. Una società che stigmatizza e esclude, dominata dalla superficialità digitale. Come nel nostro mondo, l’universo futuro di Asano è il regno degli e delle influencer, al cui culto si dedicano i più. Tra i più celebrati vi sono proprio alcuni «senza diritti» divenuti killer. E più si va avanti nella lettura più ci si chiede: ma sono davvero questi ultimi i cattivi? O sono soltanto i prodotti disastrati di una società dell’ipercontrollo? Comunque sia, il futuro immaginato da Asano sembra molto probabile. E fa venire voglia di ripensare il presente.
Continua a leggereRiduci
La denatalità colpisce ormai Paesi ricchi e poveri. Un saggio di Paul Morland contesta falsi miti (come il legame tra più istruzione e meno figli) e suggerisce idee innovative.Nel suo «La terra al di là», il visionario autore americano Gene Wolfe presenta uno scrittore di guide turistiche rinchiuso senza motivo nella prigione di un Est totalitario. Ma le cose non sono sempre come sembrano.Il fumettista Inio Asano immagina un mondo dove il capitalismo della sorveglianza ha trionfato e per accedere ai servizi serve una tessera. Ricorda qualcosa?Lo speciale contiene tre articoli.Quella di sconfiggere la morte è una antichissima ambizione dell’umanità che ultimamente ha preso una inaudita concretezza. Nella Silicon Valley e altrove ci sono fior di luminari e di aziende all’avanguardia che lavorano per garantire l’esistenza di quelli che il transumanista Yuval Harari ha chiamato «amortali». A che punto sia la ricerca lo spiega Venki Ramakrishnan in un suggestivo saggio appena pubblicato da Adelphi e intitolato Perché moriamo. La nuova scienza dell’invecchiamento e la ricerca dell’immortalità. Il fatto, però, è che mentre ci si preoccupa di eliminare l’invecchiamento e allontanare la morte, si affronta solo superficialmente il vero dramma del tempo presente, ovvero la denatalità. Se ne discute molto, è vero, ma spesso con poca cognizione di causa e le soluzioni proposte di conseguenza sono per lo più blande. Un bel modo per rafforzare le convinzioni pro nataliste consiste nel leggere quello che finora è il libro più esaustivo è interessante sulla materia, ovvero Senza futuro. Il malessere demografico che minaccia l’umanità di Paul Morland, curato da Marco Valerio Lo Prete per Liberilibri, appena arrivato sugli scaffali. Morland, ricercatore presso il Birkbeck College della University of London, affronta il tema in una prospettiva finalmente globale, esamina i dati e soprattutto cerca di andare alla radice del problema. «Sostenere l’idea di fare figli non è mai stato così urgente. Sostenere l’idea di fare figli non è mai stato così difficile», attacca Morland. «È urgente a causa del collasso imminente della popolazione che osserviamo in comunità dopo comunità, Paese dopo Paese, continente dopo continente. Nel complesso la popolazione mondiale continua a crescere, ma lo fa a un ritmo sempre più lento. [...] È difficile a causa del mutamento delle preferenze e di una marea montante di attitudini che si combinano assieme per convincere sempre più persone ad avere sempre meno figli, o nessun figlio. Un tempo era il progresso materiale a far diminuire la natalità. Oggi, in buona parte del mondo, sono alcuni ideali e stili di vita a essere in contrasto con la formazione di una famiglia». Il quadro generale è persino peggiore di come viene talvolta presentato dalla stampa. «Uno spettro si aggira per l’Europa. Come anche per l’Asia orientale e buona parte del Nord America, e a breve si aggirerà per la maggior parte del pianeta. È lo spettro dello spopolamento», dice Morland. «Per decenni ha intaccato le periferie, le zone rurali remote e le cittadine più piccole della Rust Belt, e noi l’abbiamo ampiamente ignorato. Non si tratta di luoghi dove di solito vivono quelli che fanno opinione come giornalisti, accademici o politici, o ai quali questi ultimi prestano molta attenzione. Ma adesso le conseguenze dello spopolamento sono finite sulle prime pagine dei giornali. Ed è solo l’inizio. Stiamo assistendo al travaglio del parto di una nuova epoca, di un’epoca - però - senza travagli di parto. Si può tracciare un grande arco che unisce i due estremi del continente eurasiatico, dallo Stretto di Gibilterra allo Stretto di Johor, e viaggiare soltanto attraverso Paesi che hanno di fronte a sé la prospettiva del declino della popolazione, in una vasta Mezzaluna infertile. Questa include Paesi con popolazioni a maggioranza protestante, cattolica, islamica e buddista, Paesi ricchi e Paesi poveri, regimi democratici e regimi autoritari. Per alcuni di essi il fenomeno è nuovo, per altri è vecchio di decenni. In questi Stati e nazioni, quasi indipendentemente dalle caratteristiche sociali, economiche o politiche, il declino della popolazione e le sue conseguenze ora diventano parte inevitabile del futuro. C’è la promessa di robot e altri strumenti tecnologici, ma se vogliamo riparare il nostro rubinetto che perde, se vogliamo che gli scaffali dei nostri supermercati siano riforniti e che qualcuno si prenda cura dei nostri genitori anziani, le macchine non sono ancora dietro l’angolo per salvarci. Per il momento abbiamo bisogno di esseri umani per fare le cose, così come sempre è stato». Questo è il dramma vero. Nonostante la questione demografica non sia più ignorata da media e politici come in passato, la via di uscita non sembra essere a portata di mano. «È vero, il numero degli abitanti della Terra sta ancora crescendo ma il tasso di crescita si è dimezzato dagli anni Settanta e continua a calare. E mentre il numero complessivo di persone sta gradualmente raggiungendo il picco [...] l’umanità invecchia rapidamente. Una parte sempre maggiore della crescita del numero di esseri umani si deve al ritardo della morte, mentre sempre meno alla creazione di nuove vite».Ma quali sono le cause che ci hanno condotto fino a qui? Almeno per quanto riguarda l’Europa, la secolarizzazione è stato un fattore determinante. «Una volta che tra le persone si sono diffuse le modalità di controllo della propria fecondità, inizia a manifestarsi la differenza che fa la religione», dice Morland. «Sembra che i francesi siano stati tra i primi utilizzatori delle tecniche di pianificazione familiare, e la differenza dei tassi di fecondità tra le aree dove il cattolicesimo era forte e tutte le altre poteva già essere osservata nel XIX secolo. Secondo uno studio piuttosto originale, la regione cattolica della Bretagna ha sperimentato un declino della natalità dopo un secolo o più rispetto alla regione relativamente secolarizzata della Provenza, una testimonianza dell’effetto ritardante della religione sul calo della natalità. Nella Francia del XIX secolo e dell’inizio del XX, la religione sembra aver fatto la differenza per quasi 1 figlio o tre quarti di figlio per donna. Per quanto riguarda il mondo contemporaneo, negli Stati Uniti il tasso di fecondità di quanti frequentano servizi religiosi ogni settimana si è mantenuto costantemente al di sopra del tasso di sostituzione negli ultimi quarant’anni, mentre per quanti si considerano non religiosi la fecondità è diminuita a tal punto che adesso il gap tra i due gruppi è di circa quattro quinti di figlio pro capite». Molti dei dati e delle tendenze che Morland descrive sono tutto sommato conosciuti, per quanto difficili da affrontare. Ma ce ne sono anche altri leggermente meno noti. Ad esempio il legame fra istruzione e natalità. Si tende a pensare che più le donne sono istruite meno vogliano e facciano figli. Ma non è del tutto vero. «Negli Stati Uniti», dice lo studioso, «le ragazze che abbandonano la scuola superiore senza diplomarsi hanno quasi 2,75 figli ciascuna. Quelle che smettono di studiare dopo il diploma di scuola superiore ne hanno appena più di 2, mentre quelle che entrano all’università ma non si laureano ne hanno poco meno di 2. Le laureate hanno appena 1,3 figli. Ma l’aspetto interessante è che nella fascia superiore c’è una sorta di svolta verso l’alto. Le donne con un master hanno 1,4 figli e quelle con un dottorato 1,5». Soprattutto in certe fasce esiste una maggiore propensione delle donne istruite per la procreazione, anche se poi in quel caso il problema è la difficoltà a trovare compagni adeguati. Come se ne esce? Lo abbiamo ripetuto spesso: il problema è culturale. Lo dimostra la comparazione fra Israele e Corea: a parità di condizioni, le donne israeliane hanno molti più figli. Perché? Perché è differente la cultura in cui sono immerse. «Qualunque cosa faccia il governo in termini di aiuto alle persone, se la cultura è sfavorevole a questo riguardo e non cambia, il governo continuerà a premere su una porta chiusa», dice Morland. «Il governo dovrebbe spingere, da parte sua, ma anche noi dobbiamo fare la nostra parte come società. Il compito del governo sarebbe quello di plasmare la nostra cultura in modo da garantire che la porta sia aperta per coloro che desiderano famiglie più numerose». La speranza di invertire la rotta, dunque, esiste. Ma comporta un notevole impegno. Se la cultura dominante non smetterà di essere nemica della famiglia, al nostro futuro possiamo dire addio.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/umanita-distrugge-proprio-futuro-2672500551.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="la-fanta-geopolitica-di-gene-wolfe-ci-fa-viaggiare-in-uneuropa-da-incubo" data-post-id="2672500551" data-published-at="1751289148" data-use-pagination="False"> La fanta-geopolitica di Gene Wolfe ci fa viaggiare in un’Europa da incubo Di mondi perduti abbonda la letteratura fantastica e avventurosa. Non si tratta di altri pianeti ma di plaghe terrestri cui si giunge attraverso zone impervie. Si vedano i ghiacciai di Orizzonte perduto, superati i quali si trova Shangri-La, nel romanzo di James Hilton, o la Terra di Maple White, su un altopiano che domina la giungla venezuelana, dove approda l’indomito professor Challenger, di cui narra Sir Arthur Conan Doyle in Il mondo perduto. Per non dire di Pellucidar, vasto continente sotterraneo del ciclo di Edgar Rice Burroughs, tutt’uno con Caprona, «la terra dimenticata dal tempo», nei pressi del polo sud, dove i dinosauri scorrazzano tra foreste popolate di uomini scimmia e laghi ribollenti di lava eruttata da vulcani sommersi. Tanto da avere suggerito ad Alberto Manguel e Gianni Guadalupi la compilazione del fondamentale Manuale dei luoghi fantastici, che guida i lettori lungo i percorsi della geografia immaginaria.Non sembra però rientrarvi La terra al di là (Atlantide, pp. 377, euro 20), di Gene Wolfe. Innanzitutto per la fisionomia creativa dell’autore. Il suo è un nome a sé stante nella galleria degli americani che hanno dato i contributi determinanti al passaggio dagli scientific romances di Herbert George Welles e dai Voyages Extraordinaires di Jules Verne alla moderna fantascienza, quella codificata quasi cento anni fa dalla rivista Amazing Stories, diretta da Hugo Gernsback. «Gene Wolfe è il nostro Melville» asserì Ursula K. Le Guin.Sta di fatto che si è ritagliato fin dall’inizio un ruolo di confine tra il sense of wonder e la speculative fiction. La terra al di là è la sintesi perfetta delle due modalità narrative. La prima si esprime nella figura del protagonista, Grafton, specializzato in guide di viaggio. All’inizio sembra un incrocio fra Macon Leary, il protagonista di Turista per caso, diretto da Lawrence Kasdan nel 1988, e Allan Quatermain, il precursore di Indiana Jones in Le miniere di Re Salomone. Dell’uno ha un certo piglio scanzonato, dell’altro lo spirito avventuroso. La voglia di escapismo diviene però controversa: «Mi era sempre sembrato che la vita in America fosse molto migliore rispetto a dove mi trovavo allora ma, per certi versi, in realtà deve essere molto peggio, perché fa impazzire di odio così tante persone…»Una considerazione che gli deriva dall’inspiegabile prigionia di cui è oggetto nell’insondabile Paese dell’Europa orientale dove l’ha portato il suo lavoro. Qui viene in mente L’altra parte, di Alfred Kubin, che reinventa Praga sovrapponendole la città deforme di Perla, un misto di rovine, ruderi e resti di epoche indefinibili, il tutto sovrastato dal mistero di un sovrano che opprime l’intera popolazione, accolita di disturbati e affetti da patologie mentali mescolati con nostalgici, esteti e maniaci.Solo che nel Paese dove langue Grafton le cose acquisiscono l’agghiacciante tonalità della Guerra Fredda. Il totalitarismo del posto non è scalfibile. Il malcapitato passa da un interrogatorio all’altro. Non sono sufficienti i richiami al Kafka de Il processo. Su Grafton pende l’accusa di spionaggio, una virtuale condanna a morte nell’agone della geopolitica con cui si fronteggiano ovest ed est. Facile prendere posizione a favore della vittima. Una caratteristica di Wolfe invece è quella di seminare dubbi. Del resto, cos’ha a disposizione chi legge se non quanto afferma lo stesso Grafton? Quindi potrebbe darsi che la sua professione sia una «leggenda», come si definisce nell’ambiente dello spionaggio una falsa identità, di copertura dell’agente in campo. Lo sa bene chi frequenta la spy-story, dove buoni e cattivi si confondono nella «foresta di specchi», come la definì James Jesus Angleton, capo del controspionaggio della Cia e fautore di una caccia alle streghe devastante per l’intelligence. Inoltre, gli aguzzini di Grafton sono tipici torturatori che non pretendono confessioni bensì conferme delle loro tesi precostituite. Oppure è vero quello che in altra sede asserisce Gene Wolfe: «Non penso che nessuno sia più intrinsecamente santo». Forse non lo è Grafton.La terra al di là non offre alcuna consolazione risolutiva. Tanto più che si svolge appunto in un posto privo di riscontri. Ancora Wolfe: «Poiché ho già affidato altri manoscritti ai mari del tempo, ora ne comincio un altro. Non dubito che ciò sia assurdo, ma io non sono – né mai lo sarò – così sciocco da illudermi che essi potranno trovare un lettore, neppure in me stesso». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/umanita-distrugge-proprio-futuro-2672500551.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="ipercontrollo-una-distopia-familiare" data-post-id="2672500551" data-published-at="1751289148" data-use-pagination="False"> Ipercontrollo, una distopia familiare Come sarebbe il mondo se trionfasse una volta per tutte il capitalismo di sorveglianza con la sua logica dei lasciapassare? Probabilmente assomiglierebbe molto a quello immaginato dal grande fumettista giapponese Inio Asano in Mujina into the Deep, la sua nuova serie pubblicata in Italia da Planet Manga. Lo scenario è la metropoli giapponese Tsukumo, decisamente simile alla grandi città occidentale di oggi. Tutti gli abitanti, se vogliono poter vivere serenamente e accedere ai servizi necessari, devono possedere una rights card, una carta dei diritti. Vi ricorda qualcosa? Beh, in effetti non è poi un meccanismo troppo dissimile da quello del green pass: se vuoi entrare in un locale o in un ospedale, devi esibire la tesserina.E chi non la possiede o la perde? Qui cominciano i guai. Senza la carta dei diritti semplicemente non esisti. Proprio come ai tempi del Covid, coloro che ne sono privi spesso vengono evitati dagli altri o insultati. In ogni caso sono considerati meno che umani. Poiché vivono al di fuori della società, sono di fatto anche al di fuori della legge, ergo è assolutamente irrilevante che commettono o meno crimini o delitti: è come se a connettermi fosse una pianta o un sasso. Succede quindi che alcuni di questi «senza diritti», chiamati Mujina, per sopravvivere diventano sicari a pagamento. Si addestrano, possiedono armi e strumenti tecnici all’avanguardia e assumono droghe potenzianti. Rischiano la pelle ma guadagnano molto e in questo modo possono acquistare i diritti e le possibilità di cui la società li priva.In tale contesto Asano ambienta una trama d’azione coinvolgente, adattissima per un film o una serie tv. Ma ciò che colpisce di questo manga non è tanto l’intrattenimento che offre (e ne offre parecchio). Quanto, piuttosto, il raro livello di satira sociale a cui giunge. Inio Asano, dopo tutto, è un autore diverso dalla media. Ha firmato serie di grande successo come Buonanotte Punpun e Solanin, e si è guadagnato un largo seguito di fan. Stavolta però il suo lavoro risulta spiazzante. La delicatezza raffinata delle sue precedenti opere qui diventa eleganza grafica al servizio di una storia cruda, adulta, violenta e talvolta sensuale. Ma non c’è nulla di gratuito, intendiamoci.Il racconto ruvido serve a descrivere una società spietata in cui i soldi e la fama valgono più della vita umana. Una società che stigmatizza e esclude, dominata dalla superficialità digitale. Come nel nostro mondo, l’universo futuro di Asano è il regno degli e delle influencer, al cui culto si dedicano i più. Tra i più celebrati vi sono proprio alcuni «senza diritti» divenuti killer. E più si va avanti nella lettura più ci si chiede: ma sono davvero questi ultimi i cattivi? O sono soltanto i prodotti disastrati di una società dell’ipercontrollo? Comunque sia, il futuro immaginato da Asano sembra molto probabile. E fa venire voglia di ripensare il presente.
Angelo Borrelli (Imagoeconomica)
Poi aggiunge che quella documentazione venne trasmessa al Comitato tecnico scientifico. Il Cts validò. I numeri ballavano tra 120 e 140 ventilatori. La macchina partì. La miccia, però, viene accesa per via politica il 10 marzo 2020. Borrelli lo ricostruisce con precisione quasi notarile. «Arriva dalla segreteria del viceministro Pierpaolo Sileri un’email». Il mittente è la segreteria del viceministro. Il senso è chiaro. «Come richiesto dal ministro Speranza e noto al ministro Luigi Di Maio, ti ringrazio in anticipo anche da parte di Pierpaolo per le opportune valutazioni che vorrai effettuare al fine di garantire il più celere arrivo della strumentazione». Sono i ventilatori polmonari cinesi. La disponibilità viene rappresentata dopo un’interlocuzione politica. E a quel punto entra ufficialmente in scena la Silk Road. Il contatto, conferma Borrelli, non arriva per caso. «C’è un’email dell’11 marzo che […] facendo seguito a quanto detto dal dottor Domenico Arcuri, come d’accordo, ecco i contatti della Silk Road».
Ed è a questo punto che la deputata di Fratelli d’Italia Alice Buonguerrieri scatta: «Quindi è un contatto, quello della società Silk Road, che vi viene dalla struttura commissariale?». La risposta è secca. «Sì, viene dalla struttura commissariale di Domenico Arcuri». Arcuri, in quel momento, non è ancora formalmente commissario straordinario (lo diventerà il 18 marzo). Ma è già dentro il Dipartimento, si muove nel Comitato tecnico operativo, il Cto. «Perché il commissario Arcuri era già presente al dipartimento e iniziava ad affiancare…», cerca di spiegare Borrelli. Il passaggio politico-amministrativo non è casuale. Perché la Silk Road arriva sul tavolo della Protezione civile per quella via. La fornitura è pesante. «Ventilatori polmonari per un totale di 140», al costo di 2 milioni e 660.000 euro. «Ho qui la lettera di commessa», conferma Borrelli. La firma in calce non è italiana. «La lettera è firmata da un director, Wu Bixiu». E c’è un timbro cinese. La Verità quell’intermediazione all’epoca l’aveva ricostruita. La Silk Road Global Information limited che intermedia la fornitura è legata alla Silk Road cities alliance, un think tank del governo di Pechino a sostegno della Via della Seta. Ai vertici di quell’ente c’era anche Massimo D’Alema, insieme a ex funzionari del governo cinese. E infatti, conferma ora Borrelli, «c’è anche una email in cui si cita il presidente D’Alema». Però, quando gli viene chiesto apertamente se D’Alema abbia fatto da tramite, mette le mani avanti: «Io non so nulla di questo».
Di certo Baffino doveva aver rassicurato l’azienda cinese. Tant’è che la società aveva scritto: «Abbiamo appena ricevuto informazioni dall’onorevole D’Alema che il vostro governo acquisterà tutti i ventilatori nella lista. Quindi acquisteremo i 416 set per voi il prima possibile». «I nostri», spiega Borrelli, «gli hanno risposto «noi compriamo quelli che ci servono», cioè 140 e non 460». Ma c’è una parte di questa storia che non è ancora finita al vaglio della Commissione d’inchiesta guidata da Marco Lisei. Quei ventilatori polmonari, aveva scoperto La Verità, non erano in regola e la Regione Lazio li ritirò perché non conformi ai requisiti di sicurezza. «Dai lavori della commissione Covid sta emergendo una trama che collega la struttura commissariale di Arcuri, nominato da Giuseppe Conte, alla sinistra e, nello specifico, a D’Alema», afferma Buonguerrieri a fine audizione. Poi tira una riga: «Risulta che, ancor prima di essere nominato commissario straordinario, Arcuri sponsorizzava alla Protezione civile una società rappresentata da cinesi legata a D’Alema». «Le audizioni stanno portando alla luce passaggi che meritano un serio approfondimento istituzionale», tuona il capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera Galeazzo Bignami. Ma la storia non è finita.
«Il presidente del consiglio, per garbo, mi ha informato, perché sarebbe stato per me un colpo sapere dalla stampa che ci sarebbe stato poi un soggetto (Arcuri, ndr) che sarebbe entrato nel nell’organizzazione organizzazione della gestione dell’emergenza», ricorda ancora Borrelli. Che in un altro passaggio conferma che i pagamenti avvenivano anche per conto di Arcuri: «Io avevo il dottor Pietro Colicchio (dirigente della Protezione civile, ndr) e il suo direttore generale a casa col Covid e disponevano bonifici per i pagamenti per l’acquisto di Dpi. Dopo anche per conto del commissario Arcuri». Ma la Protezione civile con la nomina di Arcuri era ormai stata scippata delle deleghe sugli acquisti. A questo punto Borrelli fa l’equilibrista con un passaggio che ovviamente è stato apprezzato dai commissari del Pd: «L’avvento di Arcuri ha sgravato me e la mia struttura». Gli unici, però, che in quel momento avevano dato alla pandemia il peso che meritava erano proprio i vertici della Protezione civile. Già dal 2 febbraio, infatti, avevano segnalato al ministero l’assenza dei dispositivi di protezione. «Fu Giuseppe Ruocco (in quel momento segretario generale del ministero, ndr)», ricorda Borrelli, «a comunicare che ci sarebbe stata una riunione per predisporre una richiesta di eventuali necessità, partendo dallo stato attuale di assoluta tranquillità. Ruocco mi assicurò che se fosse emerso un quadro di esigenze lo avrebbe portato alla mia attenzione. Circostanza mai avvenuta». Il ministero si sarebbe svegliato solo 20 giorni dopo. «Il 22 febbraio nel Cto», spiega Borrelli, «per la prima volta venivano impartite indicazioni operative per l’utilizzo di Dpi». Solo il 24 febbraio, dopo alcune interlocuzioni con Confindustria, veniva «segnalato che non arrivavano notizie confortanti quanto alle disponibilità sul mercato». A quel punto bisognava correre ai ripari. La Protezione civile viene svuotata di competenza sugli acquisti e arriva Arcuri. Con le sue «deroghe». «Io», ricorda Borrelli, «non so se avesse delle deroghe ulteriori o meno, però, ecco, lui aveva le stesse deroghe che avevamo noi». Ma era lui a comprare.
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Ecco #DimmiLaVerità del 17 dicembre 2025. L'esperto di geopolitica Daniele Ruvinetti ci svela gli ultimissimi retroscena del negoziato di pace per l'Ucraina.
L’Indonesia è un gigante che sfiora i 300 milioni di abitanti ed è il più grande arcipelago del mondo. La sua capitale Jakarta è la città più popolosa del globo con quasi 42 milioni di abitanti e nel 2025 ha superato Dacca e Tokyo in questa classifica. Adagiata sulla costa dell’isola di Giava, questa città è diventata un conglomerato incontrollabile che sta lentamente affondando sotto il peso della sua popolazione. L’Indonesia ha il maggior numero di musulmani con quasi 250 milioni di fedeli e secondo alcune proiezioni come quelle della Banca Mondiale o del Fondo Monetario Internazionale potrebbe diventare una delle quattro principali economie internazionali entro il 2050. Jakarta nel 2024 è entrata a far parte del gruppo economico dei Brics, guidato da Cina, Russia ed India, ma non ha mai smesso di attirare investimenti statunitensi e ad avere un rapporto diplomatico diretto con Washington.
In questo quadro economicamente positivo però sono scoppiate una serie di proteste che hanno fortemente contestato il governo del presidente Prabowo Subianto. Questo ex generale, conosciuto per la ferocia con cui ha sempre represso ogni tipo di dissenso, ha stravinto le elezioni utilizzando un avatar che lo ha trasformato in un nonno amorevole. Durante la campagna per le presidenziali, il suo staff ha utilizzato strumenti di intelligenza artificiale come Midjourney per creare un'immagine carina e amichevole ("gemoy", un termine gergale indonesiano per "carino" o "coccoloso") di Prabowo, rivolta in particolare agli elettori più giovani sui social come TikTok. Questa mossa ha avuto un enorme successo portando molti giovani alle urne e consegnando oltre il 60% delle preferenze al vecchio generale. Il nuovo presidente aveva promesso un miracolo economico puntando ad una crescita dell’8% annuale, che però si è fermata intorno al 5,2%. Intanto il costo della vita è sensibilmente cresciuto così come la disoccupazione, mentre la rupia indonesiana ha continuato a svalutarsi arrivando ad un cambio con il dollaro a 16600 ad 1.
Contemporaneamente i cittadini indonesiani hanno visto una progressiva perdita di potere d’acquisto che ha portato ad una stagnazione dei consumi delle famiglie. Ad ottobre l’inflazione è arrivata al 2,75%, massimo livello dalla primavera del 2024, e la gente è scesa in strada per chiedere le dimissioni di tutto il governo. Se internamente le cose stanno andando male per Prabowo Subianto, l’ex generale, ha puntato tutto sulla proiezione internazionale del suo paese, dichiarando più volte di volerlo far diventare una potenza geopolitica regionale. Il ruolo indonesiano nel sud-est asiatico è in crescita e negli anni si sono rafforzati i rapporti con le nazioni vicine, soprattutto con la Malesia. Più complessi i tentativi di avvicinamento con le Filippine, fortemente schierate nell’orbita statunitense, mentre con l’India le relazioni sono sempre state piuttosto altalenanti. L’Indonesia si trova anche spettatore nel latente scontro indo-pacifico fra Pechino e Washington, nel quale per ora Jakarta ha scelto una linea politica basata sull’equidistanza. Con la Cina l’Indonesia ha siglato un accordo per lo sfruttamento congiunto delle risorse nelle acque contese, per evitare una disputa diretta, anche perché Pechino è il suo primo partner economico e commerciale, con gli scambi nel 2025 sono stimati in 160 miliardi di dollari. Jakarta sta cercando di diversificare le sue relazioni commerciali per evitare un’eccessiva dipendenza dalla Cina, intensificando gli scambi anche con l’Unione Europea. L’interscambio con la Ue nel 2024 ha superato i 27 miliardi di euro con l’Europa che importa olio di palma, tessuti, calzature, minerali (nichel e rame), mentre esporta nella nazione asiatica latticini, carni, frutta, macchinari e farmaceutici. Gli Usa restano comunque un partner cruciale per l’Indonesia in ambito di difesa e sicurezza, con esercitazioni congiunte e acquisto di armi, delle quali Washington è il secondo fornitore. L’attivismo di Prabowo Subianto si è visto anche nella questione mediorientale, con il presidente, unico leader del sud-est asiatico, presente in Egitto alla firma della tregua a Gaza.
Odorico da Pordenone, un Marco Polo meno noto che raccontò l'Indonesia nel secolo XIV
Non solo Marco Polo ed il suo «Milione», il resoconto sull’Estremo Oriente forse più famoso al mondo. Altre importanti testimonianze scritte di viaggi «meravigliosi» attraverso l’Asia sono giunte a noi dal Medioevo. Grandi protagonisti delle esplorazioni e dello scambio interreligioso (con le missioni) ma anche di quello geopolitico, furono i francescani. Come afferma il Prof. Luciano Bertazzo, storico francescano e direttore del Centro Studi Antoniani di Padova, contattato dalla Verità. «A fianco di Marco Polo esiste tutta una letteratura non meno interessante in cui il mondo francescano non fu solo portatore di evangelizzazione, ma anche di una spinta all'internazionalizzazione». Già alla metà del Duecento, la presenza della Chiesa cattolica in Estremo Oriente intersecava l'Europa all'Asia. I resoconti dei frati alimentarono il "Meraviglioso" nei racconti di viaggio (detti anche odeporici) sulla scia della «Vita di Alessandro Magno», che inaugurò il connubio tra scientia e mirabilia».
Ai tempi delle crociate, i frati minori assunsero un ruolo «diplomatico» all’interno di un mondo in forte fermento. Erano gli anni della «cattività» del Papato ad Avignone, dell’espansione dell’Islam verso oriente e del potentissimo regno dei Mongoli discendenti di Gengis Khan. Nel mosaico delle forze dominanti i francescani, attivi nell’opera di evangelizzazione alla base dei loro viaggi, furono anche incaricati dal Papato e dai sovrani occidentali di riportare notizie sullo stato dei popoli dell’estremo Oriente per cercare di misurarne la potenza politica e militare unito ad un intento più diplomatico, con il proposito di esplorare una possibile alleanza in funzione anti islamica. I religiosi italiani erano già presenti in Asia fino dalla metà del XIII secolo, come testimoniano i resoconti del francescano Giovanni di Pian del Carpine, che alla metà del Duecento scrisse una «Historia Mongalorum» dopo essere giunto fino a Kharakorum, ricca di informazioni strategico-militari sulla potenza dell’impero mongolo che premeva verso Occidente. Anche Giovanni da Montecorvino, francescano campano, giunse fino in Cina alla corte di Kubilai Khan, morto appena prima dell’arrivo del frate italiano. Qui fondò la prima missione cattolica della Cina e la prima chiesa nel 1305 e fu nominato arcivescovo da Clemente V.
A pochi anni dal viaggio di Giovanni da Montecorvino si colloca la spedizione di Odorico da Pordenone, che toccherà anche l’Indonesia, allora praticamente sconosciuta al mondo occidentale. Nato sembra intorno al 1280, fu ordinato frate a Udine ancora giovanissimo, secondo le poche notizie giunte a noi. Il suo viaggio in Oriente, con destinazione Cina, si colloca attorno al 1318 e seguì un itinerario da Venezia a Trebisonda, quindi dalla penisola arabica via nave fino all’India, dove a Thana (attuale Mumbai) raccolse le spoglie dei francescani martirizzati dai musulmani nel 1321. La tappa successiva fu l’Indonesia, una terra praticamente inesplorata fino ad allora. Nella sua Relatio, Odorico dedica spazio alla descrizione di usi e costumi dell’arcipelago. Lamori è il primo abitato dell’Indonesia che il frate friulano descrisse, dipingendolo come una terra non proprio ospitale. Così Odorico dipinse quella che è ritenuta essere un antico regno situato nella parte settentrionale di Sumatra: «Cominciai a perdere la tramontana quando toccai quella terra. In questa regione il calore è enorme e sia gli uomini che le donne vanno in giro nudi, senza coprirsi nessuna parte del corpo. Essi mi deridevano, perché dicevano che Dio aveva creato Adamo nudo e io invece volevo essere vestito contro la volontà di Dio. In questo paese tutte le donne sono messe in comune fra tutti, cosicché nessuno può dire «questa è mia moglie», oppure «questo è mio marito». Quando poi una donna partorisce un figlio o una figlia, lo dà o la dà a chi vuole tra uno di quelli con i quali ha avuto rapporti intimi, e quel bimbo o bimba lo considera il proprio padre. Anche tutto il terreno è in comune fra tutti gli abitanti, cosicché nessuno può dire: «questa o quella parte di terra è mia». Le case invece sono ognuna per conto proprio. Questa gente è pestifera e malvagia: infatti mangiano carne umana, come qui da noi si mangia la carne bovina o quella delle pecore. Tuttavia di per sé questa è una terra buona, che ha grande abbondanza di carni, di biade e di riso, inoltre vi si trova oro in abbondanza[…]».
Un ritratto di una società primitiva e ostile, quella che Odorico raccontò nella sua prima tappa indonesiana. Tutt’altra impressione il frate ebbe della tappa successiva, Giava. Secondo le fonti storiche, nel periodo in cui l’isola fu visitata da Odorico l’isola viveva l’ultimo periodo prospero prima dell’arrivo dell’Islam dall’India, quello del regno Majapahit che, sotto il comandante militare e consigliere dei regnanti Gajah Mada, riuscì nell’espansione territoriale con la conquista di Bali. A Giava l’Islam non era ancora giunto quando Odorico fece visita al palazzo reale, e le religioni principali erano il buddhismo, l’induismo e l’animismo. La descrizione che il friulano fece dell’isola era a dir poco entusiastica: «Quest’isola è abitata molto bene ed è la seconda isola più bella che ci sia al mondo. In essa nasce la canfora e vi crescono cubebe (pepe di Giava), melaghette (nota come melegueta o grani del Paradiso, della famiglia dello zenzero con sentore di zenzero e cardamomo) e noci moscate e molte altre specie di erbe preziose. Vi è grande abbondanza di vettovaglie, a eccezione del vino. Il re di quest’isola possiede un palazzo davvero meraviglioso». E più avanti, nel capitolo dedicato all’arcipelago indonesiano, Odorico sottolineava la potenza militare di Giava, che seppe resistere alla potenza della Cina di Kubilai Khan. «Il Gran Khan del Catai fu molte volte in guerra contro questo regno di Giava, ma questo re riuscì sempre vincitore e lo superò».
Lasciata l’Indonesia, passando forse per il Borneo e probabilmente dalle Filippine, Odorico sbarcò finalmente in Cina dal porto di Canton. Poi via terra riuscì a raggiungere Khambaliq (Pechino), dove lasciò le spoglie dei confratelli martiri e risiedette per tre anni prima di intraprendere il viaggio di ritorno via terra in compagnia del francescano frate Giacomo d’Irlanda attraverso il Tibet, la Persia e di nuovo da Trebisonda fino a Venezia. Odorico tornò nel 1330, dopo 12 anni. A Padova scrisse la sua Relatio, di fronte a frate Guido, ministro provinciale, e allo scriba Guglielmo da Solagna. La destinazione del resoconto di Odorico era Avignone, dove si ipotizza che il frate avrebbe dovuto recarsi per relazionare le meraviglie d’Oriente e dei suoi popoli al Pontefice. Odorico da Pordenone non la raggiungerà mai. Morirà a Udine si presume il 14 gennaio 1331 stroncato da una grave forma di enfisema dovuto alle esalazioni di monossido di carbonio respirate nelle tende dei «Tatari». La fama di santità seguirà immediatamente dopo la morte. A Udine fu realizzata una splendida arca dove riposavano le spoglie. Il processo di canonizzazione iniziò solamente nel 1755 ma fu interrotto. Due volte ancora fu ripreso ed interrotto nel 1931 e nel 1956. Nuovamente istruito negli anni Duemila, l'iter è attualmente in corso.
Per un approfondimento sul viaggio di Odorico da Pordenone si consiglia la lettura di Racconto delle cose meravigliose d'Oriente (Edizioni Messaggero Padova), basato sull'opera critica di riferimento a cura di Annalia Marchisio Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum (Sismel-Edizioni del Galluzzo).
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(Totaleu)
Lo ha detto l’eurodeputato di Forza Italia a margine della sessione plenaria di Strasburgo.