«Quella di Weimar è una storia così viva che resuscita i morti e continua a porre interrogativi alla Germania e, al di là della Germania, a tutte le democrazie che, di fronte al periodo 1932-1933, a von Papen e Hitler, ma anche a Schleicher, Hindenburg, Hugenberg e Thyssen, si sono trovate a misurare la propria finitudine. Se la Grande Guerra ha insegnato alle civiltà che sono mortali, la fine della Repubblica di Weimar ha dimostrato che la democrazia è caduca».
Incipit esaustivo de Gli irresponsabili. Chi ha portato Hitler al potere?, di Johann Chapoutot. Ma non ci si aspetti, a seguire, un saggio accademico dove i rimandi in note sostituiscono la voce diretta dell’autore. Per quanto abbondino, è Chapoutot a esprimersi di persona. Si presenta come un uomo del XXI secolo che vuole giungere al nucleo tutt’ora incandescente della tragedia sulla quale si conforma quello precedente. E lo fa accantonandone l’eredità più nefasta, l’ideologia. Chapoutot conduce su carta una prolusione accorata, poi ironica, sardonica, spesso iconoclasta. Alcuni protagonisti sono quelli dell’incipit. Von Papen, scalzato da Schleicher, ultimo cancelliere e di fatto maître de cérémonie dell’ingresso nel Reichastag della Nasdap, la congrega nazionalsocialista, il Führer, che lo destituì, Hindenburg, il presidente di una nazione schiacciata dal tallone di ferro delle riparazioni alle potenze vincitrici della Prima guerra mondiale e reduce dalla rivoluzione spartachista, Hugenberg, magnate dei media che precede di decenni Rupert Murdoch, Silvio Berlusconi e Vincent Bolloré, e Fritz Thyssen, della casata industriale determinante per l’ascesa della svastica. Chapoutot esplicita: «È difficile immaginare quanto eventi catastrofici come l’ascesa dei nazisti al potere e la marea di atroci conseguenze che ne sono derivate […] debbano al chiacchiericcio, alle vendette personali e agli intrighi da retrobottega…» Tutto raffrontato a oggi: «Bisogna dire che, al di là della natura caduca delle nostre democrazie, Weimar pone interrogativi sul nazismo, sulla guerra e sulla Shoah. Visto com’è andata a finire, la Repubblica di Weimar è diventata una sorta di metonimia del periodo tra le due guerre e dei suoi traumi».
Gli irresponsabili è una ricognizione retrospettiva della storia che precede le parate, i lager, la rinascita tedesca perpetrata sul filo dell’illusione, dell’abbaglio di massa. Complici anche i socialdemocratici e i comunisti, che si alleano con i nazisti alle elezioni amministrative e dei Länder pur di contrastare la tenuta costituzionale. In tal modo si accrescono le paure dell’imprenditoria produttiva, del latifondo e dello stesso esercito, che vorrebbe includere nei propri ranghi le SA e le SS per frenarne l’impeto nelle strade. Il cancelliere Brüning è incapace di prevedere l’esito della sua deriva antiparlamentare. Più di lui il presidente della Germania, Paul Ludwig von Beneckendorff und von Hindenburg. Il quale «era stato un bravo ufficiale di campo da giovane, ma poi non aveva guidato altro che caserme e squadre in manovre». Ai tempi di Weimar Hindenburg è un ultrasettantenne Junker prussiano legato alle sue proprietà rurali, restituitegli con un imbroglio legale dopo le confische attuate da Brüning. Pure, avverte Chapoutot, «non si dovrebbe considerarlo semplicemente come un vecchio e stupido militare». Infatti comprende la tendenza sempre più diffusa fra tutte le classi sociali ad accettare una stabilizzazione del Paese persino a costo di perdere la libertà. Hindenburg può solo lasciare le briglie ad Adolf Hitler, un «caporale austriaco» che si è inventato eroismi mai compiuti nelle trincee e ha dettato i suoi programmi a Rudolf Hess, un compagno di cella dalle idee esoteriche di ricongiungimento ariano fra i popoli del nord. Prospettiva che nella morente repubblica urtava contro l’iperinflazione, la fame e la mancanza di lavoro. Per gli irresponsabili, con una formula successiva e di diverso contesto della stessa epoca, Hitler fu la soluzione finale.
«Impara ad amare ciò che desideri ma anche ciò che gli assomiglia. Sii esigente e sii paziente. È Natale ogni mattino che vivi. Scarta con cura il pacco dei giorni. Ringrazia, ricambia, sorridi».
Parole di un vecchio saggio? Del filone epigrafico alla Osho? No. Di Stefano Benni, che incarnò con Michele Serra, Gino e Michele e altri una satira di parte ma non priva di freschezza giovanile, non giovanilista. Riuscendo a serbare nell’epoca del riflusso, della Milano da bere e dell’edonismo reaganiano la voglia di cambiamento, sincera e non sempre ideologica, maturata per le strade, sulle piazze e nelle università che fecero titolare a Mario Capanna il suo libro di memorie Formidabili quegli anni. Quella generazione, però, non si accorgeva di venire manipolata da quelli che oggi si chiamano poteri forti. L’Italia della grande migrazione che spopolò le campagne, delle varie emancipazioni doveva essere scristianizzata, resa omologa all’Occidente del pieno sviluppo che covava i germi della sua attuale crisi.
Nella rubrica settimanale su Panorama di allora, Benni non si fermava a certi limiti di buonsenso. Tipo quando paragonò agli americani sugli elicotteri della «guerra psicologica» di Apocalypse Now la lotta trionfale del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, l’eroe che sconfisse le Brigate Rosse e poi fu barbaramente ucciso nel 1982.
A differenza dei suoi compagni di cordata, comunque, Benni evolvette la sua visione ben definita in un flusso narrativo che annovera, fra gli altri, capolavori come Terra!, Comici spaventati guerrieri, e Margherita Dolcevita.
Eccelleva in una vena anticipatrice del multimediale. Divenne l’autore di Beppe Grillo. È a Benni che si devono le battute fulminanti del comico genovese, prodromi del suo impegno diretto in politica, da venire molto tempo dopo. Si cimentò con il grande schermo, dirigendo insieme a Umberto Angelucci Musica per vecchi animali, nel 1989, e scrivendo le sceneggiature di Topo Galileo, di Francesco Laudadio (1987), interpretato da Grillo e musicato da Fabrizio De André e Mauro Pagani, e di Bar Sport, (2011), regia di Massimo Martelli. Nella bibliografia di Benni non potevano mancare i fumetti, con le collaborazioni a Cuore, Tango, Il Mago e Linus. Soprattutto con l’affetto che lo legava ad Andrea Pazienza: «Era un rapporto ottimo, era un amico, un grande disegnatore e narratore, ed era appena all’inizio del suo percorso. Non si accontentava mai, cercava sempre di andare al di là di ciò che gli aveva dato successo, di cambiare, di sorprendere. Non tutti gli autori di fumetti hanno lo stesso coraggio. Avevamo delle idee in testa, volevamo fare insieme una trasposizione di Terra, per esempio, anche se era difficile seguire Andrea».
Con Stefano Benni un altro tassello dell’intellighenzia italiana postmoderna lascia il vuoto, presto riempito da sedicenti epigoni che non hanno neppure l’alibi della foga rivoluzionaria, perché semmai loro inneggiano allo status quo del presente. Sul quale aveva scritto: «Se i tempi non richiedono la parte migliore di te, inventa altri tempi».
Dopo i fasti di fine anni ’70 e inizio anni ’80, lui riuscì a trasporre il proprio carico irriverente in universi immaginari, nei quali i buoni e i cattivi non soggiacevano più al manicheismo postsessantottino. Valeva per lui una legge enunciata dal grande Stanislaw Lem: nei territori del fantastico anche la natura è morale. Ecco perciò pararglisi la possibilità di travasare nei suoi romanzi e racconti tematiche d’obbligo del suo schieramento politico, quale l’ecologismo non di rado irrazionale, in tappe del rapporto fra l’umanità e le cose.
E c’è un aspetto di lui che non affiora nelle commemorazioni di prassi. Benni era di Bologna, dove nelle notti del passato non imperversava la movida. Le vie deserte venivano attraversate dai biazzanott, i masticanotte, che si attardavano fino all’alba, magari facendo sosta per un bicchiere in qualche bar a rievocare amori, aneddoti e storie trasecolate. Che Benni fosse l’ultimo di loro?
Lo shuttle a velocità di fuga, investito dalla luce del sole, sembrava la punta aurea di una freccia scoccata verso le stelle. Ma il suo bersaglio era molto più vicino, sospeso in orbita terrestre, appena al di fuori della ionosfera. Ruotava con l’inesorabile moto perpetuo dei corpi celesti. In quel caso, dovuto a una combinazione di scienza e interessi economici.
Nella cabina dello shuttle, il pilota confrontò la stazione spaziale oltre l’oblò con l’immagine ingrandita che ne riceveva sul monitor.
Una scansione digitale riproduceva l’allineamento di approccio. Sulle fiancate esterne della fusoliera si accesero getti orientati in direzioni opposte: a sinistra verso l’alto e a destra verso il basso. Lo shuttle cominciò una serie di lente giravolte in senso orario lungo l’asse da poppa a prua. Era la manovra di raccordo con la stazione spaziale. Sui pannelli si scatenò il rapido baluginare delle cifre che indicavano l’accostamento, l’assetto e la velocità angolare.
«Ostaggi a zero G e pretese di riscatto dalla Corporazione» considerò il pilota. «L’umanità esporta il peggio nello spazio. Non bastava quello che c’è laggiù.»
Più di cinquecento chilometri in basso, s’incuravava la superficie terrestre.
«Da qui non si vede lo sfacelo» seguitò il pilota. «Petrolio esaurito, fonti rinnovabili irrisorie, clima insensato, sovrappopolazione, torme di predatori e nazioni in guerra per accaparrarsi l’acqua.»
L’altro, accanto in penombra, carezzò l’arma che teneva imbracciata.
Il pilota lo interpellò: «Quando è salito a bordo ho afferrato soltanto il suo grado, Colonnello.»
«Deve bastare.»
«Nella Corporazione non ci sono gradi.»
Il Colonnello si sporse in avanti. I riflessi della strumentazione gli disegnarono sul viso spettrali tatuaggi di luce, accentuandone il profilo angoloso e massiccio, dalla pelle bruna e dai tratti levantini: «Sono un contractor. Volontario.»
Il pilota esitò dinanzi allo sguardo dell’altro: «Non sarebbe più semplice distruggere l’intera stazione, compresi quelli che hanno preso gli ostaggi e il Virus Irreversibile?
Il Colonnello rinserrò l’arma: «A bordo si trova del personale altamente specializzato, non sacrificabile per la Corporazione. Inoltre, sarebbe arduo spiegare il perché di una misura così estrema senza ammettere la verità sul Virus Irreversibile. Ufficialmente, là sopra si producono miracoli della medicina. Non morbi artificiali per lo sterminio su scala biblica.»
«Ma se il suo tentativo fallisse, Colonnello?»
«Sequenza finale di approccio.» L’annuncio venne da una donna che non esisteva, se non come campionatura vocale dell’Ia.
Fuori, la stazione si profilò in tutta la sua ampiezza. Aveva la forma di una titanica ruota. Lo shuttle mirava al perno, adeguandosi alla rotazione con l’ausilio dei getti regolati dal programma di navigazione automatica. Non era più la punta di una freccia, ma uno squalo pigro che si rivoltava sul ventre.
Il Colonnello si infilò il casco: «Pronto per l’EVA.» Era la sigla dell’attività extraveicolare. «Prosegua nella traiettoria di approccio e faccia come se non sapesse affatto della mia esistenza.» Pigiò sul tastierino alfanumerico da polso e un attimo dopo era sparito.
O meglio, di lui restò un vago contorno semovente.
Lo strato esterno della tuta era un’intercapedine in cui venivano immesse nanocompomenti capaci di deflettere la luminosità. Schermavano anche la traccia radar e i segnali organici di chi la indossava. I getti della tuta venivano raffreddati al momento dell’espulsione.
La voce del pilota fu rivolta al fantasma prismatico del Colonnello: «Come farà a rilevare i loro segnali? Se si interfaccia con i sistemi della stazione, la individuano.»
«Tutti i codici di accesso, compresi quelli per aprire dall’esterno i portelli delle camere di equilibrio, mi arrivano su frequenze protette da un satellite della Corporazione di cui sa soltanto chi è autorizzato.»
«Lei? Un contractor?»
«Volontario.»
«E il Consiglio di Amministrazione si fida?»
«Come di chiunque non abbia interessi diretti negli affari correnti.»
La deflessione del Colonnello scomparve nella fusoliera. Il pilota guardò il quadrante delle aperture. Per un attimo si oscurò come per mancanza di alimentazione, e quando si attivò dava tutto ermeticamente chiuso.
Invece una figura indistinta era uscita dallo shuttle e si protendeva dallo scafo sul fondale stellato. O meglio era il fondale stesso che pareva contorcesi e contrarsi. Sotto, la Terra assisteva in silenzio col viso verdazzurro segnato dalle spirali delle formazioni nuvolose, che parevano rughe eternamente mutevoli.
Il pilota aprì il collegamento video dello shuttle con la stazione e sull’apposito monitor spuntò un individuo dalla determinazione aggressiva: «Numero di riconoscimento.»
«Volo 465» rispose il pilota. «Sequenza finale d’approccio. Ho specifiche direttive della Corporazione. Evacuare i feriti. »
L’individuo determinato ebbe una lieve contrazione delle gote: «Speriamo che le direttive prevedano anche di confermare che la Corporazione accetta di pagare, senza tattiche dilatorie. Altrimenti il Virus Irreversibile cesserà di essere confinato in questa stazione.»
Il Colonnello ascoltava dalla tuta. Aderiva al dorso dello shuttle con i tamponi magnetici dei guanti e degli stivali. Guardò i raggi della stazione che calavano in diagonale tra lui e lo spazio come tronchi nodosi di una foresta morta. Il movimento rallentò fino a perdersi del tutto, man mano che la rotazione dello shuttle si adeguò a quella del complesso orbitante. La distanza diminuiva e ad un tratto le forme frattali della stazione furono a portata di mano. Lo shuttle attraversò una zona d’ombra.
Adesso!
Il Colonnello si staccò dal dorso del velivolo e accese i getti sulle sue spalle. Spiccò un balzo in avanti, e alla tecnologia si aggiunse qualcosa di primordiale, che lui aveva di suo.
Approdò sulla superficie della stazione.
«Volo 465: attenersi alle procedure standard di attracco» continuò la voce dell’individuo determinato. «Ogni discrepanza sarà considerata azione ostile.»
Lo shuttle agganciò i bracci meccanici del bacino portuale. Un terminale pneumatico si accostò al portello di uscita. Il pilota avanzò cauto nel passaggio stagno e fu accolto da un volto senza tracce di comunicativa, dalla canna di un’arma e da una secca intimazione: «Con gli altri».
Nel vuoto esterno, il Colonnello compose una sequenza numerica sul tastierino da polso e il casco gli proiettò una mappa della stazione orbitante in realtà virtuale. Con verbalizzazioni sublabiali, l’uomo ottenne gli ingrandimenti dei settori. Fino a quello che cercava.
La cambusa.
Nel settore cucine della stazione, gli ostaggi erano accoccolati sul pavimento, sotto il tiro di cinque uomini armati. Un sesto entrò con il pilota dello shuttle sotto tiro.
La ricostruzione visionata dal Colonnello attribuiva a ciascuno connotati, identità e incarichi. Quello determinato era il capotecnico, il cui nome, Fergus Clark detto Gus, appariva in sovrimpressione seguito dal curriculum. La sua voce, rattenuta malgrado la tensione, scandiva ordini dal timbro impietoso.
Il Colonnello iniziò a sfrecciare nel paesaggio della grande ruota, con i getti a piena potenza. Un’ape silenziosa che conosceva la rotta fra travi e improvvisi spuntoni metallici. Il computer della tuta orientava il sistema propulsivo e ne regolava l’intensità per mantenere l’allineamento relativo alla stazione.
Finché non gli spararono addosso.
«Mirate alle deflessioni» asserì una seconda voce dalla radio.
Il Colonello si tuffò al riparo di un raggio della ruota orbitante. Altri proiettili lo inseguirono, sfiorandolo.
«Qui c’è abbondanza di fonti luminose» incalzò la voce. «Non giovano all’incolumità personale.»
A destra. Il Colonnello staccò l’arma dalla presa magnetica sulla tuta e si appigliò saldamente alla parete della stazione.
Aprì il fuoco.
Sparare in assenza di gravità esponeva a ingannevoli fattori balistici.
Una raffica del tutto priva di suono nel vuoto dello spazio, impossibile per qualsiasi silenziatore. Il resto lo fecero i proiettili, per conto proprio, con dispositivi di acquisizione del bersaglio. Aggirarono gli ostacoli che si paravano tra loro e l’obbiettivo. Una forma che fluttuava tra gli spuntoni di quella foresta frattale esplose in mille petali di latta e boccioli purpurei. I resti del cadavere si librarono in prossimità della stazione, avviluppati da uno zodiaco di sangue congelato.
Anche il Colonnello sapeva mirare alle deflessioni.
Di chi non attivava efficaci contromisure.
Altri due accoliti di Gus all’interno della stazione lo aspettavano al varco di una struttura di ponteggio. Stavolta il vantaggio dell’ombra era andato a loro.
«Bersaglio riacquisito» esultò una nuova voce nel casco del Colonnello.
«Sulla linea del fuoco» precisò il secondo.
Avevano già sparato. Il Colonnello fu colpito, in una replica dello scempio da lui stesso provocato poc’anzi.
«Riferire sullo stato della sorveglianza esterna» richiese il determinato Gus.
«La Corporazione» rispose uno dei due che avevano affrontato il Colonnello. «Qualcuno di loro ha provato a penetrare le difese.»
«Un commando» disse l’altro. Toccò una sorta di lampada tascabile sul calcio della sua arma, il cui fascio sottilissimo di luce aveva investito il Colonnello, rivelandolo. «Sensibile al puntatore.»
«Ricevuto» accusò Gus, dalla stazione. «È una violazione degli accordi. Ci costringono a rifarci sugli ostaggi. Per primo, il pilota dello shuttle.
«Non sono responsabile!» si appellò lui. La Corporazione non mi ha avvertito che trasportavo un clandestino. Sarà uscito per l’EVA durante la fase di…»
Fu interrotto da uno sparo. Nella stazione i rumori si udivano.
«Che facciamo, Gus?» domandò uno dei due, all’esterno.
«Effettuate una verifica di sicurezza.»
I complici destinati alla sorveglianza accesero i getti e planarono nervosamente lungo la circonferenza della stazione spaziale. Alle loro spalle, il fondale stellato si deformò attorno a una sagoma invisibile che raggiunse il portello della più vicina camera di equilibrio.
«…Perché, capite» recitò intanto Gus agli ostaggi nella cambusa, «il Virus Irreversibile è il Male con la emme maiuscola. E noi abbiamo contribuito a svilupparlo quassù.»
«Non lei» ribatté un individuo più anziano degli altri. «Perché si associa al reparto ricerca, quando l’hanno assunta per compiti di manutenzione?»
«Non lo provochi, signore» balbettò una delle quattro donne presenti.
«Via, dottoressa» disse Gus. «Gli lasci esprimere liberamente la filosofia della Corporazione, basata su una gerarchia che ci riporta agli albori della rivoluzione industriale.»
«Il ricatto aveva senso finché reggeva il segreto sulla nostra produzione di Virus Irreversibile» dichiarò quello più anziano. «Con la missione di salvataggio fallita, saranno i vertici stessi a informare i media. Diranno della sua minaccia di sganciarlo nell’atmosfera se la Corporazione non le versava… quanti milioni di dollari ha chiesto? Sono così tanti che me ne sono dimenticato.»
«Dovevano fruttare una giusta quota per tutti» si giustificò Gus. «Siamo una squadra numerosa.»
«Comunque» riprese l’anziano, «ora il mondo saprà che questa non è una fabbrica orbitante di meraviglie medicinali, ma un laboratorio per sintetizzare il Virus Irreversibile, l’unica soluzione per il contenere la pressione demografica. Soltanto che non l’avremmo usato a caso, come nei vostri intenti. Era in serbo per quei Paesi che hanno sviluppato testate nucleari e armamenti più sofisticati negando cibo e soprattutto acqua alle loro popolazioni. Cibo e acqua che vengono a razziare da noi.
«Per noi era lo stesso un abominio» disse Gus. «E quando ai piani bassi del reparto manutenzione abbiamo capito il potenziale apocalittico sviluppato sulla stazione, ci è venuta voglia di chiamarci fuori. Non senza pretendere un’equa buonuscita.»
«La Corporazione ha optato diversamente» lo rimbrottò l’anziano. «Chiunque fosse, là fuori, sulla Terra vogliono cancellarvi senza cedere. Rimettendoci anche qualcuno di noi. O tutti. Non s’illuda che l’attacco sia finito. Potrebbero perfino decidere di lanciare contro la stazione una testata nucleare.»
«Una tempra sacrificale, la sua» approvò Gus, senza abbassare l’arma.
«Gus, lui ha ragione» disse uno degli altri cinque con le armi.
Gus tornò alla sua determinazione: «Non sei un profano. Conosci gli effetti. Un’esplosione a ridosso dell’atmosfera provocherebbe il NEMP, l’impulso elettromagnetico nucleare. Oscuramento delle comunicazioni, azzeramento delle banche dati. Il castigo biblico di un mondo votato alla propria dannazione. Le testate sono pur sempre in mano al Governo, che non esaudirebbe la richiesta della Corporazione.»
«Qualsiasi cosa è meglio di una pandemia da Virus Irreversibile» lo corresse imperterrito l’anziano del Consiglio di Amministrazione. «Lo faranno. Arriveranno all’opzione nucleare.»
Gus lo ignorò: «Quando ci mettono quei due a rientrare?»
In quell’istante sul petto gli si aprì una voragine gorgogliante di sangue. E così a ciascuno degli altri complici. Anche da morti, tuttavia, le dita gli si contrassero sui grilletti, e risposero inutilmente al fuoco contro un avversario che li aveva già annientati. Gli ostaggi urlarono, rifugiandosi dietro ogni possibile riparo. L’unico a restare imperturbato al centro dell’ambiente fu quello del Consiglio di Amministrazione, con l’uniforme azzurrina maculata del sangue di Gus.
Il fragore fu presto riassorbito dal silenzio, perché non c’erano echi tra le pareti della stazione.
Qualcuno puntò un dito tremante nel vano della porta.
«L’aria… si muove qualcosa…»
«Decompressione!»
«Fermi!» li inchiodò l’uomo del Consiglio di Amministrazione.
Il movimento era quello di immagini su uno specchio deforme. Le nanocomponenti si ritrassero dall’intercapedine della tuta, e riapparve il Colonnello.
Il rappresentante del Consiglio di Amministrazione non aveva perso la compostezza: «La davano per morto».
«Hanno colpito un mio ologramma programmato per simulare morte e decompressione.»
La donna di prima si lasciò sfuggire dei singhiozzi.
«Atterson, del Consiglio di Amministrazione» L’anziano, non porse la mano. «Non ha fatto prigionieri, signor?…»
«Colonnello» si presentò lui, senza abbassare l’arma. «E i prigionieri siete sempre voi.»
Scostò il cadavere di Gus, che nella ridotta gravità della stazione parve ancora più inerte.
«Nella Corporazione non esistono…» cominciò Atterson.
«…gradi. Ma io vengo dall’esercito di una di quelle nazioni contro le quali contavate di impiegare il Virus Irreversibile.» Lo sguardo gli cadde sui resti del pilota. Si passò una mano sul viso. «Questo non è il risultato momentaneo di un’esposizione al sole, ma il colore naturale della pelle che si sviluppa a certe latitudini. Sono davvero un colonnello. La produzione di Virus Irreversibile su questa stazione era nota da tempo al nostro spionaggio. Prima ancora d’infiltrarmi nei servizi di sicurezza della Corporazione. Avevo il compito di studiare un progetto di fattibilità per qualcosa del genere» accennò alla scena e lanciò un’occhiata a quelli che aveva ucciso. «Ma loro sono stati più svelti. All’ufficio personale della Corporazione si fanno un dovere di assumere individui determinati. E io lo sono, più di tutti loro e di voialtri che avete lavorato al virus. Gus e i suoi ci hanno risparmiato un piano molto più articolato per arrivare qui. Mi è bastato offrirmi come contractor volontario per questo salvataggio. Ora le trattative non sono più con la Corporazione, ma con il Governo. Il vostro. Per conto del mio, naturalmente. La stazione passa sotto il nostro controllo. Preferiamo tenerci noi il Virus Irreversibile. Ottimo deterrente nel caso non esaudirete alcune piccole richieste.»
«In quali ambiti?»
«Biotecnologie. Dopotutto, il Virus Irreversibile ha i suoi contraltari, nel mondo sviluppato. Oltre al segreto dell’ecatombe, possedete le conoscenze che occorrono per fertilizzare il deserto, attuare il pieno riciclo degli scarichi fognari.»
«Insomma, volete strapparci le nostre polizze sulla sopravvivenza.»
«Condividere, è il verbo. E se salta questa stazione, succederà anche a una città del vostro Grande Paese, là sotto. Dove dei nostri emissari hanno depositato un innesco nucleare. Alle mie spalle c’è un’autorità governativa, non l’improvvisazione di Gus e compagni. In più, ho il quadro completo delle trappole della Corporazione. Contro di me non la spunterà nessuno.»
Atterson annuì più volte, assorbendo tutto ciò che aveva udito. Poi gli affiorò sulle labbra un sorriso distorto e disse: «Peccato, Colonnello».
«Per la Corporazione? Sì, peccato.»
«No. Per lei. O meglio per milioni di suoi compatrioti.»
Il Colonnello accentuò gli angoli del viso con una rinserrata dei denti.
Atterson annuì più lentamente. E il suo sorriso acquistò la serafica freddezza del potere: «Il suo Paese era una spina nel fianco per noi, ma ci mancava un casus belli. Ora lo abbiamo.
«Questo lo credo.» La voce del Colonnello aveva perduto ogni armonica di trionfo.
«Allora creda anche al resto.»
Il Colonnello attese in silenzio.
Atterson, da buon consigliere di amministrazione, non amava i tempi morti, e riprese immediatamente: «Quella del Virus Irreversibile era un’esca troppo succosa per sprecarla con gli esaltati della guerra batteriologica. Perciò abbiamo preferito giocarcela con le menti eccelse della Sicurezza Nazionale. Loro non hanno avuto difficoltà a diffondere indiscrezioni più contagiose del virus stesso. Tanto da far cadere i capi del suo Paese in preda a un attacco di presunzione acuta.
Il Colonnello abbassò l’arma.
«La presunzione di poterla infiltrare, Colonnello» proseguì Atterson. «Gus e gli altri hanno agito per induzione ipnotica. Conoscevamo le intenzioni del suo Paese e abbiamo fornito l’opportunità della sua entrata in campo, Colonnello. Posso recitarle il suo curriculum. L’abbiamo seguito passo per passo, fino alla sua encomiabile prestazione di poco fa. La sua presenza ostile è un atto di guerra, che costringe la Corporazione a chiedere la tutela del nostro governo. Il tutto trasmesso in diretta televisiva sull’intero pianeta.
A zero G, insieme con il peso si annullava il tempo. Dopo attimi d’infinito, il Colonnello chiese: «Che significa?»
«Che lei ha vinto la sua battaglia qui, ma il suo Paese sta già perdendo contro l’attacco di ritorsione sferrato dal nostro governo subito dopo la rivelazione della sua vera identità. Tutti i siti di lancio della sua gloriosa patria vengono neutralizzati dai nostri armamenti satellitari.»
«Questo vi costa una città.»
«L’innesco nucleare piazzato dagli emissari del suo Paese? Abbiamo monitorato dall’inizio quel maldestro tentativo. Le unità specializzate sono state pronte a vanificare ogni rischio di deflagrazione. Davanti a una simile capacità di autodifesa, da parte nostra, gli altri Paesi con le stesse intenzioni del suo, abbasseranno le pretese.»
Il Colonnello annuì, senza guardare le armi comparse fra le mani di quelli che fino a qualche minuto prima erano stati ostaggi ed ora lo tenevano sotto mira.
«Che gliene pare, Colonnello?» domandò Atterson.
«È tutto come il virus. Irreversibile.»
Il Colonnello portò una mano alla cintura di servizio della sua tuta, in cerca di un pulsante.
«Irreversibile» ripeté.
E la stazione, esplodendo, divenne più simile a una stella di quanto non lo fosse stata fino a pochi istanti prima, quando l’unica luce che emetteva era quella riflessa del sole.
Sulla Terra, le moltitudini che infestavano l’emisfero al di sopra del quale transitava la stazione levarono occhi verso il cielo e il sorgere del nuovo astro. Lo fecero in miliardi. Interrompendo battaglie, crimini, barbarie e altre atrocità. Accadde lo stesso per le vittime. Guardarono il prodigio luminoso che si accendeva in alto, con la speranza di un sollievo supremo, di un affrancamento definitivo dall’orrore di soffrire per la crudeltà ormai diffusa come un’epidemia, di più: entrata di forza nel codice genetico di una specie colpevole della sua stessa esistenza.
Ma da quello splendore non proveniva la redenzione. Né la promessa di un dopo.
Anche per l’umanità era tutto irreversibile.





