
Altra accelerazione sul Safe: via libera al regolamento per permettere pure agli inglesi di attingere al fondo da 150 miliardi di euro. In ballo l’acquisto di droni, satelliti e missili.Che la Von der Leyen (Commissione) se ne sarebbe infischiata delle minacce della Metsola (Parlamento) di ricorrere alla Corte dell’Unione contro la procedura accelerata per il piano di riarmo, non desta grande sorpresa. Ursula l’aveva detto in modo più o meno esplicito che non avrebbe fatto un plissé e del resto se stiamo alla fantasiosa narrazione di Bruxelles che vede i fantasmi dell’esercito russo pronti a invadere il Vecchio continente, tutto torna. Più difficile aspettarsi che nel giro di qualche settimana ci sarebbe stata un’ulteriore accelerazione verso il Safe (strumento di azione per la sicurezza dell’Europa), il fondo da 150 miliardi di euro destinato a sostenere gli appalti congiunti nel settore. Uno dei pilastri del «ReArm Europe», poi rinominato «Readiness 2030». È successo infatti che gli ambasciatori degli Stati membri (Coreper) si siano prima riunti in una seduta straordinaria (di domenica), senza cavare un ragno dal buco, e poi ieri mattina, nel corso di un altro vertice urgente, abbiano trovato la bozza di un’intesa (nonostante lo scetticismo di diversi Paesi) sul testo che dovrebbe essere approvata nel corso del Coreper di domani. Passaggio decisivo (la Commissione non c’entra direttamente, ma la pressione politica è evidente), perché poi all’appello mancherà una riunione del Consiglio Giustizia per l’adozione formale del testo e la pubblicazione del regolamento nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea. A quel punto il Safe entrerà in vigore. Ma perché tanta fretta? Semplice, nelle scorse ore Unione europea e Regno Unito hanno siglato un accordo di partenariato che ricomprende anche i temi di sicurezza e difesa. E aprire a Londra la possibilità di ricevere i 150 miliardi del Safe, vuol dire assicurarsi un altro alleato chiave sui progetti di riarmo della Commissione a trazione franco-tedesca. Serviva però un testo che ora c’è. L’accordo prevede, per esempio, che Bruxelles e Londra condivideranno informazioni sensibili, ma non solo. Perché non è escluso che nelle aree geografiche di interesse comune, il Regno Unito partecipi alla gestione civile e militare delle situazioni di conflitto e coordini con la stessa Unione le risposte da dare rispetto ai rischi posti da Stati terzi. Se a questo si aggiungesse anche la possibilità di attingere ai finanziamenti di un apposito fondo europeo è chiaro che il rapporto diventerebbe quasi simbiotico. Quasi a bypassare la Brexit e chi l’ha votata. E qui veniamo ai risvolti pratici della faccenda. A cosa servirà il Safe? I 150 miliardi di prestiti come potranno essere usati? Ci sono due elenchi. Nel primo si parla di acquisto di munizioni e missili, sistemi di artiglieria e di combattimento terrestre, piccoli droni, strutture per proteggere le infrastrutture critiche, impianti cyber e per la mobilità militare. Nel secondo invece sono stati inseriti i sistemi di difesa aerea e missilistica, i supporti marittimi di superficie e subacquei, i droni (diversi dai piccoli droni), ma anche asset strategici per il trasporto aereo, il rifornimento aria-aria e i servizi spaziali. Nel testo inoltre viene confermata l’apertura dei prestiti ai contratti di appalto già esistenti. E si stabilisce che il costo dei componenti da Paesi non appartenenti all’Unione e all’Ucraina non deve superare il 35% del costo stimato dei componenti del prodotto finale. Alcune cose erano note ed altre meno. Ma il punto è che sull’abbrivio della strada indicata dalla Commissione e con una certa forzatura verso i Paesi più scettici, l’Europa ha compiuto un passo decisivo verso il fondo per il riarmo con l’obiettivo di far rientrare anche Londra tra i beneficiari. Il Safe è il cuore del «Readiness 2030» perché certo il piano prevede anche la possibilità di esercitare la clausola nazionale (in realtà è scaduta ad aprile) che permette di investire fino all’1,5% del Pil nella difesa scorporandolo dal deficit. L’obiettivo è mobilitare così 650 miliardi in quattro anni. Ma si tratterebbe comunque di fondi propri che Paesi fortemente indebitati come l’Italia non hanno la possibilità di spendere.
Ansa
Il triste primato nello stabilimento dove doveva sorgere la gigafactory per le elettriche.
Chicco Testa (Imagoeconomica)
L’esperto di energia demolisce le politiche dell’Unione a partite dagli Ets: «Sono un prodotto finanziario». Sui dati: «Emissioni mai diminuite ma famiglie e imprese sono in crisi. Anche il Pd faccia autocritica».






