
La stampa rilancia subito la crociata di Draghi e Prodi contro l’unanimità. Spacciata per il completamento dell’unificazione, blinderebbe le asimmetrie di potere tra Paesi.Al loro segnale, si scatena l’inferno. Va sempre così: i pezzi da novanta dettano la linea, la cinghia di trasmissione si attiva, la grancassa mediatica diffonde il verbo. È successo anche con il ritorno di Mario Draghi e Romano Prodi, scesi in campo di nuovo, venerdì sera, per promuovere la madre delle riforme europee: l’abolizione del diritto di veto in Consiglio Ue, in favore del solo voto a maggioranza qualificata. La stampa ha raccolto l’assist e, ieri, ha lanciato la campagna: su Avvenire, ad esempio, svettava un editoriale contro le «mani legate» da «liberare» sopprimendo il requisito dell’unanimità; il Corriere ospitava un’intervista alla presidente dell’Europarlamento, Roberta Metsola, che ha rievocato i bei tempi in cui, nel vertice dei capi di Stato e di governo, vigeva la prassi dell’«approvazione per “consenso”», una sorta di tacito assenso, senza bisogno di una conta ufficiale dei suffragi; più sottilmente, Repubblica e Stampa celebravano la fronda riformista del Pd, benedetta dal fondatore dell’Ulivo e idealmente guidata da Paolo Gentiloni, ex commissario europeo. Una corrente che, nella sua agenda, include il passaggio al principio maggioritario.L’ex federatore della sinistra ha attinto all’antica retorica, più volte utilizzata anche da Sergio Mattarella, dei piccoli Stati - leggi Ungheria - che mettono i bastoni tra le ruote e rendono l’Europa ininfluente. Tale interpretazione trascura almeno un paio di dettagli importanti.Il primo è che la sclerosi dell’Unione è il risultato dell’allargamento eccessivo delle sue competenze, a fronte dell’impossibilità strutturale di superare le divergenze di interessi tra i Paesi che la compongono. Anziché un’Europa che fa più cose, zittendo il dissenso, servirebbe un’Europa che ne fa di meno e che congiunge le nazioni in quelle poche ma cruciali materie sulle quali devono viaggiare insieme.Il secondo particolare è che, senza il diritto di veto, sarebbero venuti meno gli argini ad alcune iniziative dal potenziale catastrofico, tipo la confisca degli asset russi congelati, cui giustamente il Belgio si oppone, temendo ritorsioni e conseguenze di lungo periodo sull’attrattività del Vecchio continente per i capitali stranieri.Per inciso, al momento ci sta salvando una sottigliezza giuridica: l’unanimità è sancita dai Trattati; per modificare i Trattati, bisogna che tutti gli Stati membri dell’Ue siano d’accordo; in parole povere, per abrogare l’unanimità occorrerebbe l’unanimità, che adesso non c’è.Ma stiamo al gioco. Seguiamo fino in fondo il ragionamento degli innovatori, per capire dove ci porterebbero davvero. La prospettiva di Mr. Bce è illuminante. Cos’è, infatti, il suo «federalismo pragmatico», fondato sulla costruzione di cangianti «coalizioni di volenterosi», che di volta in volta si costituirebbero attorno a «interessi strategici condivisi», se non la fine dell’Ue e la sua sostituzione con una specie di comitato d’affari a direzione variabile, guidato ora dall’una ora dall’altra cordata di egemoni, dotati di prerogative imperiali?La logica dell’«unione» si basa sulla pari dignità dei contraenti: il tutto sarà anche superiore alle parti, ma non le annulla e non le umilia. Certo, le asimmetrie di potere sono impossibili da cancellare. Le abbiamo viste operare soprattutto quando la Germania ha esercitato in modo spregiudicato il suo predominio, seguendo alla lettera il copione del centro imperiale che accresce i profitti drenando la periferia geografica e politica. Sorvoliamo sull’infelice scelta del paragone con i volenterosi, un format che fino ad oggi, sull’Ucraina, ha prodotto grossi volumi di aria fritta. Il guaio è che la svolta auspicata da Draghi blinderebbe quella perversione del processo di integrazione europea, che per anni ha reso l’Ue ostaggio dei capricci di Berlino. E forse non è un caso che, per renderla più digeribile, chi la propina ricorra a un equivoco terminologico: non si tratta affatto di «federalismo». Neppure di «centralismo», poiché non ci sarebbe un’autentica cessione di sovranità all’organo esecutivo o legislativo dell’Unione. Le sovranità dei Paesi più fragili diventerebbero ostaggio della dialettica tra le nazioni più grandi, delle convergenze che, caso per caso, permetterebbero di costituire la necessaria maggioranza qualificata.Beninteso: non è detto che l’Italia ne uscirebbe sempre perdente. Se la regola rimanesse quella già oggi in vigore su molte questioni comunitarie, per avere la meglio in Consiglio servirebbe l’assenso del 55% degli Stati membri, purché rappresentino il 65% della popolazione Ue. Per bloccare una decisione, occorrerebbe lo sbarramento di almeno quattro Stati, pari al 35% della popolazione. Più o meno spesso, si potrebbe finire nella squadra vincente. Altro discorso è se l’obiettivo sia cassare qualunque quorum e affidare il meccanismo al peso specifico dei gruppi d’interesse: diventerebbe impossibile, allora, opporsi alla volontà di Francia e Germania, quando si trovassero d’accordo. Il punto sta nell’imparare a leggere il senso del ragionamento riformista: il «pragmatismo» è la morte dell’Unione europea; questo bizzarro «federalismo» si limiterebbe a spacciare per «integrazione» la conquista dei più deboli da parte dei più forti. Presumiamo che, all’Ucraina, entrare nel club da membro di serie B starebbe pure bene. Per convincere noi, invece, non basta più agitare lo spauracchio di Viktor Orbán, né raccontarci, come ha fatto Draghi, che «siamo sotto attacco» e quindi dobbiamo reagire. Qui i russi c’entrano poco. Questo, semmai, è fuoco amico.
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Il richiedente asilo, condannato nell’Essex per abusi su una minore, dopo la scarcerazione aveva persino provato a ripresentarsi in galera, invano. Ora è ricercato in tutto il Paese. Sempre a Londra, arrestati quattro islamici col volto coperto durante una protesta.
Elly Schlein (Ansa)
Ristampata l’opera del filosofo Michael Walzer: da liberal, collegò il senso di superiorità progressista all’influenza del messianismo puritano. È la logica ispiratrice del woke. E di Elly Schlein, che considera la destra un «pericolo».
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L’Ue non sia un sistema chiuso, semmai un tassello dell’alleanza tra democrazie.
L’Ue ha certamente bisogno di più compattezza per facilitare una reazione positiva e competitiva delle sue nazioni al cambio di mondo generato da molteplici discontinuità sul piano geopolitico, (geo)economico, tecnologico/industriale, ambientale, demografico e della ricchezza diffusa socialmente. Ma accelerare la creazione di una Confederazione europea - come più voci di sinistra stanno invocando - che annulli le sovranità nazionali sarebbe un errore perché ne renderebbe più probabile la frammentazione.
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Il triste primato nello stabilimento dove doveva sorgere la gigafactory per le elettriche.






