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2024-01-09
Ucciso un capo militare di Hezbollah. Blinken: «Il conflitto non va esteso»
Ansa
Ieri durante un raid israeliano nel Sud del Libano è stato ucciso Wissam Tawil comandante anziano dell’unità d’élite degli Hezbollah denominata Radwan. Tawil era uno dei responsabili delle operazioni nella regione meridionale del Libano; è stato assassinato a Kherbet Selem, una località libanese situata circa 20 chilometri a Nord della linea di demarcazione con Israele. Anche se le parti non lo dicono esplicitamente, tra gli Hezbollah e Israele è guerra aperta, visti i continui attacchi lanciati dal Libano e le risposte israeliane. Sempre nella giornata di ieri il gruppo libanese ha dichiarato di essere responsabile di due attacchi contro postazioni militari israeliane nell’Alta Galilea, vicino alla linea di demarcazione con il Libano.
Di Hezbollah e del Libano ha parlato il ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, che in un’intervista al Wall Street Journal ha dichiarato che Israele non ha paura di entrare in guerra con il gruppo terroristico: «Se guardano a cosa sta succedendo a Gaza, sanno che possiamo fare copia-incolla a Beirut. Circa 80.000 persone devono poter tornare alle loro case in sicurezza e quindi, se tutto il resto fallisce, siamo disposti a sacrificarci». Pronta la risposta del capogruppo parlamentare di Hezbollah, Muhammad Raad: «Non cerchiamo l’estensione della guerra, ma piuttosto la fine dell’aggressione israeliana. Tuttavia, è certo che, se Israele decide di ampliare il conflitto attaccando il nostro Paese, saremo pronti ad andare fino in fondo. Non temiamo le loro minacce». Sempre al Wsj Gallant ha detto che le forze israeliane «stanno passando da quella che ha definito come un’intensa fase di manovra bellica a diversi tipi di operazioni speciali», poi ha chiarito che la terza fase della guerra «durerà più a lungo», dato che Israele «non rinuncerà al suo obiettivo di smantellare Hamas, porre fine al suo controllo su Gaza e liberare gli ostaggi detenuti da Hamas».
A proposito di Hamas, secondo il giornale Israel Hayom e la radio Kan, citando l’ex capo dell’intelligence militare israeliana Amos Yadlin, le autorità israeliane sarebbero a conoscenza della posizione del leader di Hamas, Yahya Sinwar. Tuttavia, non sarebbero in grado di colpirlo «perché si è circondato di un grande numero di ostaggi israeliani vivi». Mentre la jihad islamica ha diffuso sui social un video dell’ostaggio Elad Katzir, 47 anni, rapito il 7 ottobre scorso nel kibbutz di Nir Oz. Per quanto riguarda l’Iraq, gli iraniani appoggiano l’iniziativa del governo iracheno volta a preparare la conclusione della missione nel Paese da parte della coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti. Tale iniziativa è stata annunciata dal primo ministro Mohammed Shia al Sudani, in seguito al raid statunitense dello scorso 4 gennaio.
Il segretario di Stato americano Antony Blinken, durante il suo terzo giorno di missione diplomatica in Medio Oriente, ha incontrato ad Abu Dhabi lo sceicco Mohammed bin Zayed, leader degli Emirati arabi. Durante l’incontro, Blinken ha sottolineato l’importanza di prevenire un ulteriore diffondersi del conflitto e ha ribadito l’impegno continuo degli Stati Uniti per garantire una pace regionale duratura che assicuri la sicurezza di Israele e favorisca il progresso verso la creazione di uno Stato palestinese indipendente, come dichiarato dal Dipartimento di Stato. In precedenza, alla Cnn ha criticato «le dichiarazioni irresponsabili e incendiarie» fatte da ministri dell’estrema destra israeliana che vogliono il reinsediamento dei palestinesi fuori Gaza. Blinken è giunto ad Abu Dhabi dopo aver svolto incontri simili in Qatar, Giordania, Turchia e Grecia. In serata, il segretario di Stato si è recato nell’oasi saudita di al Ula, residenza invernale dell’erede al trono saudita Mohammed Bin Salman, il quale nelle scorse ore ha ottenuto il via libera dal ministro degli Esteri tedesco Annalena Baerbock per l’acquisto di jet da guerra Eurofighter.
Infine, non si fermano in Israele le proteste dei sostenitori del movimento Changing direction della coalizione Elections now, che ieri hanno bloccato fino all’arrivo della polizia l’ingresso principale della Knesset a Gerusalemme. La richiesta principale del gruppo è quella «di elezioni anticipate e la sostituzione immediata del governo, con l’espulsione degli estremisti dall’esecutivo». Durissime le parole su Benyamin Netanyahu pronunciate da Roni Goren Ben-Zvi, il cui fratello Yonatan Richter è stato assassinato al Nova festival: «Mio fratello è stato ucciso a causa di un uomo che da otto anni conduce una guerra privata contro l’intero Paese solo per poter sopravvivere, eludere la giustizia e continuare a derubare i nostri fondi. Solo gli sciocchi seguono le sue bugie. È un narcisista che non ha mai pensato alla sicurezza del Paese e dei suoi cittadini». Mentre andiamo in stampa, l’Idf ha reso noto di aver eliminato in Siria un esponente di Hamas conosciuto come Hassan Akasha, ritenuto responsabile del lancio di razzi verso il Nord di Israele nelle ultime settimane.
Il «piano B» di Kiev è Viktor Orbán
Il futuro della guerra in Ucraina molto probabilmente dipenderà dal premier ungherese Viktor Orbán. Una serie di eventi lo hanno fatto diventare la pedina più importante di questo conflitto e ad accorgersene è soprattutto il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba che, in un’intervista a El Paìs, ha rivelato che non esiste un piano B all’invio di aiuti militari da parte di Stati Uniti e Unione europea. Kuleba ha cercato così di persuadere gli alleati occidentali a inviare rifornimenti adesso, prima che diventi troppo tardi. «Se si decide di sospendere o negare» ora gli aiuti all’Ucraina, «a causa della mancanza di risorse la Russia potrebbe avere successo sul campo di battaglia e rompere le linee» e a quel punto «ci sarà una reazione pubblica molto forte» a favore del sostegno a Kiev «e gli stessi politici che hanno deciso di negare gli aiuti decideranno di fornirli, ma in circostanze estreme. Quindi, anche da una prospettiva razionale, ha più senso fornire assistenza ora per evitare una crisi in futuro», ha spiegato il titolare degli esteri ucraino. Ma se da un lato Kiev teme Orbán, responsabile dell’interruzione di rifornimenti a causa del veto posto lo scorso dicembre, dall’altro ha intenzione di tentare una mediazione. L’idea è quella di fissare un incontro tra il premier ungherese e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky per «esaminare l’agenda e risolvere tutti i problemi». Insomma la strada è obbligata: bisogna trattare con Orbán e convincerlo a far cadere il veto, soprattutto adesso che dopo l’annuncio della candidatura del presidente del Consiglio Ue, Charles Michel, rischia di andare a coprire il ruolo di presidente. Intanto il primo febbraio si terrà un vertice straordinario per parlare del dossier della revisione del bilancio europeo, con la previsione di un’assistenza finanziaria da 50 miliardi a favore dell’Ucraina. «La prima opzione è che sulla revisione del bilancio comune si arrivi a una intesa a 27 ma un piano B c’è», ha detto il ministro delle Finanze belga, Vincent van Peteghem, lasciando intendere che si potrebbe arrivare a un modo di fornire aiuti a Kiev aggirando il veto di Orbán.
Nel frattempo il capo dell’Ufficio del presidente ucraino, Andriy Yermak, ha avuto un colloquio telefonico con l’inviato speciale di papa Francesco per la missione di pace in Ucraina, il cardinale Matteo Maria Zuppi. Yermak ha informato il cardinale Zuppi «sulla situazione dei massicci attacchi missilistici effettuati dalla Russia contro l’Ucraina negli ultimi dieci giorni». Poco prima, sempre Yermak aveva avuto un colloquio telefonico anche con il Segretario di Stato vaticano, il cardinale Pietro Parolin.
Sul campo la mancanza di armi si fa sentire. Le forze aeree ucraine non sono in grado di coprire tutti i cieli con i sistemi di difesa. A dirlo lo stesso portavoce delle forze aeree, Yurii Ihnat, e Mosca ne approfitta per intensificare i suoi attacchi. Ieri l’esercito russo ha lanciato contro l’Ucraina 59 tra missili di diverso tipo e droni, la difesa ucraina ne ha abbattuti meno della metà: 18 missili e 8 velivoli senza pilota. Mosca ha affermato di aver colpito siti industriali e militari, sottolineando di avere impiegato anche missili ipersonici Kinzhal. Allo stesso tempo, però, le forze ucraine sono riuscite a distruggere un ponte ferroviario strategico costruito dai russi vicino alla città occupata di Mariupol, che serviva per il progetto di ferrovia fra la Russia e la Crimea occupata. Mentre la guerra va avanti il Wall Street Journal rivela nuove indiscrezioni circa il sabotaggio del Nord Stream. Secondo il quotidiano americano, la Polonia avrebbe cercato di ostacolare le indagini rifiutandosi di collaborare e nascondendo prove chiave.
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L’Idf minaccia le milizie libanesi: «Avete visto Gaza, faremo copia e incolla a Beirut». Fonti vicine ai servizi rivelano che l’esercito sa dov’è il leader di Hamas, ma non può colpirlo: «Usa ostaggi israeliani come scudo».L’Ucraina lavora a un incontro con il premier ungherese per sbloccare gli aiuti della Ue. E il «Wsj» rivela: «La Polonia ha ostacolato le indagini sul sabotaggio al Nord Stream».Lo speciale contiene due articoli. Ieri durante un raid israeliano nel Sud del Libano è stato ucciso Wissam Tawil comandante anziano dell’unità d’élite degli Hezbollah denominata Radwan. Tawil era uno dei responsabili delle operazioni nella regione meridionale del Libano; è stato assassinato a Kherbet Selem, una località libanese situata circa 20 chilometri a Nord della linea di demarcazione con Israele. Anche se le parti non lo dicono esplicitamente, tra gli Hezbollah e Israele è guerra aperta, visti i continui attacchi lanciati dal Libano e le risposte israeliane. Sempre nella giornata di ieri il gruppo libanese ha dichiarato di essere responsabile di due attacchi contro postazioni militari israeliane nell’Alta Galilea, vicino alla linea di demarcazione con il Libano. Di Hezbollah e del Libano ha parlato il ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, che in un’intervista al Wall Street Journal ha dichiarato che Israele non ha paura di entrare in guerra con il gruppo terroristico: «Se guardano a cosa sta succedendo a Gaza, sanno che possiamo fare copia-incolla a Beirut. Circa 80.000 persone devono poter tornare alle loro case in sicurezza e quindi, se tutto il resto fallisce, siamo disposti a sacrificarci». Pronta la risposta del capogruppo parlamentare di Hezbollah, Muhammad Raad: «Non cerchiamo l’estensione della guerra, ma piuttosto la fine dell’aggressione israeliana. Tuttavia, è certo che, se Israele decide di ampliare il conflitto attaccando il nostro Paese, saremo pronti ad andare fino in fondo. Non temiamo le loro minacce». Sempre al Wsj Gallant ha detto che le forze israeliane «stanno passando da quella che ha definito come un’intensa fase di manovra bellica a diversi tipi di operazioni speciali», poi ha chiarito che la terza fase della guerra «durerà più a lungo», dato che Israele «non rinuncerà al suo obiettivo di smantellare Hamas, porre fine al suo controllo su Gaza e liberare gli ostaggi detenuti da Hamas». A proposito di Hamas, secondo il giornale Israel Hayom e la radio Kan, citando l’ex capo dell’intelligence militare israeliana Amos Yadlin, le autorità israeliane sarebbero a conoscenza della posizione del leader di Hamas, Yahya Sinwar. Tuttavia, non sarebbero in grado di colpirlo «perché si è circondato di un grande numero di ostaggi israeliani vivi». Mentre la jihad islamica ha diffuso sui social un video dell’ostaggio Elad Katzir, 47 anni, rapito il 7 ottobre scorso nel kibbutz di Nir Oz. Per quanto riguarda l’Iraq, gli iraniani appoggiano l’iniziativa del governo iracheno volta a preparare la conclusione della missione nel Paese da parte della coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti. Tale iniziativa è stata annunciata dal primo ministro Mohammed Shia al Sudani, in seguito al raid statunitense dello scorso 4 gennaio. Il segretario di Stato americano Antony Blinken, durante il suo terzo giorno di missione diplomatica in Medio Oriente, ha incontrato ad Abu Dhabi lo sceicco Mohammed bin Zayed, leader degli Emirati arabi. Durante l’incontro, Blinken ha sottolineato l’importanza di prevenire un ulteriore diffondersi del conflitto e ha ribadito l’impegno continuo degli Stati Uniti per garantire una pace regionale duratura che assicuri la sicurezza di Israele e favorisca il progresso verso la creazione di uno Stato palestinese indipendente, come dichiarato dal Dipartimento di Stato. In precedenza, alla Cnn ha criticato «le dichiarazioni irresponsabili e incendiarie» fatte da ministri dell’estrema destra israeliana che vogliono il reinsediamento dei palestinesi fuori Gaza. Blinken è giunto ad Abu Dhabi dopo aver svolto incontri simili in Qatar, Giordania, Turchia e Grecia. In serata, il segretario di Stato si è recato nell’oasi saudita di al Ula, residenza invernale dell’erede al trono saudita Mohammed Bin Salman, il quale nelle scorse ore ha ottenuto il via libera dal ministro degli Esteri tedesco Annalena Baerbock per l’acquisto di jet da guerra Eurofighter. Infine, non si fermano in Israele le proteste dei sostenitori del movimento Changing direction della coalizione Elections now, che ieri hanno bloccato fino all’arrivo della polizia l’ingresso principale della Knesset a Gerusalemme. La richiesta principale del gruppo è quella «di elezioni anticipate e la sostituzione immediata del governo, con l’espulsione degli estremisti dall’esecutivo». Durissime le parole su Benyamin Netanyahu pronunciate da Roni Goren Ben-Zvi, il cui fratello Yonatan Richter è stato assassinato al Nova festival: «Mio fratello è stato ucciso a causa di un uomo che da otto anni conduce una guerra privata contro l’intero Paese solo per poter sopravvivere, eludere la giustizia e continuare a derubare i nostri fondi. Solo gli sciocchi seguono le sue bugie. È un narcisista che non ha mai pensato alla sicurezza del Paese e dei suoi cittadini». Mentre andiamo in stampa, l’Idf ha reso noto di aver eliminato in Siria un esponente di Hamas conosciuto come Hassan Akasha, ritenuto responsabile del lancio di razzi verso il Nord di Israele nelle ultime settimane. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/ucciso-capo-militare-hezbolla-2666901916.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-piano-b-di-kiev-e-viktor-orban" data-post-id="2666901916" data-published-at="1704748527" data-use-pagination="False"> Il «piano B» di Kiev è Viktor Orbán Il futuro della guerra in Ucraina molto probabilmente dipenderà dal premier ungherese Viktor Orbán. Una serie di eventi lo hanno fatto diventare la pedina più importante di questo conflitto e ad accorgersene è soprattutto il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba che, in un’intervista a El Paìs, ha rivelato che non esiste un piano B all’invio di aiuti militari da parte di Stati Uniti e Unione europea. Kuleba ha cercato così di persuadere gli alleati occidentali a inviare rifornimenti adesso, prima che diventi troppo tardi. «Se si decide di sospendere o negare» ora gli aiuti all’Ucraina, «a causa della mancanza di risorse la Russia potrebbe avere successo sul campo di battaglia e rompere le linee» e a quel punto «ci sarà una reazione pubblica molto forte» a favore del sostegno a Kiev «e gli stessi politici che hanno deciso di negare gli aiuti decideranno di fornirli, ma in circostanze estreme. Quindi, anche da una prospettiva razionale, ha più senso fornire assistenza ora per evitare una crisi in futuro», ha spiegato il titolare degli esteri ucraino. Ma se da un lato Kiev teme Orbán, responsabile dell’interruzione di rifornimenti a causa del veto posto lo scorso dicembre, dall’altro ha intenzione di tentare una mediazione. L’idea è quella di fissare un incontro tra il premier ungherese e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky per «esaminare l’agenda e risolvere tutti i problemi». Insomma la strada è obbligata: bisogna trattare con Orbán e convincerlo a far cadere il veto, soprattutto adesso che dopo l’annuncio della candidatura del presidente del Consiglio Ue, Charles Michel, rischia di andare a coprire il ruolo di presidente. Intanto il primo febbraio si terrà un vertice straordinario per parlare del dossier della revisione del bilancio europeo, con la previsione di un’assistenza finanziaria da 50 miliardi a favore dell’Ucraina. «La prima opzione è che sulla revisione del bilancio comune si arrivi a una intesa a 27 ma un piano B c’è», ha detto il ministro delle Finanze belga, Vincent van Peteghem, lasciando intendere che si potrebbe arrivare a un modo di fornire aiuti a Kiev aggirando il veto di Orbán.Nel frattempo il capo dell’Ufficio del presidente ucraino, Andriy Yermak, ha avuto un colloquio telefonico con l’inviato speciale di papa Francesco per la missione di pace in Ucraina, il cardinale Matteo Maria Zuppi. Yermak ha informato il cardinale Zuppi «sulla situazione dei massicci attacchi missilistici effettuati dalla Russia contro l’Ucraina negli ultimi dieci giorni». Poco prima, sempre Yermak aveva avuto un colloquio telefonico anche con il Segretario di Stato vaticano, il cardinale Pietro Parolin. Sul campo la mancanza di armi si fa sentire. Le forze aeree ucraine non sono in grado di coprire tutti i cieli con i sistemi di difesa. A dirlo lo stesso portavoce delle forze aeree, Yurii Ihnat, e Mosca ne approfitta per intensificare i suoi attacchi. Ieri l’esercito russo ha lanciato contro l’Ucraina 59 tra missili di diverso tipo e droni, la difesa ucraina ne ha abbattuti meno della metà: 18 missili e 8 velivoli senza pilota. Mosca ha affermato di aver colpito siti industriali e militari, sottolineando di avere impiegato anche missili ipersonici Kinzhal. Allo stesso tempo, però, le forze ucraine sono riuscite a distruggere un ponte ferroviario strategico costruito dai russi vicino alla città occupata di Mariupol, che serviva per il progetto di ferrovia fra la Russia e la Crimea occupata. Mentre la guerra va avanti il Wall Street Journal rivela nuove indiscrezioni circa il sabotaggio del Nord Stream. Secondo il quotidiano americano, la Polonia avrebbe cercato di ostacolare le indagini rifiutandosi di collaborare e nascondendo prove chiave.
MR. BRAINWASH, Banksy thrower, opera unica su carta, 2022
Contrariamente a quanto si possa pensare, la street art, così straordinariamente attuale e rivoluzionaria, affonda le sue radici negli albori della storia: si può dire che parta dalle incisioni rupestri (i graffiti primitivi sono temi ricorrenti in molti street artist contemporanei) e millenni dopo, passando per le pitture murali medievali, i murales politici del dopoguerra e il « muralismo » messicano di Diego Rivera, José Clemente Orozco e David Alfaro Siqueiros, approdi nella New York ( o meglio, nel suo sottosuolo…) di fine anni ’60, dove tag, firme e strani simboli si moltiplicano sui treni e sui muri delle metropolitane, espressione di quella nuova forma d’arte che prende il nome di writing, quell’arte urbana che è la «parente più prossima » della street art, meno simbolica e più figurativa.
E quando si parla di street art, il primo nome che viene in mente è in assoluto quello di Banksy, la figura più enigmatica della scena artistica contemporanea, che ha fatto del mistero la sua cifra espressiva. Banksy è «l‘ artista che non c’è » ma che lascia ovunque il segno del suo passaggio, con una comunicazione che si muove con intelligenza tra arte e media: i suoi profili social sono il primo canale di diffusione e le sue opere, spesso realizzate con stencil (una maschera normografica su cui viene applicata una vernice, così da ottenere un'immagine sullo spazio retrostante), sono interventi rapidi nello spazio urbano, capaci di coniugare arte e messaggio politico. Quella di Bansky è un’arte clandestina, quasi abusiva, fulminea, che compare dal nulla un po’ovunque, in primis sui grandi scenari di guerra, dal muro che divide Israele e Palestina ai palazzi bombardati in Ucraina. Le sue immagini, dall’iconica Balloon Girl (la ragazzina con un palloncino rosso a forma di cuore) ai soldati che disegnano il segno della pace, dai bambini con maschere antigas, alle ragazzine che abbracciano armi da guerra, sono ironiche e dissacranti, a volte disturbanti, ma lanciano sempre messaggi politici e chiare invettive contro i potenti del mondo.
Ed è proprio il misterioso artista (forse) di Bristol il fulcro della mostra a Conegliano, curata da Daniel Buso e organizzata da ARTIKA in collaborazione con Deodato Arte e la suggestiva cittadina veneta.
La Mostra, Keith Haring e Obey
Ricca di 80 opere, con focus sulla figura di Bansky ( particolarmente significativa la sua Kids on Guns, un'opera del 2013 che rappresenta due bambini stilizzati in cima a una montagna di armi, simbolo della lotta contro la violenza), la mostra si articola attorno a quattro grandi temi - ribellione, pacifismo, consumismo e critica al sistema – ed ospita, oltre all’enigmatico artista britannico, altri due guru della street art: Keith Haring e Shepard Fairey, in arte Obey.
Convinto che «l’arte non è un’attività elitaria riservata all’apprezzamento di pochi: l’arte è per tutti e questo è il fine a cui voglio lavorare» Haring (morto prematuramente nel 1990, a soli 32 anni, stroncato dall’AIDS) ha creato un nuovo linguaggio comunicativo caratterizzato da tematiche legate alla politica e alla società, facendo degli omini stilizzati e del segno grafico nero i suoi tratti distintivi; Fairey, in arte Obey, attualmente uno degli street artist più importanti ( e discussi) al mondo, si è fin da subito reso conto di come la società in cui è nato e cresciuto lo abbia condotto all’obbedienza senza che lui se ne rendesse conto: da qui la scelta di chiamarsi Obey , che significa obbedire.
Bansky, Haring , Obey, praticamente la storia della street art racchiusa in una mostra che non è solo un'esposizione di opere d'arte, ma anche un'occasione per riflettere sulle contraddizioni di questo oramai popolarissimo movimento artistico e sul suo ruolo nella società contemporanea. Alla domanda se un’arte nata per contestare il sistema possa oggi essere esposta nei musei, venduta all’asta e diventare oggetto di mercato, non vengono offerte risposte, ma contributi per stimolare una riflessione personale in ogni visitatore. Perché, in fondo, anche questa è la forza della Street Art: porre questioni più che dare certezze...
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Da sx in alto: americani della 92ª Divisione, alpini della Divisione «Monterosa», paracadutisti tedeschi e la frazione di Sommocolonia oggi. Garfagnana, 26 dicembre 1944
La battaglia della Garfagnana, nota come Operazione «Wintergewitter» (tempesta invernale) fu l’ultima controffensiva delle forze dell’Asse sul fronte italiano. Iniziò la notte tra Natale e Santo Stefano del 1944 per terminare tre giorni più tardi. L’obiettivo, pur presentando scarse se non nulle possibilità di raggiungerlo, era quello di arrestare l’avanzata alleata lungo il fronte della linea Gotica allora in stallo per l’inverno rallentando l’avanzata degli angloamericani che puntavano verso Bologna e la Pianura Padana. Il teatro delle operazioni fu la valle del Serchio nella Garfagnana, in provincia di Lucca, dove gli americani del 92° Infantry Regiment, i famosi «Buffalo Soldiers» a maggioranza afroamericana, si erano acquartierati nei giorni precedenti al Natale, ritenendo le ostilità in pausa. L’effetto sorpresa era proprio il punto cardine dell’operazione pianificata dal comando tedesco guidato dal generale Otto Fretter-Pico. Le forze dell’Asse consistevano sostanzialmente di reparti da montagna, i «Gebirgsjaeger» tedeschi e gli alpini italiani della Divisione «Monterosa», uno dei primi reparti addestrati in Germania dopo la nascita della Repubblica Sociale. L’attacco fu fissato per la mezzanotte, tra il 25 e il 26 dicembre e procedette speditamente. I reparti speciali tedeschi e gli alpini iniziarono una manovra di accerchiamento da Montebono per Bobbio, Tiglio e Pian di Coreglia, mentre un reparto leggero prendeva in poche ore Sommocolonia. Contemporaneamente tutti i reparti si muovono, compreso un nucleo del Battaglione «San Marco», che in poco tempo occupava Molazzana. Entro la sera di Santo Stefano la linea dei Buffalo Soldiers era sfondata, mentre i reparti americani arretravano in massa. I prigionieri erano circa 250, mentre numerose armi e munizioni venivano requisite. Anche vettovaglie e generi di conforto cadevano nelle mani degli attaccanti.
Gli americani praticamente non reagirono, ma si spostarono in massa verso la linea difensiva di Bagni di Lucca. Per un breve tempo sembrò (soprattutto agli italiani, mentre i tedeschi sembravano paghi della riuscita sorpresa) che il fronte potesse cedere fino in Versilia e verso Livorno. L’ordine di Fretter-Pico di arrestare l’avanzata fu una doccia fredda. Le ragioni dell'arresto risiedevano principalmente nella difficoltà di mantenere le posizioni, la scarsità ormai cronica di uomini e munizioni (c’era solo l’artiglieria, nessun carro armato e soprattutto nessun supporto dall’Aviazione, praticamente sparita dai cieli del Nord Italia). Gli americani invece avevano il dominio assoluto del cielo, con i cacciabombardieri che potevano decollare dai vicini aeroporti della Toscana occupata, come quelli di Grosseto e Rosignano. Tra il 27 e il 30 dicembre 1944 i P-47 Thunderbolt dell’Usaf bombardarono a tappeto, mietendo vittime soprattutto tra la popolazione civile. La linea difensiva dell’Asse ritornò nei giorni successivi alle posizioni di partenza, mentre il fronte si assestava fino all’inizio del febbraio 1945 quando gli alleati lanciarono l’operazione «Fourth Term», che portò in pochi giorni alla conquista della Garfagnana. Durante l’operazione «Wintergewitter» lo scontro più violento si verificò nell’abitato di Sommocolonia dove la guarnigione americana perse quasi tutti gli uomini, compreso il proprio comandante tenente John R. Fox che, vistosi ormai circondato dai tedeschi, chiese all’artiglieria della 92ª di sparare sull’abitato nel tentativo disperato di rallentare l’attacco a sorpresa. Morì sotto le macerie della sua postazione e solamente nel 1997 fu insignito della medaglia d’onore.
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Lee Raybon avrebbe ambizioni da detective. Non da investigatore tout court. Piuttosto, vorrebbe essere un reporter, di quelli capaci - forti solo delle proprie risorse - di portare a termine indagini e inchieste, di dar forma alle notizie prima ancora che queste vengano diffuse dalle autorità competenti.
L'ambizione, tuttavia, è rimasta tale, nel corso di un'esistenza che ha costretto Raybon a ripiegare su altro per il mero sostentamento. Si è reinventato libraio, Lee Raybon, gestendo di giorno un negozio di libri rari. La notte, però, ha continuato a seguire il cuore, dando spazio alle sue indagini scalcagnate. Qualcuna è riuscito a trasformarla in articolo di giornale, venendola alle pagine di cronaca locale di Tulsa, città che ospita il racconto. E sono i pezzi ritagliati, insieme ai libri ormai giallognoli, ad affollare l'apportamento di Raybon, che la moglie ha mollato su due piedi, quando ben ha realizzato che non ci sarebbe stato spazio per altro nella vita di quell'uomo. Raybon, dunque, è rimasto solo. Non solo come il crime, per lo più, ha raccontato i suoi detective. Non è, cioè, una solitudine disperata, quella di Raybon. Non c'è tristezza né emarginazione. C'è passione, invece: quella per un mestiere cui anche la figlia dell'uomo sembra guardare con grande interesse.
Francis, benché quattordicenne, ha sviluppato per il secondo mestiere del padre una curiosità quasi morbosa, in nome della quale ha cominciato a seguirlo in ogni dove, partecipando lei pure alle indagini. Cosa, questa, che si ostina a fare anche quando la situazione diventa insolitamente complicata. Lee Raybon ha messo nel mirino i Washberg, una tra le famiglie più potenti di Tulsa. Ma uno di loro, Dale, si è tolto la vita, quando l'articolo di Raybon sulle faccende losche della dinastia è stato pubblicato su carta. Perché, però? Quali segreti nascondo i Washberg? Le domande muovono la nuova indagine di Raybon, la sostanziano. E, attorno alla ricerca di risposte, si dipana The Lowdon, riuscendo a bilanciare l'irrequietezza del suo protagonista, il suo cinismo, con il racconto di una dinamica familiare di solito estranea al genere crime.
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