2019-07-14
Uccidere per schiavitù dai social network
Posta un video in diretta su Facebook ma l'auto sbanda. Muore un ragazzino, ferito il fratellino, padre in coma. Siamo connessi con le app, ma disconnessi dal mondo reale. Quella degli smartphone è una forza d'urto micidiale che ci ipnotizza e ci rende zombie.Adesso che faccina scegliamo? Quella della pietà, che presuppone il silenzio, il signor Mark Zuckerberg non l'ha ancora inventata. E noi, marionette del sabba digitale h24 l'abbiamo dimenticata. Eppure è la pietà l'unico approccio umile e solenne alla tragedia di Alcamo, esterno notte, quando sull'autostrada Palermo-Trapani, Fabio Provenzano lancia la sua Bmw 320 dentro il buio con accanto i figli Antonino (13 anni) e Francesco (9). E per testimoniare il brivido, la follia o semplicemente per sentirsi connesso con il suo mondo, prende lo smartphone e attiva un Facebook live. Sul video si vede lui e si intuisce una sterzata dentro il nulla. Poi la realtà ci conduce all'obitorio dove giace Antonino e in una sala di rianimazione dell'ospedale dove Francesco e quel padre sono intubati in gravissime condizioni. L'automobile si è rovesciata più volte, la velocità era sostenuta e i medici sussurrano una parola sola: coma.Basterebbe tutto questo a pietrificare le voci e le coscienze, a far scomparire il famigerato rumore di fondo di una società prigioniera di una nano-sim. Ci sono fatti e sentimenti da capire, ci sono domande che sembrano sentenze: quanti secondi o minuti dopo il video regolarmente postato è avvenuto l'incidente? Quanta percentuale di stupida superficialità e di lucida disperazione c'è in quel gesto assurdo? Ma sul pianeta social valgono solo le risposte. E mentre due esseri umani sono appesi al filo della vita (Francesco viene dato morto un paio di volte nella giornata), sul profilo del fruttivendolo di 37 anni che ha trascinato i figli dentro l'orrore si scatena un altro inferno. Quello di chi giudica, di chi avverte il bisogno fisiologico di partecipare, spesso di infierire, con la leggiadria che si dedica all'atto di sollevare l'asse del water. Prima di essere chiusa da una mano degna, quella pagina web viene invasa dai commenti, dalle accuse, dall'indignazione un tanto al chilo. «Due bimbi morti, che commento si può fare?», «Si può essere così incoscienti?», «Guidare filmando, vergogna», sono le frasi più gentili, perfino comprensibili. Poi ecco gli insulti, ecco il dito accusatore da giudizio universale («Invece di pensare a guidare fanno i buffoni», «Guarda allo specchio invece di guardare avanti, ha ammazzato i suoi figli»). È una Spoon River guidata dall'algoritmo, che ogni dieci post ne porta alla luce uno cristiano: «Abbiate compassione per la famiglia. Rispetto per le vittime, riposate in pace piccoli».È un'onda di piena, è l'altra faccia della stessa follia, quella della connessione perenne e della degenerazione cartesiana «partecipo ergo sum». E se è vero che lo strumento non può essere chiamato a sostituire le responsabilità di chi lo utilizza male, è tanto più vera in quella babele di commenti la frase di Mariella: «Chi non ha peccato scagli la prima pietra, tutti leoni da tastiera ma vorrei vedere se chi sta criticando non fa la medesima cosa». Ecco il punto, la schiavitù dai social network e il loro impatto mortale sulle strade del pianeta. Aveva capito tutto Arthur C. Clarke: quel parallelepipedo nero di 2001 Odissea nello spazio è un telefonino e le scimmie che si ammazzano con la clava mentre imperversano le note di Richard Strauss siamo noi. Noi pony rider che sfrecciamo in volate senza senso, guardando solo Google maps, per consegnare un minuto prima la pizza Avocado e speck per due euro di mancia. Noi che finiamo sotto il treno mentre ascoltiamo Rihanna a palla nelle cuffie. Noi che ci incastriamo in strettoie da carrozza con i cavalli, dentro pievi medioevali, con autoarticolati lituani mentre il navigatore «ricalcola». Noi che con una mano telefoniamo per prenotare l'apericena, con l'altra mandiamo a quel paese il pedone sfiorato mentre pedaliamo sui marciapiedi con la protervia di ussari di Napoleone. Noi così devastati da rischiare la vita sui monopattini a motore vietati invadendo ogni spazio possibile mentre il sindaco Beppe Sala in calzette arcobaleno ci incoraggia: «Milano è bike friendly, da noi siete liberi». Salvo poi realizzare monumenti dove il povero ciclista intento a twittare viene schiacciato dal Tir o dall'autobus (con conducente su Whatsapp). Quella degli smartphone e delle loro applicazioni è una forza d'urto micidiale, ci ipnotizza, ci rende zombie. Somiglia a quella della televisione di 40 anni fa con una differenza: la televisione stava ferma in tinello. Nel mondo globalizzato, se non sei così non sei nessuno, a costo della pelle. Come scrive la sociologa americana Sherry Turkle, siamo «Alone together», soli insieme. Connessi con le app, ma disconnessi dal mondo reale. Solo nel 2018 in Italia, gli incidenti per distrazione alla guida da uso del cellulare sono stati 46.000. E le statistiche di settore mettono i brividi: il 40% degli automobilisti italiani ammette di distrarsi alla guida per smanettare con navigatori e computer. Fra i neopatentati la percentuale sale drammaticamente all'84%. Inutile continuare nelle ricerche, l'automobile senza guidatore è già fra noi.Ora la politica prova a mettere un freno e dopo la droga libera arriva il metadone. A seguito di un'ecatombe di incidenti e di uno sciopero epocale dei tassisti, a New York è già legge il divieto ai pedoni di utilizzare il cellulare mentre attraversano la strada, con multe da 25 a 250 dollari. Anche in Italia è in arrivo un codice della strada più attento ai deliri sociali con caricabatterie: chi verrà sorpreso alla guida con smartphone, tablet, computer (ma anche ombretti e rossetti) «che comportino anche solo momentaneamente l'allontanamento delle mani dal volante» si acchiappa una multa di 422 euro con sospensione della patente fino a due mesi.La sensazione è che sul pianeta delle nano-sim al potere i buoi siano scappati. Nulla di tutto questo può restituire il sorriso ad Antonino o lenire il feroce, eterno rimorso di suo padre. Il problema in fondo siamo noi, felici di eternare la nostra giovinezza dentro un videogioco. Bambini nel tempo. Child in Time dei Deep Purple sarà anche il più straordinario brano della storia del rock (copyright Michel Houellebecq), ma non può essere un progetto di società.
Come si raccontano ristoranti, piatti e grandi chef sulla Rete? Ne parliamo con due esperti del settore che ci regalano consigli e aneddoti.