2025-05-14
Alla fine tutti i negoziati portano a Erdogan
Mark Rutte e Recep Tayyip Erdogan (Ansa)
La comunità internazionale guarda ancora al Sultano per il suo ruolo di mediatore tra Russia e Ucraina. Ma questo tavolo è solo l’ultimo che vede la Turchia come perno nelle mediazioni delle crisi, dal Caucaso al Medio Oriente, dai Balcani fino al Corno d’Africa.Il leader di Hamas era in un bunker sotterraneo. Netanyahu: «Presto entreremo a Gaza».Lo speciale contiene due articoli.In queste ore l’attenzione della comunità internazionale è puntata tutta su Istanbul, dove a partire da giovedì si svolgeranno nuovi incontri negoziali tra Russia e Ucraina. L’iniziativa, specie se avrà successo, potrebbe rappresentare un passaggio decisivo nel tentativo di fermare una guerra che dura da oltre tre anni. In ogni caso, Recep Tayyip Erdogan - che ha mantenuto fin dall’inizio del conflitto un canale di comunicazione aperto sia con Mosca che con Kiev - è tra i pochi leader sulla scena internazionale a godere della fiducia di entrambe le parti in causa. Donald Trump ha definito l’appuntamento «di grande rilevanza» e ha espresso apprezzamento per l’impegno della Turchia e del suo leader nel facilitare il confronto. «Mi sono battuto affinché questo faccia a faccia si concretizzasse e credo che ne possano scaturire sviluppi promettenti», ha detto il presidente americano in una dichiarazione ai media. Le parole di Trump arrivano in un momento in cui Ankara rafforza la propria posizione come interlocutore centrale nei processi diplomatici internazionali. Inoltre, Ankara ha appena registrato la decisione del Comitato direttivo del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), organizzazione armata curda attiva in Turchia, che ha annunciato lo scioglimento del gruppo. La decisione è maturata al termine di un congresso straordinario, convocato proprio per deliberare sulla fine delle attività del movimento. Lo scioglimento era atteso da settimane: lo scorso 27 febbraio, il leader storico del Pkk, Abdullah Öcalan, aveva inviato una lettera dal carcere chiedendo ufficialmente la cessazione della lotta armata e lo smantellamento del partito. A seguito di quell’appello, il comitato direttivo aveva proclamato un cessate il fuoco con lo Stato turco e fissato la convocazione del congresso per ratificare la svolta storica. Piaccia o meno, Erdogan sa giocare su tutti i tavoli, compreso quello della Nato, e in tal senso ieri ha ricevuto ad Ankara il segretario generale designato dell’Alleanza atlantica Mark Rutte al quale ha ribadito l’impegno della Turchia nel promuovere una soluzione diplomatica al conflitto tra Russia e Ucraina. Secondo quanto riportato dalla stampa turca, Erdogan ha sottolineato che Ankara ha intensificato «gli sforzi per favorire una pace duratura e giusta». Nel corso del colloquio il leader turco ha riferito di aver avuto contatti diretti con il presidente russo Vladimir Putin e quello ucraino Volodymyr Zelensky, riaffermando il pieno sostegno della Turchia all’istituzione di un cessate il fuoco. Erdogan ha inoltre ribadito la sua posizione contraria a un coinvolgimento diretto della Nato nel conflitto, affermando che «non si deve perdere l’opportunità per la pace». Il presidente turco durante l’incontro ha anche informato Rutte che la Turchia riprenderà il comando della Kosovo Force della Nato. Negli ultimi anni Ankara ha assunto un ruolo sempre più attivo e riconosciuto nella mediazione delle crisi, spaziando dal Caucaso al Medio Oriente, dai Balcani al Corno d’Africa. La crescente centralità turca non è frutto del caso ma il risultato di una strategia perseguita nel tempo, fondata su quattro capisaldi: neutralità, profondità storica delle relazioni, abilità negoziale e una collocazione geografica di assoluto rilievo. A proposito di questo, nel 2001 uscì un libro scritto da Ahmet Davutoglu, all’epoca politologo quasi sconosciuto (che diventerà poi primo ministro della Turchia dal 28 agosto 2014 al 24 maggio 2016), intitolato La Posizione internazionale della Turchia. Nel volume Davutoglu teorizza la dottrina delle «profondità strategica» della Turchia che secondo il politologo non doveva accontentarsi del ruolo di media potenza regionale, ma puntare a una posizione di rilievo sulla scena globale. Davutoglu fonda la sua teoria su un presupposto considerato oggettivo: la centralità geografica della Turchia in una regione di straordinaria rilevanza strategica, che abbraccia i Balcani, il Mar Nero, il Caucaso, il Mediterraneo orientale, il Golfo Persico e l’Asia Centrale. Secondo questa visione, tale posizione conferisce ad Ankara un ruolo imprescindibile nella gestione delle crisi e nella promozione del dialogo tra i Paesi dell’area, rendendola un interlocutore chiave per qualunque tentativo di stabilire forme di cooperazione regionale. Tra le principali conquiste recenti della diplomazia turca figura l’«Iniziativa sul grano del Mar Nero», lanciata nel luglio 2022, che ha permesso la ripartenza delle esportazioni agricole ucraine, bloccate a causa della guerra, contribuendo a mitigare le pressioni internazionali sulla sicurezza alimentare. Nello stesso anno Istanbul è stata teatro di un importante scambio di prigionieri tra Russia e Ucraina, oltre che di un incontro diretto tra i ministri degli Esteri delle due nazioni. L’azione diplomatica di Ankara, però, si estende ben oltre i confini europei. Nel dicembre 2024, la Turchia ha avuto un ruolo determinante nella mediazione di un accordo storico tra Etiopia e Somalia, che ha posto fine a una crisi nata in seguito all’intesa tra Addis Abeba e il Somaliland. Nel Caucaso, Ankara ha offerto sostegno politico e militare all’Azerbaigian nella riconquista del Nagorno-Karabakh, per poi favorire l’avvio di un processo di dialogo con l’Armenia. A livello globale, nell’agosto 2024, l’intelligence turca (Mit) ha orchestrato uno scambio multilaterale di detenuti che ha coinvolto sette Paesi, tra cui Stati Uniti, Russia, Germania e Bielorussia.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/turchia-negoziati-ucraina-2672012714.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="lidf-colpisce-lospedale-di-khan-yunis-i-media-israeliani-ucciso-sinwar" data-post-id="2672012714" data-published-at="1747199000" data-use-pagination="False"> L’Idf colpisce l’ospedale di Khan Yunis. I media israeliani: «Ucciso Sinwar» Secondo fonti israeliane, il leader di Hamas, Mohammed Sinwar, è stato ucciso. Ieri pomeriggio un raid dell’Idf ha colpito l’ospedale di Khan Yunis con l’obiettivo, dichiarato, di eliminare il terrorista, nonché fratello di Yahya Sinwar, precedente capo dell’organizzazione terroristica. Stando a quanto ha riportato una fonte israeliana a Yinet, il primo bombardamento sarebbe stato condotto senza informare Washington, anche perché la decisione è stata presa in fretta, cogliendo «un’opportunità improvvisa». Poco dopo ci sarebbe stato un altro raid sempre vicino allo stesso ospedale del Sud di Gaza. L’Idf e lo Shin bet hanno dichiarato di aver condotto l’attacco contro i terroristi di Hamas in un centro di comando sotterraneo, al di sotto quindi dell’ospedale. Mohammed Sinwar ha assunto le redini di Hamas dopo l’uccisione del fratello e come lui è «capace di uccidere senza esitazione», secondo i racconti di chi lo ha conosciuto. Considerato uno degli architetti della strage del 7 ottobre, è stato tra i primi a essere reclutato nell’organizzazione terroristica. Nel 2006 aveva organizzato il rapimento del soldato israeliano Gilad Shalit per ottenere lo scambio dei prigionieri e liberare così il fratello Yahya, al tempo detenuto in Israele. Poche ore prima dal raid israeliano, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato: «Non ci sarà alcuna situazione in cui fermeremo la guerra». Bibi ha anche fatto presente che l’esercito israeliano è pronto a entrare «con tutta la sua forza» a Gaza nei prossimi giorni «per completare l’operazione e sconfiggere Hamas». Ieri il premier israeliano ha anche dichiarato che è alla ricerca di Paesi disposti ad accogliere i gazawi. A tal fine, ha reso noto che è stato creato «un istituto che permetterà loro di andarsene», stimando che «oltre il 50 per cento» dei residenti di Gaza sarebbero pronti a lasciare la Striscia. Intanto ieri il presidente americano Donald Trump, la cui agenda non prevede una sosta in Israele, ha iniziato la sua missione in Medio Oriente. Ieri è stato accolto all’aeroporto di Riad dal principe ereditario saudita, Mohammed bin Salman. «Credo davvero che ci piacciamo molto» ha detto il tycoon rivolgendosi al principe, con le parole che hanno trovato conferma nei fatti. «Il più grande accordo di vendita per la difesa della storia, del valore di 142 miliardi di dollari» è stato firmato ieri tra gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita e prevede la fornitura a Riad di «attrezzature e servizi bellici all’avanguardia da oltre una dozzina di aziende statunitensi del settore». Dall’altra parte, l’Arabia Saudita si impegna «a investire 600 miliardi di dollari negli Stati Uniti» con l’obiettivo di «rafforzare la sicurezza energetica, l’industria della difesa, la leadership tecnologica e l’accesso alle infrastrutture globali e ai minerali essenziali». Nel pomeriggio, dal forum di investimenti Usa-Arabia Saudita, il tycoon ha annunciato di voler offrire all’Iran «una nuova e migliore strada verso un futuro molto più promettente», ricordando però che quest’opportunità «non dura per sempre». Tra l’altro allo stesso evento hanno partecipato anche i ceo delle big tech americane. Se ieri il presidente degli Stati Uniti ha celebrato gli 80 anni dei rapporti tra Washington e Riad, oggi Trump saluterà il leader di un Paese con cui la Casa Bianca non si incontra da 25 anni: il presidente della Siria, al-Jolani. Già ieri il tycoon ha annunciato che ordinerà «la fine delle sanzioni contro la Siria».
Francesca Albanese (Ansa)
La sede della Corta penale internazionale dell’Aia (Ansa)